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Autore: Collyn    05/09/2017    1 recensioni
Cara non sa molte cose: quale sia il vero viso di sua madre, ad esempio, o se quella in cui vive ora sia davvero casa sua o soltanto l'ennesima sosta di pochi mesi prima che suo padre la costringa a fare le valigie e partire di nuovo, verso mete sempre più lontane. Ma ci sono due cose che sa con assoluta certezza: la prima è che ha amato Haley, l'ha amata davvero; la seconda è che, con ogni probabilità, è stata proprio lei ad ucciderla.
Will, al contrario, sembra avere tutta la sua vita sotto controllo. Nella sua ordinarietà, sa bene qual è la quantità giusta di cibo da mangiare per non essere considerato troppo anormale, il numero esatto di passi che da casa sua deve compiere fino al bar in cui lavora prima che la voglia di andarsene prenda il sopravvento e il limite di sigarette da fumare a settimana per evitare di prendersi il vizio.
Ma ci sono sicurezze che bisogna essere disposti a perdere, soprattutto quando anche la certezza di vivere inizia a vacillare. Perché Cole, al contrario, è sicuro di una cosa soltanto: è disposto a tutto pur di vendicare la morte della sorella.
Genere: Drammatico, Mistero, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza | Contesto: Contesto generale/vago
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"I knock the ice from my bones
Try not to feel the cold
Caught in the thought of that time
When everything was fine, everything was mine
Everything was fine, everything was mine

All the king's horses and all the king's men
Couldn't put me back together again
All the king's horses and all the king's men
Couldn't put me back together again"

All The King's Horses - Karmina
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Quando arriviamo alla stazione di polizia, mi rendo conto di essere fin troppo intorpidita a causa del Demerol per poter essere considerata totalmente sveglia. Lancio un'ultima occhiata a mio padre, che, con le braccia incrociate rigidamente al petto e l'espressione incerta, si sta probabilmente chiedendo se abbia fatto bene a sottostare alla mia richiesta di non entrare, di aspettarmi fuori. Credo che pensi che sia stato più che altro un momentaneo bisogno di indipendenza (d'altronde, ormai ho diciotto anni) a farmi prendere una decisione simile, o un astio nei suoi confronti che, anche in una simile situazione, continua a cercare di allontanarlo, quindi ha semplicemente accettato la mia decisione a testa bassa.

Non è mai stato quel tipo di persona che dà troppa importanza ai pensieri e ai sentimenti degli altri, se non presentano analogie con i suoi: diciamo che, secondo lui, se una volta le mie azioni erano giustificate dall'adolescenza, ora che sono cresciuta e mi ritrovo sulla soglia dell'età adulta, queste possono soltanto essere generate o da un comprensibile bisogno di allontanarmi da lui e dalla vita famigliare o dal mio malanimo. Ma, per quanto io abbia realmente bisogno di staccarmi da lui, posso dire con certezza che la mia richiesta non sia nata da questo. Non avrebbe senso. E, in realtà, non sono affatto sicura di poter capire io stessa i ragionamenti che mi stanno vorticando in testa come un tornado. So solo che, se lui entrasse, diventerebbe tutto troppo reale per poter essere sopportato.

Dopo aver seguito gli agenti oltre la porta, incontro un poliziotto in borghese del reparto investigativo, con i capelli castani unti e la tipica pancetta da alcolizzato con una moglie troppo stanca dalla propria vita per riprenderlo. O, in alternativa, addirittura senza. Credo che il suo turno stesse per finire, perché, per il tempo in cui rimaniamo insieme, lui sbuffa così spesso che, se gli chiedessi di lasciarmi da sola e prendersi una pausa-caffè, penso che lo farebbe senza porsi troppi problemi riguardanti le sue mansioni obbligatorie.

Mi porta a farmi scattare una serie di fotografie, quasi per il puro gusto sadico di sbattermi in faccia l'aspetto terribile che devo avere in questo momento, in un mix di vestiti sgualciti, viso pesto e andamento zoppicante, con un pizzico di Demerol per completare il tutto con stile. Le prime pose sembrano andare a catturare ogni singolo livido e graffio, che prima avevo cercato, in qualche modo, di nascondere, mentre l'ultima, in piedi con il numero identificativo, mi fa quasi pensare che, in realtà, tutto questo non sia altro che uno di quei film polizieschi che mi annoiano da morire. Posso solo immaginare quanto debba essere importante la cosmesi di un tentato omicidio per dimostrare la tesi davanti al giudice, e sicuramente il mio abbigliamento aiuta ad avvalere la tesi che mi abbiano malmenata.

