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Autore: Adeia Di Elferas    05/09/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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I lavori al mastio stavano rallentando, soprattutto per colpa della neve e anche perché gli operai iniziavano a sentire aria di festa.

Quell'anno, a differenza di quello passato, la Contessa non aveva messo alcun veto circa le festività natalizie. Ormai il Barone Feo era morto da ben oltre un anno e dunque sembrava lecito tornare, anche se in forma ridotta, alla vita di prima.

A Ravaldino non erano previsti grandi banchetti né feste sontuose, ma la Tigre aveva fatto sapere ai suoi collaboratori più stretti che ci sarebbe comunque stata una cena, dopo la Messa, alla quale sarebbe anche seguito un ballo.

Giovanni aveva udito la notizia per via traversa, ma non si era risentito troppo, anche se avrebbe preferito saperlo direttamente da Caterina.

Vivendo alla rocca, il Popolano era pressoché certo che l'invito fosse esteso anche a lui, tuttavia, quel pomeriggio, sentì il bisogno di chiarire la questione e si mise a cercare la Contessa in lungo e in largo.

Sapeva che Simone le aveva parlato, prima di partire per Imola. Non sapeva cosa si fossero detti, ma aveva il sospetto che suo cugino le avesse riferito non solo quello che stava accadendo a Firenze, ma anche dei malumori che serpeggiavano nella Signoria.

Se un certo Machiavelli, infatti, aveva avuto il coraggio di cominciare a scrivere a suoi corrispondenti personali a riguardo delle pecche di Savonarola, tutti gli altri fiorentini sembravano essersi improvvisamente resi succubi del tetro domenicano e si stavano armando per distruggere tutto ciò che potesse rappresentare la vecchia Firenze, la Firenze dell'arte, la Firenze della bellezza, la Firenze della cultura. In poche parole, la Firenze dei Medici.

Questa precarietà andava a rendere la posizione di Giovanni ancora più delicata di quanto già non fosse di suo.

Come se non bastasse, Simone era stato molto categorico nello spiegargli che le spese folli che aveva appena fatto per compiacere la Tigre di Forlì non sarebbero state ben viste da Lorenzo, non appena ne fosse venuto a conoscenza.

In più, il quasi totale disinteresse che il Popolano più giovane stava dimostrando per la richiesta della Signoria di comprare del grano in Romagna per Firenze avrebbe di certo finito per dare il pretesto al Gonfaloniere di Giustizia per farlo richiamare in patria.

Così l'ambasciatore fiorentino era attanagliato da tutte quelle preoccupazioni, senza vedere come potesse migliorare la propria condizione senza per questo rinunciare alla vicinanza di Caterina. Era certo che, se avesse cominciato a comportarsi davvero come emissario di Firenze, avrebbe dovuto assentarsi spesso e a lungo da Forlì e, soprattutto, mostrarsi molto meno accomodante e amichevole con quella strana donna.

Stringendo le spalle nel giubbone rosso e giallo con lo stemma della sua famiglia ricamato sul dorso, Giovanni arrivò fin al cortile d'addestramento, ma si accorse subito che la Tigre non era lì.

Galeazzo, assieme al maestro d'armi e al piccolo Bernardino, stava provando qualche complicata mossa di scherma, ma Caterina non era con loro a vedere i progressi del suo erede designato.

Abbattuto, pensando che forse la donna fosse uscita a caccia da sola all'alba, il fiorentino sollevò lo sguardo, strizzando gli occhi per proteggerli dai fiocchi di neve che cadevano incerti dal cielo pallido, e finalmente la vide, affacciata a una delle finestre, che guardava giù.

La Tigre si accorse di essere stata notata, così ricambiò l'occhiata del Medici con un breve cenno del capo e poi andò avanti a fissare suo figlio Galeazzo che aveva appena imparato la parata con due mani.

Il Popolano rientrò in fretta e salì le scale fino ad arrivare alla finestra a cui stava la Contessa.

