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Autore: Urban BlackWolf    07/09/2017    5 recensioni
Inesorabilmente trascorse settimane da quella giornata di fine giugno, di Haruka e Michiru non si hanno più notizie. Le hanno cercate ovunque, interminabili ore passate tra le sponde di quel corso d'acqua quasi irriconoscibile, ma di loro non c’è più alcuna traccia.
Ma quando la speranza sembra ormai stata vinta dalla rassegnazione, un giovane dalla zazzera dorata e gli occhi verdi come i prati delle montagne ai quali appartiene, comparirà al servizio di una delle famiglie più in vista di Berna deciso a scoprire cosa realmente sia accaduto dopo quella maledetta sera.
-Sequel de: le trincee dei nostri cuori-
Genere: Avventura, Romantico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yuri | Personaggi: Haruka/Heles, Makoto/Morea, Michiru/Milena, Minako/Marta, Setsuna/Sidia | Coppie: Haruka/Michiru
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna serie
Capitoli:
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Fino alla fine del mondo

La mia promessa a te

 

Sequel del racconto

le trincee dei nostri cuori

 

I personaggi di Haruka Tenou, Michiru Kaiou, Setsuna Meiou, Makoto Kino, Usagi Tzukino e Minako Aino appartengono alla fantasia della scrittrice Naoko Takeuchi

Sviluppo della storia ed altri personaggi sono idea di Urban Blackwolf


 

 

 

Far ritorno a casa

 

 

Stazione di Berna

Svizzera settentrionale – 16/9/1915

 

Il fischio di richiamo per i passeggeri sibilò acuto tra le rotaie della stazione, ma Haruka proprio non se ne accorse. Sapeva di stare facendo una gran brutta figura, ma in realtà poco le importava, perché proprio non riusciva ad impedire ai suoi occhi avidi ed alla sua bocca sbigottita di schiudersi un poco di fronte a quello spettacolo. Si sentiva come una bambina ferma davanti alla cosa più sensazionale del mondo. Ed in realtà per lei lo era, lo era e come, perché mai in vita sua avrebbe sperato di poter toccare con mano quel mostro di ferro brunito dalle ruote motrici rosso fuoco unite da bielle massicce che ben presto ne avrebbero ritmato il movimento. Con il battito del cuore leggermente accelerato di quel tanto da farla respirare più velocemente del solito, gli occhi correvano ubriachi di curiosità lungo tutta la caldaia cilindrica, la camera di fuoco, il comignolo che già sbuffava un denso ed acre fumo scuro, fino alla griglia apripista, bella da mozzare il fiato, anch’essa rossa, accattivante, potente.

Freddy, l’autista di casa Kaiou, se la guardò ridendo piazzandole una poderosa manata sulla schiena. “Come ti capisco amico mio, come ti capisco!” Convenne guardando in direzione delle carrozze dove i passeggeri stavano salendo.

“Padre santissimo… Quello del macchinista deve essere il mestiere più bello del mondo!” Sospirò lei chiudendo finalmente la bocca.

“Credo, ma è meglio che ti dia una mossa Giovanni o rischierai di rimanere sulla banchina come un allocco.”

“Mmmm… Hai ragione. - si scosse staccando a forza il contatto per porgergli la mano. - E’ meglio che salga. Arrivederci Freddy.”

“Mi raccomando Tenou, fai del tuo meglio. Sei la nostra ultima speranza.” Confessò serrandole le dita anche troppo forte.

Lei sorrise afferrando lo zaino da viaggio pronta a dirigersi verso la carrozza “Centoporte” dove avrebbe trovato il suo posto. E così il viaggio riprendeva, ancora in movimento come una falena attratta dalla sua luce.

Issandosi faticosamente sulle scalette e richiusasi la porta alle spalle avvertì il primo scossone ed il fremito motorio dell’asse sotto i piedi ed in un paio di secondi il treno si mise in movimento. Sorridendo e lanciando un’ultima occhiata a Freddy depositò il bagaglio sulla mensola sopra la sua poltrona sedendosi dopo aver salutato con un cenno le due signorine che avrebbero viaggiato con lei.

Certo, non soltanto non si sarebbe mai immaginata di viaggiare in treno, ma addirittura farlo in prima classe poi. Il signor Viktor era stato fin troppo generoso, sia con il titolo di viaggio, sia con il denaro che avrebbe dovuto usare per il vitto, l’alloggio e gli eventuali imprevisti.

