Libri > Percy Jackson
Ricorda la storia  |       
Autore: Mir7    06/09/2017    1 recensioni
Per Michela e i suoi amici l'estate è finita, ma le avventure continuano. Michela farà un passo avanti per esaudire il suo desiderio di diventare una cantante alla Oxford Arts Academy, ma dietro a quella scuola c'è qualcosa di più grande, qualcosa che cambierà la vita sua e dei suoi compagni d'avventura.
Ps: informo che in questa storia verranno presi in considerazione solo gli avvenimenti della prima serie di Percy Jackson e non degli Eroi dell'Olimpo.
Genere: Avventura, Comico, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Annabeth Chase, Apollo, Nico di Angelo, Nuovo personaggio, Percy Jackson
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
   >>
- Questa storia fa parte della serie 'Deitas'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Scrivo questo libro come se fossero le mie memorie, i miei ricordi, perché non so per quanto ancora sopravviverò. Spero gradirete la mia vita prima che abbia preso una brutta piega.

 

Capitolo 1
Oxford Arts Academy

 

Fu difficile riabituarsi alla vita normale. Non essere più al Campo rendeva il resto delle vacanze estive noiose. Ero tornata da qualche settimana dal campo estivo più straordinario di tutti: il Campo Mezzosangue di Long Island, negli Stati Uniti. Un luogo nascosto dove i figli degli Dei greci potevano passare una bella estate tra di loro, allenandosi e giocando. Come faccio a saperlo? Io ero una di loro. Michela Gonnella, il mio nome. Atena, Dea della saggezza, mia madre. Lo scorso maggio due ragazzi, che poi si rivelarono essere un satiro e un figlio di Ade, vennero a prelevarmi alla scuola dove studiavo per portarmi in questo Campo Mezzosangue poco prima che delle belve ci attaccassero. Mostri, già. Scoprii di essere una semidea e che i mostri ci davano la caccia. Si nutrivano di noi e non si facevano scrupoli. Potevano avere varie forme, poteri e livelli di crudeltà. Fortunatamente nel corso della mia prima estate al Campo incontrai solo due tipi di mostri: i lestrigoni e i ciclopi; non erano bei ricordi. Avevo bei pensieri sul Campo mentre tornavo a casa, in Italia. Vivevo a Viareggio, una città di mare che ama festeggiare ogni volta che ce n'è la scusa. Una delle cose più complicate con cui dovetti ambientarmi nuovamente era la colazione: al Campo tutto ciò che volevi ti appariva nel piatto invece, a casa, la colazione dovevo prepararmela da sola. Le uniche cose che potevo fare erano rimanere a casa o andare al mare. Per nulla emozionanti se comparati alle lezioni di equitazione su pegaso o agli allenamenti di scherma nell'anfiteatro del Campo. Anche la televisione, che prima adulavo, divenne barbosa per me. Quando arrivò il giorno del mio compleanno, compievo i tanti attesi sedici anni, fu un giorno come gli altri all'apparenza. La mattina del sette settembre ero nel mio letto, sperando che i miei genitori avessero preparato qualche sorpresa. Mi alzai e il letto accanto, dove ci doveva essere mia sorella Melissa, era vuoto. Oltrepassai i giocattoli che aveva lasciato per terra. Raggiunsi il mio armadio, presi qualcosa per cambiarmi e andai in bagno. Notai che la casa era stranamente vuota. Mi misi una canottiera rossa, dei pantaloncini di jeans e mi feci una coda di cavallo. Mi guardai allo specchio del bagno; mi vedevo solo dalla testa alla vita. I miei capelli mossi castani avevano degli accenni di biondo per effetto del sole, invece, i miei occhi sembravano più scuri del solito, gli ho marroni. Non ero cresciuta affatto quell'estate; ero ancora il mio metro e cinquantacinque. Sbuffai. Da una parte per la mia statura, dall'altra mi balenò in testa il fatto che mancavano tre giorni all'inizio della scuola. Feci colazione. Mentre bevevo il mio Esta Thé alla pesca sul divano, la voce di Annabeth mi rimbombava nella testa:«Forza pelandrona! Vai a sistemare il tuo letto!». Annabeth era una delle sorelle che avevo al Campo. Era bella; aveva gli occhi grigi e i capelli biondi. Qualche volta incuteva paura quando dava gli ordini, ma aveva più energia lei, che era al sesto mese di gravidanza, di me. Dopo aver sistemato la mia camera, mi distesi nuovamente sul divano e guardai la televisione. Fino a quando, a mezzogiorno, qualcuno suonò il campanello. I miei genitori non potevano essere, loro avevano le chiavi, così aprii. Davanti a me apparve un uomo assai singolare. Indossava una tuta da ginnastica azzurra con qualche riga giallo lime; abbinata al cappellino degli stessi colori, con su scritto “Consegne Rapide Hermes”; e un paio di scarpe sportive azzurre. Le ultime erano la cosa più assurda, sapete perché? Erano alate. Nella mano destra teneva un bastone argentato con due serpenti attorcigliati attorno, il caduceo, nell'altra un bouquet di rose rosse.