“Ci avrei scommesso che sareste salito...” disse piano Caterina, continuando a sporgersi per guardare Galeazzo e Bernardino.

Il più grande aveva di nuovo parato un colpo del maestro d'armi, ma quella volta il polso della mano che teneva la lama aveva ceduto e di conseguenza anche l'altro s'era storto e così Galeazzo, pur avendo respinto l'assalto, si era trovato disarmato.

Mentre il suo maestro lo sgridava per quell'errore, che in battaglia avrebbe potuto costargli la vita, la Tigre guardò di sottecchi Giovanni: “Volevate comunicarmi qualcosa in particolare?”

Dal siparietto che avevano tenuto davanti all'oratore milanese, i due non si erano praticamente più parlati a tu per tu. Da un lato l'ambasciatore avrebbe voluto rivangare quell'episodio, dall'altro non ne voleva più sapere nulla.

Dal canto suo, quel giorno la Contessa aveva per la mente molti pensieri funesti. Uno di quelli che le opprimevano il petto con più forza riguardava una lettera che Raffaele Sansoni Riario le aveva appena spedito.

Il Cardinale, con le sue solite frasi allusive e centrifughe le aveva fatto capire che il papa voleva che lei lasciasse una volta per tutte lo Stato a Ottaviano.

A parte il fatto che ormai Caterina, da tempo, aveva già deciso che il suo primogenito non avrebbe mai ereditato la sua carica né il suo Stato, quello che le dava più fastidio era il tentativo di Rodrigo Borja di imporsi su di lei, nascondendosi, per altro, dietro a quel codardo di Raffaele.

Il suo Stato era in territorio di pertinenza vaticana, lo sapeva benissimo, ma lei sottostava anche alla legge imperiale e suo zio era il Duca di Milano. Così come il papa non osava far la voce grossa con Rimini, che era al servizio di Venezia, così non avrebbe dovuto permettersi di mettere il suo naso prominente negli affari di una Sforza.

“Ho saputo che per Natale ci sarà un banchetto.” esordì Giovanni, mettendosi accanto a lei, le braccia appoggiate al davanzale e le mani che sfioravano la neve che continuava a turbinare leggera oltre la finestra.

“Nulla di che, sia chiaro.” annuì Caterina: “Solo un po' di cibo di qualità migliore del solito e un po' di musica.”

“Direi che è un buon programma.” fece il Medici.

“Voi ci sarete, vero?” chiese allora la Leonessa, puntando involontariamente gli occhi sulle dita lunghe e agili del Popolano.

Le gote di Giovanni si colorirono appena e confermò: “Certo. Non potrei mai mancare.”

Detto questo, l'uomo restò in silenzio, senza sapere come continuare la conversazione, già abbastanza felice di quello che si era sentito dire.

Quel giorno, poi, i suoi dolori erano sotto controllo e la crisi che aveva temuto sembrava scongiurata, almeno per il momento.

Le due cose, sommate, lo rendevano tanto lieto da dimenticarsi quasi di quello che stava accadendo a Firenze.

Caterina era tornata a concentrarsi sui suoi figli e così anche l'ambasciatore cominciò a seguire con maggior attenzione le peripezie dei due bambini.

Bernardino era ancora troppo piccolo, per lasciar intravedere chissà quali doti di guerriero, però, ogni volta che spettava a lui l'attacco, sapeva tirar fuori una rabbia che lo rendeva abbastanza temibile, compatibilmente con il suo visetto da angelo e i suoi movimenti ancora goffi.

Galeazzo, invece, mancava di precisione, ma sembrava instancabile e assai cosciente degli occhi materni che lo fissavano per giudicarlo.

“Galeazzo...” sussurrò Giovanni, lasciandosi trasportare dai suoi pensieri e parlando prima di trattenersi: “Non so come la pensate voi, ma secondo me è un nome che riecheggia subito un'idea forte di nobiltà. È un nome adatto a un capo.”