Dopo quest'operazione, mi affida al detective Doyle, che, nonostante la sua stazza e il suo sguardo corrucciato, incute ben poca paura, forse a causa del suo modo quasi maniacale di strofinarsi le mani sudate e dei pochissimi capelli spettinati come una vecchia spazzola usata. Mi porta in quella che capisco essere la stanza degli interrogatori, dalla pianta quadrata e i muri bianchi rivestiti da uno strato insonorizzante, deprimenti quasi quanto quelli dell'ospedale, per raccogliere la mia dichiarazione. La stanchezza fisica, però, che fino a questo momento sono riuscita a controllare abbastanza abilmente, inizia a darmi una sensazione agrodolce di intorpidimento alle gambe, rendendo difficile anche solo la semplice operazione di tenere gli occhi aperti. Non sono affatto lucida, me ne rendo conto, e, sinceramente, dubito di riuscire a fornire un resoconto dei fatti abbastanza dettagliato.

Lui è cortese. Non gentile, quella è un'altra cosa, ma cortese. Mi chiede come mi sento, se voglio qualcosa da bere, si interessa (o forse fa finta di interessarsi) della mia condizione fisica e mentale. Credo stia cercando di stabilire una sorta di rapporto di fiducia con me, anche se non mi è ben chiaro il motivo: non sono io l'indagata e sicuramente non c'è nulla che potrebbe mai fermarmi dal raccontare ogni dettaglio di ciò che quel pazzo figlio di puttana non è riuscito a portare a termine.

"Allora, Cara, ora voglio che tu racconti ciò che è successo l'altra sera, okay? Io registrerò tutto. Sei pronta?"

Ha la voce strascicata e stanca di chi con la mente si trova ancora a riposare nel letto prima che la sveglia suoni, ma lo sguardo è attento e non si fa problemi a fermarsi ogni tanto su qualche livido che mi decora il viso e il collo. Credo che provi soggezione nel guardarmi dritto negli occhi, ma non so esattamente se per colpa delle emozioni che potrebbe scorgervi o per il rosso sangue assolutamente innaturale della sclera del mio occhio destro. Faccio un veloce cenno d'assenso, intrecciando le dita sotto il tavolo di freddo metallo lucido, ancora stranita dall'idea di raccontare l'accaduto ad un estraneo.

"Ero uscita per andare a comprare qualcosa al supermercato. Il frigorifero era vuoto e io stavo morendo di fame perché a pranzo non avevo mangiato nulla a causa di una litigata avuta con mio padre..."

Mi blocco quando noto l'occhiata burocratica che Doyle mi lancia, come per ammonirmi. Attieniti ai fatti sembra dire con rimprovero.

Giusto. Devo attenermi alla mia parte di vittima, no? Non mi sto confidando con il mio diario segreto, dopotutto. Qui sicuramente a nessuno fregherebbe niente di come io mi sia sentita mentre riuscivo a percepire la vita scivolarmi via dalle vene o di come mi senta ora, mentre, imbottita di antidolorifici e salva per una casualità, sono costretta a ricordare cose che vorrei avere già dimenticato. Dopotutto è giusto che sia così. Non gli interessano i vari dettagli della mia vita, dal suo punto di vista totalmente irrilevanti rispetto a ciò che mi è successo. Ma il fatto è che non posso fare a meno di pensare a quell'incontro/scontro come a un qualcosa di totalmente casuale, un qualcosa che, se solo mi fossi svegliata poco più tardi, se solo mio padre non fosse uscito, se solo non si fosse dimenticato di fare la spesa, se solo non avessi saltato il pranzo, probabilmente non sarebbe mai successo.

"Sai dire che ore fossero più o meno?"

"Le otto, credo. Era già buio fuori quando sono uscita."

Lui annuisce, prendendo la sedia ancora vuota e accomodandocisi rigidamente, con la schiena dritta e le gambe allungate. Tutta questa situazione è così paradossale che per un momento ho pensato che ci si sarebbe seduto a cavalcioni, con i gomiti appoggiati sullo schienale e lo sguardo indagatore tipico dei detective nei telefilm. Il suo, però, è soltanto stanco.

"Quindi intorno alle otto sei uscita per comprare la cena per te e tuo padre..."