«Tu sei Michela? Certo che lo sei. Ho una consegna per te» disse l'uomo auto-rispondendosi, mentre mi porgeva il mazzo di fiori.

«E lei è Hermes? Sì che lo è» risposi accettando il bouquet.

«Che ragazza spiritosa» commentò con un sorriso.

«Grazie. Devo pagare?»

I due serpenti, che fino a quel momento erano rimasti immobili, non erano più d'argento ed erano vivi.

«Hey semidea, hai un topo per me? Ho fame» disse un serpente con delle sfumature blu sul corpo.

«Oh George, smettila di chiedere a tutti da mangiare! Dopo Hermes ci darà il compenso, vero capo?» lo brontolò l'altro, questo aveva delle sfumature rosse.

«Ovviamente. Ora tornate come prima, George e Marta. Devo finire le consegne» rispose Hermes.

Così detto, i serpenti tornarono d'argento.

«Stavamo dicendo? Ah giusto, il conto. No, non devi pagare niente. Il figlio di Ade ha saldato tutto. Ora ti devo salutare e buon compleanno!» Hermes sparì ed io tornai ad essere sola.

Andai in cucina a cercare un vaso per i fiori. Mi accorsi che c'era un bigliettino tra le rose. Era bianco e c'era scritto in nero: Buon Compleanno Amore!

Mentre sistemavo il bouquet nel vaso sentii aprire la porta e nello stesso momento mi arrivò un messaggio Iride, mezzo di comunicazione tra semidei, però del primo me ne accorsi dopo.

«Che dolce» sospirai, mentre annusavo le rose.

Sapevano di buono, come tutte le rose, ma si sentiva anche l'odore della morte, si intuiva da dove provenivano.

«Ti sono piaciuti, vedo» la voce proveniva dal messaggio Iride.

L'immagine di un ragazzo galleggiava all'altezza del mio viso. Aveva la pelle olivastra, gli occhi neri profondi e i capelli del medesimo colore erano tutti scompigliati. Dal messaggio si vedeva che indossava una maglia nera a maniche corte con sopra un teschio bianco, e risaltava molto sulla sua carnagione. Di sottofondo si sentivano le urla di dolore e sofferenza, e dietro di lui c'era del fumo nero e qualche fiamma; gli Inferi. Avevo davanti a me Nico Di Angelo, figlio di Ade e il mio ragazzo.

«Da qui non posso fare più di tanto. Ho pregato Demetra per avere le rose e Hermes per venire nell'Ade a prendere il regalo. Vorrei essere lì con te» continuò Nico.

«Anche io lo vorrei, ma hai già fatto tanto. Grazie mille per i fiori! Come va lì?».

«Molto bene. Siamo solo alla prima tappa ma...»

«Mi dispiace interrompervi, ragazzi. Michela, abbiamo un regalo per te».

I miei genitori e la mia sorellina entrarono in cucina e mi porsero una busta. Mio padre aveva i capelli brizzolati, gli occhi marroni e il fisico tipico di un cinquantenne; era poco più alto di me e di mia madre mortale. Lei aveva i capelli rosso scuro e gli occhi verdi. Si chiamavano Ludovico e Rosa. La mia sorellina di dieci anni Melissa, che ancora mi tendeva la busta, era quasi alta quanto me, avevamo lo stesso colore di occhi ma i capelli erano rosso scuro. Rimasero tutti e quattro in attesa che scoprissi il contenuto della busta. Al suo interno c'era un foglio: un certificato di accettazione. Iniziai a leggerlo mentalmente:

 

 

Oxford Arts Academy

 

L'egregia Accademia delle Arti di Oxford è felice di comunicarLe che ha passato il test d'ingresso da noi richiesto e che potrà studiare presso la nostra magnifica scuola.