“Galeazzo Maria.” lo corresse la Tigre, mordendosi il labbro mentre il figlio riusciva a colpire un lato scoperto del maestro d'armi: “Era il nome di mio padre.”

La donna avrebbe voluto aggiungere che l'aveva scelto solo per sottrarre almeno quel figlio all'ombra inesorabile dei Riario, così come qualche anno dopo aveva scelto il nome Francesco Sforza per il suo sesto figlio. Però, con le labbra già schiuse per dar voce ai suoi pensieri, decise che quell'informazione era ancora troppo riservata, per condividerla con Giovanni.

E poi, erano state scelte sciocche, forse, dettate dalla rabbia e dal risentimento. Erano comunque servite a farla stare un po' meglio, ma non era il caso di farne un affare di Stato con uno straniero.

“Anche a me piacerebbe chiamare un figlio come mio padre: Pierfrancesco.” disse il Popolano, stringendosi una mano nell'altra e continuando a puntare le iridi chiare verso Galeazzo.

“Voi vorreste dei figli?” chiese la donna, schiarendosi la voce.

Giovanni si sentì all'improvviso in forte imbarazzo, tanto che, per far qualcosa, si scostò dalla finestra e si ravviò i riccioli, mentre le sue guance si facevano ancor più colorite. Era abbastanza certo che dietro al tono casuale della domanda della Tigre si celasse qualcosa che andava oltre la semplice curiosità o la disinteressata cortesia.

Sapeva che la Contessa aveva avuto sette figli e aveva capito senza troppa difficoltà che, se pur per motivi diversi, tutte e sette le sue gravidanze erano da lei state vissute con una buona dose di tormento.

Pentitosi di non aver ragionato prima di parlare, avrebbe volentieri cambiato argomento, ma la donna era in atteso e lo stava fissando, anche lei ormai ritiratasi dalla finestra, il cui vetro aperto lasciava ancora entrare refoli di aria gelida e qualche lieve fiocco di neve.

Così decise di parlare chiaro, senza reticenze o ipocrisie: “Sì, almeno un figlio mi piacerebbe averlo.”

Caterina sollevò un sopracciglio e dopo una breve esitazione tornò al davanzale: “E perché mai lo vorreste? Per avere un erede che porti avanti il vostro nome? Oppure solo per aver qualcuno che vi curi quando sarete vecchio?”

Giovanni lesse il suo mezzo sorriso come un segno di apertura, e non si badò del tono quasi canzonatorio con cui aveva posto le ultime due domande, perciò tornò a mettersi accanto a lei e rispose: “Non saprei... Credo che sia una di quelle cose che, se si fanno per un motivo preciso, sono destinate a finir male. Un figlio va fatto solo perché si sente che è giusto così. Con la persona che si ama. Perché la si ama. Solo questo. Se lo si fa per un altro motivo, difficilmente non si finisce per pentirsene.”

La Contessa non disse nulla, l'espressione in volto che si faceva più scura. Il Popolano si accorse che gli occhi della Leonessa si erano piantati su Bernardino, che correva tutto ridente, rincorso da Galeazzo che fingeva di volerlo catturare.

Caterina stava pensando a quando lei e Giacomo si erano trovati ad aspettare il loro unico figlio.

Era stata una cosa a cui non aveva pensato a sufficienza. L'aveva fatto quasi solo per ripicca, per dimostrare a suo zio Ludovico che lei poteva fare quello che voleva e con chi voleva.

“Sarebbe bello se fosse come dite voi.” sussurrò la Tigre, scuotendo lentamente la testa: “Se il mondo andasse sempre come pensate voi, messer Medici, ci sarebbero ben pochi infelici, su questa desolata Terra. Invece, ovunque ci si volti, se ne trovano.”