"Oh, no" lo interrompo. "Mio padre non era in casa. C'era la sua mostra, quella sera."

Per un momento si blocca, guardandomi. Posso quasi sentire gli ingranaggi del suo cervello iniziare a lavorare, a fare collegamenti che io non riesco a vedere. "Giusto. Fa il fotografo, se non sbaglio" afferma, senza tuttavia aspettare una mia risposta affermativa.

"Sei andata a piedi?" chiede allora, sorvolando su quel dettaglio.

"Sì. Il supermercato è vicino a casa, e poi non ho una macchina mia."

"E il parco?"

"Scusi?" chiedo confusa.

"Mi risulta che sei quasi stata annegata nel laghetto del parco giochi, sbaglio?"

"Sì, cioè no, non si sbaglia."

Ha le sopracciglia aggrottate e la bocca arricciata in una smorfia buffa, così strana sul suo faccione arrossato simile a un cartello dello stop. Sembra che la questione lo scocci più di quanto dovrebbe. Teoricamente, essendo questa una piccola cittadina in cui, diciamocelo, non succede assolutamente nulla, una cosa del genere dovrebbe suscitare un minimo di scalpore o, in alternativa, di eccitazione, soprattutto a chi, come lui, ha passato gran parte della sua carriera a occuparsi di casi di furto di borsette. Lui, però, non si perde in troppi dettagli, si limita a chiedermi ciò che vuole sapere; il resto è solo un inutile cornice senza valore.

"Io... glielo stavo per dire. Quando sono arrivata nel parcheggio, l'ho incontrato e mi ha... beh sì, mi ha salutata. Ha detto che voleva parlarmi, ma voleva farlo in un posto più tranquillo, così l'ho seguito."

"Puoi dirmi il suo nome?"

Nonostante l'avessi ripetuto più di una volta agli agenti, lo dissi comunque, immaginando servisse per la registrazione. "Cole. Cole Jensen."

"Con la J?"

"Sì."

Man mano che rispondo alle domande che mi porge, vedo il suo busto e insieme la sua testa allungarsi verso di me, quasi dimenticandosi del bordo del tavolo che lo ostacola. Mi ricorda una tartaruga. "Avevi un qualche tipo di relazione con lui o l'hai mai avuta?"

Scuoto la testa con veemenza, quasi divertita da quanto il detective Doyle si trovi lontano dalla verità. "Assolutamente no."

"E avete avuto qualche litigio prima? Qualcosa di non risolto."

"No. Lo conoscevo, ma non eravamo amici."

"E allora perché seguirlo? Insomma, se non eravate amici, perché fidarsi e seguirlo in un luogo isolato a tarda sera?" chiede, improvvisamente interessato ai miei pensieri e non solo ad un rigido e impersonale resoconto sintetico dei fatti.

Fisicamente, sono sempre stati uguali Haley e Cole. Stessi tratti, stessa corporatura slanciata, stessa parlantina strana. Spesso, però, lei tendeva a lamentarsi di come cose come la pelle lattea che avevano in comune desse a lui un aspetto addirittura affascinante agli occhi delle ragazze e a lei le sembianze di un cadavere. Lo faceva spesso, ma non mi ha mai dato fastidio. Al contrario, ammetto che mi piaceva sentirla lamentarsi del suo aspetto, almeno quanto a lei piacesse farlo per sentire poi i miei complimenti.

La verità, però, è che non ho idea del perché io mi sia fidata. Forse la vera domanda sarebbe: perché non farlo? Perché non fidarsi di qualcuno così maledettamente simile alla persona a cui, una volta, avresti affidato la tua vita? Mi sono lasciata ingannare, è vero. Sono caduta nella sua trappola, adescata come un animale dal bisogno di sopravvivere, una sopravvivenza che una volta era determinata dalla presenza di Haley. Una sopravvivenza che, ora, si accontenta delle briciole lasciate dai ricordi che mi restano di lei. E il ricordo che Cole mi offriva era così vivido, così vicino alla concretezza corposa della realtà.

Ma come puoi spiegare a qualcuno una cosa del genere?

"Non lo so" rispondo alla fine, dopo un lungo silenzio.