Le lezioni avranno luogo dal nove Settembre al trentun Maggio; se Lei ritiene di voler rimanere durante le vacanze di Natale sarà pregata di avvisare la Segreteria dell'Accademia. Tutto il materiale scolastico glielo procuriamo noi. Aspettiamo con ansia di vederLa presso i nostri alloggi.

 

Cordiali Saluti,

Il Preside

John Rockfield

 

Mi vennero le lacrime agli occhi, e mio padre lo notò: «Mentre non c'eri abbiamo messo insieme un po' di video in cui canti, e l'insieme lo abbiamo inviato alla scuola dove desideravi andare».

«Mi... mi hanno... accettata» balbettai.

Nella busta c'era anche un biglietto aereo per Londra.

«Quando parto?» chiesi.

«Dovrai partire domani, prima che la scuola cominci. Ora vi lasciamo soli» disse mia madre portando fuori dalla cucina il resto della famiglia e chiudendo la porta.

«Spiegami cos'è successo perché non ci ho capito nulla» disse Nico.

Gli mostrai la lettera d'ammissione: «Mi hanno accettata nell'Accademia delle Arti di Oxford; sogno di andarci da quando sono piccola... non riesco a crederci...» spiegai ancora incredula.

«Sono contento per te» disse con una strana espressione in volto. Era forse paura?

«Perché fai quella faccia?».

«Non è niente».

«Sì, invece. Cos'hai pensato?».

«E' che a Oxford c'è...».

«Allen?».

«Sì».

Allen era uno degli amici che avevo al Campo Mezzosangue. Era biondo con gli occhi verdi prato, figlio di Apollo, e rispecchiava il mio ideale di ragazzo. Lui viveva ad Oxford e non era in buoni rapporti con Nico. Sono stati nemici per tutta l'estate, gareggiavano ad una sfida dove io ero il premio. Mi innamorai del mio “non ideale” Nico e ci mettemmo insieme; ma ancora non si sopportavano. Nico sembrava preoccupato del fatto che partissi per la sua città.

«Non devi preoccuparti. Oxford è grande, c'è una possibilità su un milione che lo incontri. E anche se fosse? Se prova a sfiorarmi, ho sempre il mio pugnale portatile» gli dissi, indicando l'anello con un gufetto che portavo al dito.

Me lo aveva regalato Nico, poco dopo essere arrivata al Campo, per difendermi.

«Ora mi sento tranquillo. Mio padre mi sta cercando. Ti chiamerò domani, per sapere se sei arrivata. Ciao» mi salutò e il messaggio sparì.

Tenevo tra le mani la lettera d'ammissione, non ci credevo ancora. Ne discussi con i miei genitori mentre mi aiutavano a preparare le valigie. Trovai perfino il modo per portare con me il regalo di Nico. La maggior parte degli studenti venivano da famiglie benestanti, almeno così mi disse mia madre. Andai a letto presto e il giorno dopo mi alzai prima per prendere l'aereo che da Pisa mi avrebbe portata fino a Londra. L'aeroporto era pieno di persone e fu complicato passare con due valigie. La stazione non era da meno; sembrava che tutti volessero andare a Oxford. L'Accademia era dalla parte opposta e ci misi un po' a trovarla. In cielo splendeva il sole e un fresco venticello rendeva tutto più gradevole. In più, l'ambiente inglese era bellissimo; ero diretta verso la zona più tradizionale di Oxford, dove tutti i palazzi e, in parte, i negozi avevano l'aspetto della vecchia Inghilterra. Dopo vari consultazioni della mappa, arrivai all'Accademia alle tre circa. Era circondata da una recinzione molto sfarzosa dall'aria importante e di classe. Il cancello era interamente aperto e sopra di esso c'era un arco, sempre di metallo, con su scritto: Oxford Arts Academy. Lo varcai. L'esterno dava l'idea di essere un college. L'intero edificio era circondato da ettari di verde dove gli studenti, in divisa scolastica, passavano il tempo. Alcuni si riunivano in gruppo per cantare, altri creavano uno spettacolo di ballo sul momento, ed altri, invece, se ne stavano semplicemente all'ombra degli alberi a parlare animatamente. La struttura era di un rosso Terra di Siena e attorno alle innumerevoli finestre c'erano delle decorazioni di marmo bianco; anche la scalinata che portava al portone d'ingresso era fatta di marmo; il portone era fatto di legno di quercia, anch'esso con vari ornamenti eleganti. Quando entrai, davanti a me c'era un immenso ingresso che terminava con delle imponenti e sontuose scale. Sopra gli scalini c'era un lungo tappeto rosso acceso; il corrimano era fatto di marmo con delle striature arancioni. Davanti alle scale c'era un incrocio che portava in tre direzioni: l'ingresso, un corridoio a destra e uno a sinistra. Alzai gli occhi per cercare la segreteria; la scoprii alla mia sinistra, poco prima dell'incontro dei tre corridoi. Dentro,mi trovai di fronte ad una scrivania grigia con dietro una signora alla vista molto occupata. Mi guardò da dietro i suoi occhialetti fucsia e disse: «Lei deve essere quella nuova del quarto anno. Salga le scale, dopo di che giri a sinistra, e quando sarà arrivata in fondo svolti ancora a sinistra, così arriverà alla Presidenza» poi tornò a lavorare senza aspettarsi una mia eventuale risposta.