Il maestro d'armi aveva appena richiamato i due allievi battendo le mani e li stava facendo rientrare, così la Contessa lasciò il suo posto d'osservazione e, appena anche il Medici si staccò dal davanzale, chiuse la finestra che dava sul cortile.

“Ho cominciato a leggere le poesie di quel Petrarca, sapete, il libro che avevate prestato a mia figlia...” disse la Tigre, iniziando a camminare, con Giovanni che la seguiva a ruota.

“Oh, l'ha già passato a voi?” chiese l'uomo, che in tutta onestà avrebbe preferito poterlo consegnare di persona alla Contessa.

Caterina annuì: “Sì, in realtà l'ho sfogliato velocemente, per ora, e devo dire che certe canzoni mi hanno annoiata, ma altre mi sono piaciute molto. La centoventiseiesima, soprattutto.”

Il Medici, che conosceva quella raccolta a menadito, ci mise un solo istante a capire a quale si riferisse e così poté subito argomentare: “Anche io la trovo molto bella. È forse la più ardita, secondo me.”

La Tigre soffocò una risata: “Diciamo che mostra una donna che sembra arrivata dal cielo, più che una donna in carne e ossa, come in tutti i componimenti dei poeti simili a questo Petrarca. Da quel punto di vista, preferisco i poeti latini. In linea di massima, erano molto più passionali.”

Arrivati ormai alle scale, il fiorentino si permise di far notare: “Avete ragione, più va avanti, più la rende simile a un angelo, ma i primi versi tradiscono il vero sentimento di Petrarca. In realtà, il suo desiderio era tutt'altro che etereo e distaccato.”

Caterina si fermò prima dei gradini: “La rileggerò più attentamente, allora. Sono curiosa di vedere se avrò la vostra stessa impressione.” poi sospirò e si guardò alle spalle: “Perdonatemi, ora ho della corrispondenza a cui dedicarmi.”

Giovanni fece un mezzo inchino e, benché non ne avesse alcuna voglia, scese le scale e se ne andò per la sua strada.

 

Elisabetta Aldovrandini aveva smesso di dar di stomaco da un paio di giorni, ma la febbre non accennava a calare.

Spesso perdeva conoscenza e, quando era sveglia, erano più i momenti di feroce confusione che non quelli di orientamento, tanto che, più di una volta, aveva fissato il figlio senza riuscire a riconoscerlo.

Pandolfo aveva smesso completamente di badare agli affari di Stato, lasciando tutti in mano ai membri del Consiglio e impedendo a chiunque, salvo i medici e i servi, di entrare nella stanza di sua madre.

Non si era più cambiato d'abito, e aveva mangiato pochissimo e dormito ancora meno. Non aveva abbandonato il capezzale della madre nemmeno per un'ora e così aveva ormai perso completamente la cognizione del tempo.

I medici che andavano a visitare Elisabetta – senza mai arrivare a una conclusione diagnostica che fosse soddisfacente o che presupponesse una cura – avevano provato in tutti i modi a riscuotere Pandolfo che, però, aveva abbaiato dietro a tutti loro di non concentrarsi su di lui, ma su sua madre.

Violante Bentivoglio assisteva impotente a quella lenta e forse inesorabile tragedia. Si metteva spesso sulla porta, stando ben attenta a non farsi vedere dal marito che, appena si accorgeva della sua presenza, si lasciava andare a scene di rabbia immotivate e violentissime, forse l'unico modo che conosceva per sfogare la paura.

In uno slancio di coraggio, il cancelliere si era permesso di entrare nella camera di Elisabetta con la scusa di chiedere come stesse la povera madre di Sua Signoria.

Il Pandolfaccio, rabbonito dall'espressione affranta dell'uomo, l'aveva lasciato avvicinare, ma quando egli aveva aperto bocca per porre la domanda che lo aveva in realtà spinto ad arrivare fin lì, il signore di Rimini diede in escandescenze anche con lui.