Un'espressione contrariata si dipinge immediatamente sul viso del detective, che si schiarisce la gola e abbassa lo sguardo sul tavolo. "Non voglio metterti in difficoltà, Cara, capisci? Voglio solo capirci qualcosa, così come immagino lo voglia anche tu. Vedi, è molto strano che ti abbia aggredito senza l'intenzione di derubarti o di approfittarsi sessualmente di te. E, anche se fosse, un ragazzo di appena diciannove anni non arriva a tanto per qualche dollaro. Mentre, se avesse voluto violentarti, non avrebbe cercato prima di ucciderti."

"E quindi rimane solo l'ipotesi della vendetta, immagino" pronuncio, puntando lo sguardo sul piccolo registratore vicino alla sua enorme mano. Immagino che potrebbe farmi fuori con un niente, se solo volesse.

"Capisco che tu possa essere ancora scioccata per quanto accaduto, ma se vuoi che quello stronzo finisca in prigione devi cercare di collaborare" continua, non prestando ascolto alle mie ultime parole. "Ti viene in mente un qualsiasi motivo per cui avrebbe dovuto avercela con te?"

Che domanda stupida. So benissimo perché ce l'avesse con me, anche se non pensavo che ne sarebbe mai venuto a conoscenza. Ma una cosa è saperlo, un'altra è ammetterlo ad alta voce di fronte a qualcun altro. Ammetto che, per un momento, mentre ero con la testa immersa nell'acqua e pregavo Dio per un po' di ossigeno che alleviasse la mia agonia, ho sperato che riuscisse a farlo, che riuscisse ad uccidermi; almeno avrei smesso di vivere con quel senso di colpa continuo ed assillante. Ma quando ho respirato quella prima boccata d'aria, mi sono resa conto che forse era quella la mia punizione: continuare a vivere con quell'enorme macigno sul petto. E ho pensato che fosse giusto così.

"Lui..." comincio a fatica, puntando lo sguardo su un punto lontano e indistinto. "Lui ha detto che è colpa mia."

Non riesco a vedere l'espressione di Doyle , ma immagino che i suoi occhi riflettano un'emozione simile al trionfo. "Per cosa?"

"Per sua sorella. Lei è morta per colpa mia."

Dopo questa confessione, mi sembra quasi che tutta la pressione che sentivo prima nel petto si sia trasferita all'esterno, ma solo per qualche secondo: questa, infatti, torna a infestarmi i polmoni con ogni boccata d'aria. Nel frattempo, lui non parla e neanche io. Ci limitiamo a concentrarci entrambi su quello che diremo dopo: lui su quello che potrebbe chiedermi, io su come potrei rispondere alle sue eventuali domande. Sembra un'insana variante del gioco del silenzio, in cui vince chi riesce a trovare per primo la cosa più giusta da dire.

"In che senso è morta per colpa tua?"

Sono sempre stata una persona che ama irrimediabilmente essere al centro dell'attenzione, ma questa mia caratteristica non mi ha mai impedito di essere molto riservata. Amo suscitare la curiosità delle persone che mi circondano, per compiacere un desiderio misantropo di essere guardata, studiata, analizzata, ma solo superficialmente: ho sufficiente fiducia nell'egocentrismo umano da essere sicura che quasi nessuno di quegli sguardi potrebbe mai oltrepassare la mia barriera corporea. Mi espongo per proteggermi, è sempre stato così, e, con l'esperienza, ho imparato che è anche il modo migliore di tutelarmi.

Le occhiate superficiali che mi ricoprono mi nascondono dalle persone come Haley. Mi nascondono da chi potrebbe, con il tempo, imparare a leggermi. Ma Doyle non vuole scoprirmi, no. Lui vuole solo delle risposte. Ma come può pretendere da me delle risposte, le stesse che credevo di aver custodito così bene da non accorgermi che, nel tragitto, avevo le tasche bucate?

"Non voglio rispondere a questa domanda" enuncio allora, terminando sul nascere quella curiosità troppo pericolosa.

Lui sospira, passandosi le dita sotto gli occhi, proprio dove due visibili ombre scure li scoloriscono. Probabilmente vede, in questo dettaglio, un'importanza che, per quanto io mi sforzi, non riesco proprio a cogliere. Non mi interessa sapere perché Cole abbia fatto quello che ha fatto. Voglio solo che venga preso e tenuto a quanta più distanza possibile da me: le sue ragioni più recondite se le può tenere per sé o confessarle agli altri carcerati.

"Hai notato in lui dei comportamenti strani ultimamente?" mi chiede infine, appoggiando i gomiti sul tavolo in un gesto carico di pesantezza.