Seguii le sue indicazioni e arrivai all'ultima stanza del corridoio, la Presidenza. La scuola era divisa in due ali, rendendo più semplice orientarsi. Alcuni ragazzi facevano avanti e indietro per i corridoi ma la maggioranza doveva essere fuori, nel prato, e nelle varie camere per sistemarsi. La Presidenza era elegante come il resto dell'edificio. Era tappezzata di foto di vari presidi; di qualche coppa, il più stava nelle teche nei corridoi; davanti all'entrata c'erano due sedie nere di pelle, una scrivania di legno scuro e una sedia girevole dall'altro lato, simile alle due di prima, girata verso una finestra che dava sul giardino; accanto alla porta c'era una pianta che emanava un buon odore di fresco. Chiusi la porta alle mie spalle. La sedia verso la finestra ruotò e mostrò un uomo, dedussi fosse il Preside.

«Tu devi essere Michela. Benvenuta alla Oxford Arts Academy! Io sono il Preside John Rockfield, ma puoi chiamarmi John» disse l'uomo.

Mi sorpresi del fatto che sapesse chi fossi. All'inizio me l'ero immaginato come un vecchietto rognoso e formale, invece, era l'opposto. Era giovane, di bell'aspetto e ispirava fiducia. Aveva i capelli castani legati dietro a formare un ciuffo; gli occhi marroni con un lieve accenno di verde; e vestiva in giacca e cravatta blu scuro, ma non gli conferiva un'aria dura, stonava solo un po' con il suo aspetto.

«Ti stai chiedendo come ho fatto a capire che eri tu, vero?» mi domandò sorridente.

Annuii in imbarazzo.

«Ti ho vista arrivare dalla finestra, ti stavo aspettando. Voglio accogliere bene i miei studenti» fece una pausa «Ti ho preparato la divisa. Là c'è un'altra stanza, puoi cambiarti lì» disse indicando una porta alla mia destra.

«Grazie. Allora vado...» entrai nell'altro locale.

La divisa era carina: una camicia bianca; una cravattina blu a righe verdi; un maglione blu a rombi verdi; una gonna scolaresca blu, sfortunatamente troppo corta per me, che arrivava alla metà coscia; delle parigine bianche di lana; e delle ballerine blu con un minuscolo tacco e un fiocchetto. Uscii dalla stanza cercando di tirarmi in giù la gonna. Appena il Preside notò che ero pronta pigiò sull'auto-parlante: «Il Signor Moore da me in Presidenza» lo spense e si rivolse a me «Il Signor Moore ti farà fare il giro dell'Accademia» mi spiegò.

Mi immaginai che il Signor Moore fosse l'assistente del Preside o il bidello imbranato e anziano della scuola. Nell'attesa John mi fece accomodare. Dopo sei minuti contati, la porta dietro di me si aprì e sentii una voce familiare.

«Signor Preside, cosa desidera?».

«Oh, finalmente Moore! Accompagneresti la tua nuova compagna a fare il giro della scuola?».

Non potevo sbagliarmi, quella voce era di... «Allen!» mi alzai e lo abbracciai.

«Michela! Cosa ci fai qui?».

«Regalo di compleanno dei miei» sorrisi.

«Che bella collanina» commentai indicando il suo ciondolo a forma di sole.