Il cancelliere, in un sussurro timoroso, aveva chiesto: “Mio signore... Il Consiglio vorrebbe sapere se per il Santo Natale sono previsti banchetto o..?”

“Ma che andate dicendo!” aveva ululato Pandolfo, alzandosi di scatto dal suo sgabello, una mano sempre chiusa attorno a quella fredda e sudata della madre: “Andatevene! Il nostro Stato non è in festa! Natale, Natale..! Vi pare il momento di dare banchetti?! Che tutti corrano in chiesa a pregare, altro che far festa! Vergognatevi!”

 

“Portatelo nello studiolo del castellano.” disse Caterina, rivolgendosi a Mongardini, che le aveva appena detto che Achille Tiberti era al portone della rocca e chiedeva di poterla vedere.

Il Capitano annuì e sparì, così la Contessa ebbe il tempo di togliersi le protezioni che aveva indossato per allenarsi e lasciare le ultime consegne per le reclute che si stavano addestrando con lei nel cortile.

Quando fu certa che Cesare Feo avesse preso il suo posto nel controllare che i nuovi soldati facessero quel che dovevano, la donna si asciugò il sudore dalla fronte ed entrò nella rocca.

Quel giorno non nevicava, ma faceva un gran freddo e il cielo era grigio. Caterina aveva sudato parecchio, e si era accaldata, malgrado la temperatura rigida.

Così, quando arrivò allo studiolo del castellano, le sue guance erano ancora arrossate per l'attività fisica e anche il camino acceso le pareva un riscaldamento eccessivo.

Si levò con fare sbrigativo la reticella che le teneva fermi i capelli e poi si parò davanti ad Achille, che si era messo in attesa accanto al fuoco: “Era ora che vi faceste vedere anche qui.” gli disse, con freddezza.

“Mio fratello era gravemente ferito.” ribatté l'uomo, senza mostrare paura, con un piglio molto diverso da quello dimesso e timoroso che aveva avuto nell'andare a chiedere soccorso solo qualche settimana addietro.

“E adesso come sta?” chiese Caterina, senza guardarlo, mettendosi a sedere sulla poltrona che era stata di Giacomo.

“Sta meglio, grazie a Dio. Tornerà a Civitella presto.” rispose Tiberti, le mani dietro la schiena e le labbra che si stringevano sotto la barba fitta.

Aveva un aspetto molto trascurato, rispetto a quando era partito. La barba lunga non ne era il solo segno. I suoi abiti erano rovinati e i suoi occhi erano cerchiati da pesanti occhiaie. Anche un osservatore poco acuto avrebbe facilmente concluso che quell'uomo aveva passato momenti davvero difficili.

La Tigre preferì non riprenderlo apertamente per il suo clamoroso ritardo nell'andare da lei, tantomeno lo sgridò per come aveva fatto rientrare l'esercito in Forlì. Preferì farsi raccontare nel dettaglio l'assedio di Civitella e, in particolare, volle un resoconto dettagliato sull'esercito di Pandolfo Malatesta, sull'artiglieria che aveva dispiegato e sul perché alla fine era stato battuto.

“Si sono ritirati quasi all'improvviso. Come se fosse arrivato da Rimini un ordine che imponeva loro di arrendersi.” spiegò Achille, ripensando per la prima volta al modo repentino in cui i malatestiani che combattevano per i Martinelli se n'erano andati a metà battaglia, pur non essendo in netto svantaggio: “In effetti è stata una cosa abbastanza strana.”

Caterina stava ragionando in silenzio, le gambe allungate e una mano sulle labbra. I suoi occhi erano puntati alle fiamme del camino, ma le sue orecchie erano tese a sentire le parole del Capitano.

Che dietro quella frettolosa ritirata ci fosse un ordine di Venezia?

Altodesco, il suo ambasciatore a Rimini, pur non essendo più riuscito a penetrare le sale private del Pandolfaccio, aveva saputo che la madre, Elisabetta Aldovrandini, era da poco tornata proprio dalla Serenissima e che, non appena era arrivata, dal palazzo dei Malatesta si era cominciato a veder uscire una serie infinita di lettere con le destinazioni più disparate.