“Non badate a spese, Giovanni. Se ci fosse la necessità di sbloccare reticenze e comprare informazioni... Mi fido di voi.” Gli aveva detto consegnandole una busta estremamente robusta.

E lei l’aveva accettata, anche se mal volentieri. Avrebbe tanto voluto dirgli che tutti quei franchi non sarebbero serviti, perché qualunque porta chiusa avesse trovato lungo la sua strada, lei l’avrebbe aperta con la sola forza del suo amore, venendo anche alle mani se fosse stato necessario. Ma naturalmente se lo era tenuto per se.

Sentendo ridacchiare le due ragazze, puntò lo sguardo al vetro cercando di far finta di nulla. Dopo aver condiviso per giorni gli spazi con sette donne, Haruka aveva imparato ad identificare nel corpo femminile gesti che prima di incontrare Michiru e le altre, ignorava. Ora sapeva riconoscere una risata argentina, da una civettuola, uno sguardo innocente, da uno provocante e se quelle due non fossero scese presto, non l’avrebbero lasciata godersi il viaggio in pace.

Certo non poteva dar loro torto; era vestita molto bene, i Kaiou ci tenevano visto che sarebbe andata in giro per loro conto e naturalmente aveva il suo bel fascino da tenere sotto controllo. Sbuffando leggermente si nascose il mento nel palmo della sinistra puntando saldamente il gomito al finestrino cercando di non arrossire, provando a distrarsi guardando le ultime case di Berna scivolare velocemente al di la del vetro. Non aveva dormito che una manciata di minuti e si sentiva stanca, ma al contempo era euforica, perché nel pomeriggio sarebbe arrivata a Bellinzona e se le gambe non l’avessero tradita, sarebbe arrivata alla baita verso l'imbrunire. Il locale per Locarno passava ogni due giorni e tanto valeva approfittarne per prendersi un po’ di tempo tutto per se. Avendo la paga di un mese ed il denaro datole dal signor Kaiou, avrebbe potuto mangiare e riposare in uno degli alberghi del centro città, ma voleva respirare l’aria dei boschi almeno per qualche ora e poi sapeva che nella sua baita, abbandonato in un angolo perché troppo ingombrante, c’era ancora il bagaglio di Michiru e le avrebbe fatto bene toccare le sue cose e magari riuscire a ritrovare tra quegli abiti il suo odore. L’unica cosa mancante sarebbe stata il suo violino. Quanto aveva combattuto per farglielo lasciare alla baita. La prima colossale sconfitta inanellata a favore del carattere coriaceo di quella donna.

Haruka sono anche disposta a dormire per terra, a viaggiare per giorni vesciche ai piedi, a rovinarmi le mani scalando rocce e tirando corde, ma il mio strumento non lo lascio, sia chiaro!

Boia infame..., non si può fare!

E non imprecare, per favore!

Ridacchiò a quel ricordo. Era stata messa a cuccia di fronte a tutte le altre ed era stato più che lampante che Michiru Kaiou, in un modo o nell’altro, l’avrebbe sempre avuta vinta con lei.

Incrociando le braccia al petto e sistemandosi più comodamente sullo schienale di raso, la bionda ricordò anche quello che era accaduto qualche ora prima della sua partenza, La sua dea era nel cuore di ogni componente di casa Kaiou, ma non avrebbe mai immaginato che lo fosse anche per la governante, sempre molto arcigna e severa. Quando Clementine Rostervart era apparsa alla sua porta con gli occhi strani, carichi di un misto angoscioso d’impazienza, speranza e consapevolezza, il viso stanco, i capelli grigi raccolti svogliatamente in un’insolita treccia, lei sempre inappuntabile ed ordinata, Haruka aveva sbattuto le palpebre non credendo che una donna sil fatta potesse compromettersi in quella maniera.

“Signorina… e’ l’alba. Cosa ci fate nella zona maschile?” Aveva sibilato avendo come risposta la richiesta di poter entrare nella sua stanza e la bionda aveva tergiversato sino a quando l’insistenza della governante si era fatta troppo asfissiante per non concedendole quella cortesia.

“E voi Giovanni Tenou, sempre se sia veramente questo il vostro VERO nome,… voi cosa ci fate qui?” E a quella frase era stato chiaro che la battaglia fra le due non poteva ancora dirsi conclusa.

“Non capisco a cosa alludiate signorina, comunque non mi sembra il caso che vi tratteniate oltre nella camera di un uomo.”