«Grazie. E' un regalo di papà».

«Hai visto tuo padre?».

«No, ma me l'ha fatta portare dal "messaggero"».

«E' stato comunque un bel pensiero, no?».

«Si, vero».

«Molto bene. Vi conoscete già, il sole e il gufo...» si intromise il Preside con fare inquietante.

«Okay... noi andiamo. Arrivederci Preside» Allen lo salutò e ci dileguammo.

«Te le prendo io» disse riferendosi ai miei bagagli.

«Grazie. Il Preside è stato parecchio strano» notai.

«Già. Ci ha chiamati il gufo e il sole...».

«Non sarà che...».

«No, non può essere».

«Giusto, non pensiamoci adesso. Come ti sono andate il resto delle vacanze?».

«Oh, molto bene! Ho invitato i miei amici nella mia villa e abbiamo festeggiato. Ho fatto una festa al giorno, quasi... tu invece?».

«Una noia mortale... non c'era molto da fare da me, dopo la mia strana scomparsa a fine maggio i miei amici facevano finta che non esistessi».

«Non preoccuparti, qui ti andrà meglio! Vieni, andiamo a posare le tue valigie».

«Ti iniziano a pesare? Non sei poi tanto forte, Mr. Muscolo» risi.

«E questo cos'è? Un altro soprannome?».

«Può darsi...».

«E per fartelo sapere: io sono forte. Sennò non ti avrei lasciato delle cicatrici sul polpaccio» disse indicandomi la gamba.

«Ancora con questa storia? Ormai si vede poco».

Durante la Caccia alla Bandiera del Campo, io e Allen eravamo contro e lui mi aveva tirato una frecciata al polpaccio, così avevo ancora il segno.

«Oh, ecco. Siamo arrivati: camera numero sessantasei».

Allen aprì la stanza e mi consegnò le chiavi. Era piccola ma ordinata. In fondo alla stanza c'era un letto a castello di legno davanti a un grande armadio e in mezzo una finestra; vicino alla porta c'erano due scrivanie e una libreria; tra l'armadio e una scrivania c'era la porta del bagno. Era la tipica camera da dormitorio. Allen mi aiutò a portare dentro le valigie; le sistemammo sul letto in basso così da far capire alla mia coinquilina che io non volevo dormire di sopra.

«Quindi il tuo cognome è Moore, eh?» gli domandai, mentre mettevo i vestiti nei cassetti dell'armadio.

«Sì, il cognome di mia mamma. Non credo che Apollo abbia un cognome».

Mentre sistemavamo i vari oggetti che mi ero portata dietro, davanti alla finestra apparve un messaggio Iride.

«Michela, ci sei? Sei arrivata?».

«Ciao Nico! Si, questa è la mia stanza, e guarda qui. Signor Moore!».

Allen era sotto il letto per controllarne la rete; suppone che possa crollare durante la notte. Cercò di uscire di lì. «Dai, smettila, non chiamarmi per cognome!».

Nico si pietrificò a sentire la voce di Allen.

«Ch-che bello! A quanto pare sei proprio quell'uno su un milione» commentò Nico.

«Ciao zombie! Come va lì nell'oltretomba?» gli disse Allen appoggiandosi a me.

«Hey, questo è sfruttamento dei diversamente alti» affermai.

«Sai, mi piacerebbe che mi venissi a trovare e restassi qui per sempre, Allen» gli rispose Nico sorridendo.

«E' bello vedervi andare d'accordo, sapete?» dissi.

«Oh, si. Sfortunatamente devo lasciarvi. Devo tornare da mio padre, ci si sente!».

«Simpatico come sempre, eh?» disse Allen ironico.

«Hey, non fare battute sul mio ragazzo, solo io posso» lo brontolai.

«Okay, scusa. Su, ti faccio fare il tour dell'Accademia».

L'Accademia era divisa di due ali. Prima mi mostrò quella che secondo me era la meno importante: «In questa parte ci sono i dormitori. Fanno una stanza sì e una no per maschi e femmine. Dopo le dieci e mezza non si può uscire dalle proprie stanze. Io una volta ci ho provato e quando il Preside mi ha scovato è sembrato inumano, nel vero senso della parola, quindi non ci provare».

«Nell'altra ala, dove c'è la Presidenza, e nella parte orizzontale ci sono le varie classi, i teatri, le sale da ballo, la palestra e la mensa».