Forse una di quelle era stata spedita al comandante delle truppe che operavano a Civitella...

Concluso il discorso su quella guerricciola, la Contessa si sistemò un po' e, puntellandosi contro uno dei braccioli, disse: “Adesso è il turno di pagare il vostro debito. Io vi ho dato i miei soldati, vi ho permesso di salvare la vita di vostro fratello, dunque la mia parte l'ho rispettata. Ora tocca a voi.”

Tiberti si inginocchiò in terra, rimembrandosi di come la sua signora l'avesse aiutato quando non aveva altra persona a cui rivolgersi. Ricordò la sua promessa e, da uomo d'onore quale credeva di essere, si apprestò a fare tutto quello che lei gli avrebbe detto.

“Avete ancora dei possedimenti nella zona di Cesena?” chiese Caterina, lisciandosi il gonnellone schizzato di malta con fare distaccato, come una qualunque dama che discute di ricamo assieme a delle amiche.

Achille, per prima cosa, pensò che la donna volesse appropriarsi degli averi della sua famiglia come primo risarcimento per le perdite subite, perciò, sentendosi molto piccolo, iniziò a tirare indietro come poteva: “Sì... Ci sarebbe ancora un podere, cosa da poco... I campi sono quasi del tutto incolti e...”

“Non mi interessa in che stato è. Basta che abbia un bel salone da ballo e delle cucine degne di questo nome.” lo interruppe la Leonessa.

Interdetto, il Capitano si accigliò e, sempre stando inginocchiato, annuì: “Direi di sì...”

“Bene. Allora organizzate lì una festa, un ballo, ancora meglio. Per Carnevale, sarebbe l'ideale, così avrete il tempo di sentire più gente possibile.” spiegò la Contessa, le iridi verdi che correvano ogni tanto alla finestra: “Rispolverate tutte le vostre conoscenze della zona di Cesena. Anche quelli che non sentite da anni, non mi interessa. Invitate anche i Consiglieri del Consiglio Cittadino di Cesena.”

Achille non capiva dove sarebbe andata a parare, ma faceva segno di sì con la testa, sapendo che, che lui ne capisse o meno il senso, quelli erano gli ordini e andavano eseguiti.

“Li convincerete uno per uno della necessità di una guerra contro Rimini. A fine serata, dovrete essere sicuro che Cesena non alzerà un dito per difendere Pandolfo Malatesta.” concluse Caterina, lapidaria.

“E come farò a...” iniziò Tiberti, seriamente preoccupato.

“Questi non sono affari miei.” disse la Tigre, alzandosi dalla poltrona e indicandogli la porta: “I nostri patti erano chiari, Capitano. Mi aspetto molta serietà da voi, adesso. Potete partire per Cesena quando volete, ma entro Carnevale, voglio sentirvi dire che avete fatto quello che dovevate.”

“E poi..?” s'informò Achille, rialzandosi e raggiungendo l'uscio assieme alla Tigre.

“E poi, quando avrete in mano l'assicurazione che ci serve, solo allora, vi darò nuove indicazioni su cosa fare.” fece la donna, impassibile.

Achille sentiva un peso sul petto e si chiese come mai avrebbe potuto riuscire in quella strana impresa, tuttavia, quando la Contessa lo salutò formalmente, l'uomo riuscì a dire soltanto: “I vostri ordini saranno eseguiti come chiedete, mia signora.”

 

L'ultimo attacco di Guidobaldo da Montefeltro aveva fiaccato abbastanza le difese di Bracciano e l'uso dell'artiglieria aveva provocato più danni del previsto.

Da quando il figlio del papa si era messo in seconda fila, lasciando il campo a un comandante molto più esperto e intraprendente di lui, per Bartolomeo e Bartolomea resistere agli attacchi era diventato molto più difficile.