"No" rispondo immediatamente. "L'altra sera è stata la prima volta che l'ho visto dopo sette mesi."

La sua domanda puzza di marcio, ma più mi guardo intorno, oltre la fastidiosa coltre di mosche che mi ronza intorno, e più faccio fatica a capire dove sia nascosto il cadavere. Eppure analizzo ogni angolo, ogni asse di legno scricchiolante, ogni macchia di muffa che ricopre le pareti, ma nulla sembra portarmi sulla strada giusta da seguire. "Perché?"

I suoi occhi rimangono fermi e determinati nei miei mentre mi risponde, quasi in un rimprovero sottinteso. "Abbiamo ragione di credere che ti tenesse d'occhio da almeno qualche settimana."

Ed eccolo, lo schiaffo, così forte da far rimbombare dentro di me sensazioni antiche che credevo di essermi lasciata indietro. Immediatamente, riesco solo a pensare che sia impossibile. Me ne sarei accorta se un pazzo si fosse messo a spiarmi e a pedinarmi di punto in bianco. Un dettaglio del genere non passa inosservato. Non a me.

"Cosa sai dirmi dei signori Landerwood? Vivevano di fianco a te, giusto?"

Confusa, faccio un segno d'assenso, ancora stravolta dalla precedente rivelazione. Con la mente richiamo velocemente le poche immagini che ho della piccola casa e dei due giovani coniugi, ripenso a quanto sembrino sempre così fastidiosamente felici e al loro ancora più fastidioso pastore tedesco, che non fa altro che abbaiare ogni qualvolta qualcuno si avvicini al marciapiede di fronte al giardino.

Vivevano già lì quando mi sono trasferita, anche se non credo da molto tempo: sono entrambi molto giovani, probabilmente intorno ai venticinque anni, e non è raro vederli impegnati in vari lavoretti di ristrutturazione durante i weekend. Dei due, potrei riconoscere la moglie, ma solo se vista da una particolare prospettiva, in una determinata posizione e, possibilmente, da lontano. Quando esco di casa, vedere la sua figura perennemente accovacciata sui fiori delle aiuole del suo giardino è diventato come una sorta di incontro intimo e segreto, che osa però spingersi solo fino ad un saluto accennato e di pura cortesia. Il marito, al contrario, non l'ho mai visto oltre ad un paio di rarissime occasioni, ma comunque se mi capitasse davanti non saprei riconoscerlo.

"Non li conosco. Io non ci ho mai parlato" affermo allora. "Anche se non capisco..."

Mi fermo, all'improvviso, come se fossi un giocattolo a cui si sono appena scaricate le batterie. Mi rimbomba nelle orecchie la domanda del detective, come in un'eco alla rovescia che risuona sempre più forte nel mio cervello, fino a diventare un vero e proprio urlo:"Vivevano di fianco a te, giusto?"

Perché ha usato il passato?

La signora Landerwood non ha mai vissuto nella casa di fianco alla mia, lei vive nella casa di fianco alla mia, la stessa con quel giardino sempre così perfettamente curato e quelle aiuole piene di fiori coloratissimi. Ci vive insieme al suo giovane marito, al suo pastore tedesco che sembra non stancarsi mai di prendersela con i passanti... lo stesso pastore tedesco di cui, quella sera, non ricordo però di aver sentito l'abbaio, quando sono passata davanti al loro cancello.

"Siamo riusciti a contattarli e ci hanno confermato che stavano affittando la casa a un certo Cole Jensen, da poco più di un mese."

Acqua fredda: questa è l'unica cosa a cui potrei paragonare un'informazione del genere. Non una semplice secchiata, no. È la stessa sensazione che potresti provare in una lenta immersione nell'oceano, gelido e imprevedibile. La stessa identica sensazione che potresti provare mentre stai annegando in un laghetto ghiacciato, con una mano che ti tiene ferma la testa e i polmoni allagati. Ed è proprio con la stessa paura che, improvvisamente, una serie di immagini si ferma davanti ai miei occhi spalancati, immagini che il mio stupido cervello aveva pensato bene di archiviare. Un grande furgone fermo di fronte al cancello aperto. Un cartello affittasi, così statico e silenzioso da sfuggire ai miei occhi impazienti. Un alone di mancanza che circonda l'erba alta. I fiori appassiti, scuri, morti: dimenticati.

E allora capisco.

  
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