Per i corridoi incontrammo un gruppo di quattro ragazze dai capelli biondi e mossi. Avevano tutte l'aria di chi si monta un po' troppo la testa.

«Hey Allen! Perché vai in giro con quella novellina sfigata?» disse la ragazza centrale del gruppo. Aveva gli occhi azzurro cielo e si era truccata in modo da far risaltare le labbra e le ciglia. Le altre ragazze avevano le sue stesse caratteristiche, tranne che erano truccate e risaltavano meno. Quella a destra aveva gli occhi verde smeraldo; quella di sinistra gli aveva azzurro ghiaccio; e quella dietro gli aveva verde acqua. Le ultime due avevano le sopracciglia marroni, segno del fatto che i capelli se li erano tinti.

«Le faccio fare il giro della scuola. Non è sfigata» mi difese Allen.

«Non sei in grado di difenderti, perdente?» continuò ad attaccare briga l'altra.

«Dejà-vu...» dissi.

«Cosa hai detto, pivella?» chiese lei.

«Niente. Non hai un buon orecchio per essere in una scuola delle arti».

«Tusché!» se la rise Allen.

«Come puoi vedere so difendermi da sola, Barbie» continuai.

«Oh, che arrogante! Ci rivedremo. E Allen... la prossima volta preferirei fossimo soli».

Le ragazze se ne andarono e ci lasciarono nel corridoio.

«Hai ragione. È divertente vedere le persone litigare» commentò Allen.

«Ah ah ah. È stato come un dejà-vu: ho avuto una conversazione simile con Clarisse».

«Se te la sai cavare con lei, puoi cavartela con tutti!».

«Vero. E comunque ho visto che hai fatto breccia nel cuore di quella Barbie. Ma che bravo! Ora sei: Johnny English il Conquistatore!».

«Si, questo è il secondo anno che mi viene dietro e sarà il secondo che la rifiuterò».

«Prova almeno a darle una possibilità!»

«Come tu hai fatto con me?».

Ci fermammo. Era una domanda imbarazzante a cui non avevo mai pensato.

«Lascia perdere, fai finta che non l'abbia detto. Voglio farti vedere un posto».

Mi prese la mano e corremmo per i corridoi finché non entrammo in una sala immensa. Era un teatro interamente di legno verniciato d'oro e decorato con drappi e tappeti rossi.

«Dai, sali sul palco» mi incitò Allen.

«Però vieni anche tu».

Salimmo e il panorama era bellissimo: centinaia di poltrone rosse davanti, e ai lati c'erano dei soppalchi.

«Ora chiudi gli occhi e prova ad immaginarti tutti i posti occupati. Sono qui per vedere te».

Chiusi gli occhi e iniziai a cantare "Just a dream" di Nelly:

«I was thinking about you, thinking about me, thinking about us, what we gonna be? Open my eyes... it was only just a dream...».

All'ultima frase si unì anche Allen; poi aprimmo gli occhi, ci guardammo e ci mettemmo a ridere. Non avevamo mai pensato ad una situazione del genere. Qualcuno si avvicinò battendo lentamente le mani.

«Bravi, bravi e ancora una volta bravi! Sembrate fatti per cantare insieme. E poi tu, Michela, sei veramente spettacolare! Ho fatto un buon acquisto» era il Preside.

«Grazie» diciamo io e Allen all'unisono.

«Michela, il tuo è un talento sprecato per stare con quelli della tua classe. Che ne dici se ti dò il permesso per entrare a far parte della sua?» disse John, e alla parola "sua" indicò Allen.

«Beh... non sarebbe male. Grazie infinite!».

«Bene, allora andrò subito a registrarti. E correte a prepararvi: tra un'oretta si cena» il Preside com'era arrivato se ne andò; in silenzio.

«Ti accompagno alla tua camera, non voglio che ti perda» mi disse Allen, quando fummo fuori dalla sala, in corridoio.

«Grazie. Sai che ore sono?».

«Dovrebbero essere le sei, visto che noi ceniamo alle sette».

Quando arrivammo davanti alla stanza, io aprii la porta.

«Grazie ancora di tutto, e... ciao» dissi, con l'intenzione di entrare.

Allen però si avvicinò. Controllai che non ci fosse nessuno nel corridoio, erano tutti a prepararsi per la cena; toccai il mio anello col gufetto e puntai il pugnale che ne uscì contro di lui. «Okay, okay, me ne vado» si arrese.