Durante il mezzo crollo di una parte di merlatura, poi, l'Orsini era rimasta ferita. Secondo il cerusico, non si trattava di nulla di estremamente grave, ma quasi per certo c'erano delle coste rotte e se le si sommavano alla tosse che non la lasciava più da qualche giorno, il quadro appariva abbastanza difficile.

“Adesso anche Giampiero Gonzaga è con loro, assieme a dei rinforzi.” stava dicendo Bartolomeo, seduto accanto alla moglie.

Quella sera il clima era abbastanza tranquillo e una delle loro spie era riuscita a rientrare al castello e riferire quello che aveva visto.

Bartolomea indossava abiti da uomo di lana grezza e sulle gambe portava una coperta. Ogni tanto aveva un accesso di tosse, che le provocava atroci dolori alle coste fratturate, eppure solo le preghiere del merito erano riuscite a farla desistere dal rimettersi l'armatura e continuare ugualmente a combattere.

“Devi fare una cosa...” disse l'Orsini, dopo essersi fatta dire quanti uomini ci fossero in quel momento fuori da Bracciano, in attesa di dar loro il sacco: “Mio nipote Carlo è riuscito a scrivermi per dirmi che sta arrivando assieme a Vitellozzo Vitelli.”

Bartolomeo strinse un po' gli occhietti incavati e, intanto, sistemò una ciocca di capelli – ancora così neri malgrado l'età – della moglie dietro l'orecchio.

“Devi uscire da Bracciano con quasi tutti i nostri soldati. Lasciamene una manciata, per sicurezza, e poi attacca il campo di Juan Borja.” disse Bartolomea, mentre gli occhi scuri si perdevano nelle immagini che la sua mente le proponeva nell'ideare quel piano: “Non se l'aspettano. Il figlio del papa si farà prendere dal panico e ordinerà di scappare.”

“Ma Montefeltro potrebbe annullare il suo ordine e decidere di contrastarci.” fece notare Bartolomeo, che tutto voleva fuorché allontanarsi dalla sua donna proprio ora che era così in difficoltà con la salute.

Bartolomea tossì, tenendosi il torace con una mano e poi decretò: “Nessuno oserà contraddire il figlio dell'onnipotente Rodrigo Borja. Loro scapperanno. E tu li inseguirai, guidandoli verso mio nipote Carlo.”

Poi l'Orsini indicò una mappa sul tavolino. Il marito gliela prese. Si trattava di una cartina che dalla loro zona spaziava di qualche città verso nord e verso sud.

“Dovresti incontrare mio nipote più o meno qui, se parti stanotte.” indicò la donna, puntando l'indice in prossimità di Soriano: “Saranno colti di sorpresa, stanchi per la fuga e disorganizzati.”

Bartolomeo avrebbe voluto trovare una scusa per bocciare quel piano, ma non aveva una pecca a cui aggrapparsi.

“Va bene.” sussurrò.

Bartolomea annuì e poi gli accarezzò leggermente una guancia: “Avanti. Non perdere tempo. Per quanto possibile, voglio che di questa guerra ci si ricordi solo della codardia del figlio del papa e della strenua resistenza che noi Orsini abbiamo portato avanti.”

L'uomo fece un profondo sospirò, baciò la moglie e poi disse solo: “Vado a prepararmi e a dire ai soldati di armarsi. Passerò a salutarti, prima di partire.”

“Come sempre.” sorrise Bartolomea, ripensando a tutte le volte in cui aveva guardato il marito partire alla volta dei più disparati campi di battaglia.

“Vedrai che tornerò vivo da te.” assicurò egli, andando verso la porta.

“Come sempre.” ripeté la donna, anche se, quando il marito fu fuori dalla sua vista, il suo sorriso si spense, mentre un nuovo colpo di tosse la scuoteva come una foglia.

 
   
 
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