Lo guardai sparire dentro un'altra stanza non molto lontana; varcai la soglia della mia e notai una ragazza nel letto di sopra che leggeva un libro dalla copertina gialla e nera.

«Ciao. Devi essere la mia compagna di stanza. Io mi chiamo Michela» mi presentai, con un espressione abbastanza ovvia.

Lei spostò lo sguardo dal libro, lo chiuse, e scese dal letto con un salto che le fece svolazzare un po' la gonna. Aveva, anche lei, la divisa ma non portava il maglione; i capelli biondi lisci fino al gomito le donavano molto, incorniciandole il viso; gli occhi marroni avevano un brillio arguto; aveva un naso piccolo, leggere sopracciglia, labbra rosee come le guance, e una pelle chiara che si addiceva alla popolazione inglese; aveva una figura esile, ed era poco più alta di me; aveva un viso simpatico ed era truccata leggermente, come se costretta da formalità, e non aveva niente a che fare con le ragazze che avevo incontrato poco prima nel corridoio.

«Piacere, io sono Lindsay. Menomale che ci sei tu! La compagna dell'anno scorso era veramente antipatica» disse tutto d'un fiato la mia nuova coinquilina.

«Spero di piacerti, allora! Io ho sedici anni, ma farò lezione con quelli di diciasette, tu...» stavo per dire.

«Vuol dire che saremo in classe insieme, almeno abbiamo gli stessi orari scolastici!» esultò lei.

«Giusto. Tu sei già pronta per andare a cena?».

«Sì, il bagno è tutto tuo!».

«Okay, grazie».

Quando fui pronta, sistemai le mie ultime cose che avevo in valigia; poi Lindsay vide una foto che ritraeva me e Nico. Una foto semplice, scattata sui gradini dell'arena dopo uno dei soliti allenamenti giornalieri, in cui ci tenevamo per mano, e invece che guardare l'obbiettivo, ci guardavamo dolcemente negli occhi sorridendo.

«Oh, ma che carini! Lui chi è?» fece un'espressione maliziosa, mentre si avvicinava con la foto puntata su di me.

«Lui è il mio ragazzo, Nico» dissi semplicemente.

«Che fortunata! E dov'è?».

«E' a Los Angeles, vive lì».

«Ma guardati, sei tutta rossa! E hai un sorriso che va da un orecchio all'altro...».

«Se prima o poi lo incontrerai... non dirglielo, ti prego. Me lo rinfaccerebbe».

«Ma state insieme, perché dovrebbe farlo?».

«Siamo una strana coppia».

«Concordo. Sarà meglio andare a mensa».

La mensa era veramente grande. Beh, doveva ospitare centinaia di studenti dai tredici ai diciotto anni. Per cena c'era: penne al pomodoro, insalata, e una mela. Ci sedemmo a un tavolo vuoto, nel frattempo Lindsay mi spiegava come funzionavano le cose all'Accademia.

«La maggior parte dei ragazzi sono ricchi, ma hanno la testa apposto; poi, come in ogni scuola, c'è il gruppo dei popolari: prevalentemente sono persone vanitose che puntano al successo e alla fama, beh... come tutti del resto. Vedi quel tavolo laggiù? Quello centrale».

Individuai il tavolo principale, più grande e bello degli altri, e annuii.

«E' il loro tavolo. Sono per metà di classe nostra e per l'altra parte di studenti dell'ultimo anno. I ragazzi sono tutti fantastici e la gran parte delle ragazze gli sbava dietro, però alcuni sono un po' sfrontati. Invece, le ragazze di quel gruppo sono tutte delle arpie, si montano la testa».

«Credo di averne incontrata una nel corridoio, l'ho chiamata Barbie» dissi con tutta la naturalezza del mondo.

«Hai avuto il coraggio di risponderle?» domandò sconvolta.

«Sì, odio quando mi prendono in giro. Sono fatta così, non riesco a stare zitta».

«Tu sei proprio forte!» esclamò, dopo aver tirato giù una forchettata di penne.

«Grazie. E' solo che non voglio farmi mettere i piedi in testa da nessuno».

«Hey, uno dei ragazzi popolari sta guardando dalla nostra parte! Oddio, guarda quant'è bello!»

Guardai dove stava indicando.

«Ma chi, Allen? Deve perdere l'abitudine di fissarmi» commentai mentre mettevo un po' di aceto sull'insalata.

«Tu conosci Allen Moore?».

Annuii e poi, dopo aver mandato giù un boccone , risposi.

«Perché?».

«E' uno dei ragazzi più amati e ammirati di tutta la scuola. Come fai a conoscerlo?».

«Quest'estate eravamo insieme ad un campo estivo».

Lindsay mi guardò con occhi adoranti.

«Ho deciso: da oggi sei il mio idolo!» esclamò, sbattendo la forchetta sul tavolo.

Risi «Grazie, ma non so se esserne fiera...».

«Sh...! Sta venendo qui!».

Sospirai, posando le posate e guardando in direzione di Allen. Ero felice che ci fosse qualcuno che conoscevo all'Accademia, ma... lui era anche fin troppo presente.

«Non riesci ancora a smettere di guardarmi mentre mangi?» gli chiesi, scherzando.

«Come potrei smettere? Non posso farne a meno» mi sorrise lui.

«Penso che tu ti ci debba abituare, Moore».

«Smettila di chiamarmi per cognome. Preferisco mille volte Johnny English o Mr Muscolo!».

«Lo so, i miei soprannomi sono imbattibili!»

Ridemmo per un po' mentre Lindsay ci guardava a bocca aperta.

«Hey Lindsay, perché quella faccia?» la notò Allen.

«Ti ricordi di me?» chiese lei sorpresa.

«Ovvio. Sei in classe mia dalla seconda, sono quattro anni!»

«Ora posso morire felice» disse lei, appoggiandosi alla sedia, sollevata.

«Esagerata» dissi, mentre continuammo a ridere.

Barbie venne verso di noi e prese Allen a braccetto.

«Hey, perdenti. Vi porto via Allen, okay?» disse, sfoderando il suo finto sorriso.

«Certo Barbie, fai pure» le risposi.

Mentre lo trascinava via, Allen mimava con la bocca «aiutami!», io per risposta gli feci la linguaccia.

«Pensavo che, nonostante fossi in classe sua, non si ricordasse di me. Il tipico comportamento da popolare, in pratica» riprese Lindsay.

«Io voglio farmi notare. Voglio realizzare il mio sogno e sono qui per questo» dissi, con sicurezza.

«Allora buona fortuna, a Carin non piacerà» commentò lei, inforchettando l'insalata.

«Chi è Carin?».

Lindsay fece un segno col capo verso il tavolo dei popolari, poi ingollò, e disse solamente.

«Barbie».

«Ah... allora ha anche un nome» considerai guardando il mio piatto.

«Che stupida».

Ridemmo per un po', infine conclusi «Penso che Carin ci dovrà fare l'abitudine».

Ci conoscemmo per il resto della cena. Scoprii che Lindsay aveva il padre scrittore di libri gialli, da cui lei ereditò la grande passione per la lettura, e la madre proprietaria di un ristorante in centro; viveva a Londra e aveva due pastori tedeschi di nome Susy e Lily; aveva un fratello maggiore di nome Dan. Arrivati al “dessert” lei diventò più strana di quel che era. Guardava prima me e poi Allen, dopo nuovamente me, poi lui.

«Sai cosa abbiamo scoperto l'anno scorso?» mi domandò.

«No, cosa?» chiesi curiosa, mordendo la mela.

«Abbiamo scoperto che possiamo capire come un ragazzo o una ragazza bacia guardando come mangia una mela» disse tutta soddisfatta.

«Okay, questa è una cosa assurda» la interruppi, per poi dare un altro morso.

«E Allen ti sta osservando» concluse Lindsay.

Per poco non sputavo la mela, o magari mi ci strozzavo.

«Cosa??».

«Mi sembra di essere stata chiara: Allen sta guardando come mangi la mela».

«Non credo sia una cosa sensata».

«E perché non dovrebbe esserlo?».

«Allen mi ha visto baciare il mio ragazzo, perché, ora, avrebbe bisogno dell'aiuto di una mela?».

«Non so... magari vuole prendere il posto del tuo ragazzo?».

«Non lo pensare nemmeno. Non voglio vivere il dejà-vu di quest'estate».

«Quindi...».

«No, lascia perdere, Lindsay. Sarà meglio andare in camera».

Non le diedi il tempo di ragionare e tornammo in camera. Ci infilammo nei letti e mi addormentai quasi subito.

  
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Percy Jackson / Vai alla pagina dell'autore: Mir7