“Un uomo?! Non credo proprio che ve ne siano qui.”

Schiacciando i denti gli uni contro gli altri Haruka aveva allora cercato di non farle vedere quanto il colpo fosse stato violento. L’aveva forse scoperta?

“Vi prego di andarvene.”

“Altrimenti cosa farete Tenou? Chiamerete i signori e tutta la servitù così che possiate rivelare loro che in realtà sotto questi panni maschili si nasconde il corpo di una donna?” Ed era stato panico accesosi come goccioline di sudore gelato e battiti impazziti.

“Signore… signore prego, il biglietto.” Voltando la testa di scatto verso l’uomo in divisa, Haruka lo guardò un attimo frastornata prima di alzare le sopracciglia ed estrarre il suo titolo di viaggio dalla tasca della giacca.

“Scusate, ero sopra pensiero. Ecco a voi.”

Prendendolo lui l’obliterò con la pinza ringraziando e portandosi due dita alla visiera del berretto uscì dalla carrozza. Un occhio alla civetteria delle due ragazze e la bionda tornò a sprofondare nella poltroncina alzandosi il colletto inamidato della camicia bianca fin sotto al mento. Dio quanto odiava sentirsi quella stoffa rigida premuta alla carotide. Ma nelle ultime ore era diventato ben chiaro come quel fastidio ed il sollievo che spesso Haruka ricercava togliendosi il cravattino per lasciare il collo libero, l’avessero tradita.

“Sapete Tenou sono figlia di una sarta e fin da giovane ho avuto a che fare con la siluette femminile ed i colli, che sono la prima cosa che in genere osservo in una persona e devo confessarvi che il vostro è particolarmente strano per essere quello di un giovane uomo.” Avvicinandosi, la governante l’aveva costretta ad indietreggiare sulla difensiva.

“N…non capisco…”

“A non capite? Ve lo spiego subito… il pomo di Adamo Giovanni. Voi ne siete completamente sprovvisto.” A quella rivelazione Haruka si era portata la mano alla gola dilatando le pupille.

“Per non parlare poi delle mani, troppo piccole, ed alcuni vostri atteggiamenti tipici di una sensibilità femminile. Ammetto che siete stata molto brava, i capelli portati corti e gli abiti maschili vi hanno sicuramente aiutata ad accentuare la vostra figura androgina, ma sono abituata ad avere a che fare con ragazze da tutta una vita e non è facile ingannarmi.”

Vinta l’altra aveva chiuso gli occhi poggiando le spalle al muro. Dannazione non poteva essere stata smascherata proprio ora che stava per partire!

“Qual è il vostro vero nome?” Si era sentita chiedere.

“Haruka… Haruka Tenou.” Aveva risposto sommessamente abbassando la testa.

“E per il resto avete detto la verità?”

“Si signorina, a parte il fatto che provengo da Bellinzona.”

“E realmente Michiru vi ha salvato la vita?” Un si strozzato.

“E rispondetemi Haruka… Michiru è una vostra… amica?”

“Io non vedo perché tutte queste domande…”

“Perché mi dovete delle risposte! Perché avete ingannato la buona fede degli abitanti di questa casa e perché per vent’anni ho cresciuto quella ragazza come una figlia e credo di sapere su di lei molte più cose di quanto non ne sappia sua madre. Perciò vi chiedo… volete bene a Michiru?”

A quell’ennesima domanda la bionda aveva alzato la testa guardandola intensamente.” Si!” Questa volta vibrato e convinto.

“L’amate?”

E stringendo i pugni aveva mosso impercettibilmente la testa dorata aspettandosi il peggio.

“E.. lei ricambia questo sentimento non è vero?” A quel punto Haruka non era stata in grado di rispondere e non certo perché non credesse nell’amore di Michiru, ma perché non capendo il fine di quella sfilza di domande non voleva comprometterla. Ma tergiversando aveva fatto capire a Clementine ogni cosa.

“Il vostro silenzio vi fa onore Haruka, ma ribadisco di averla cresciuta io quella figliola e lasciate che vi dica di essere molto contenta per lei. Per entrambe.” A quell’affermazione la donna le aveva inaspettatamente accarezzato il viso sorridendo ed andando verso la sedia della scrivania vi si era seduta confessandole poi tante cose, tanti impercettibili segnali che nel tempo le avevano fatto capire come Michiru, che pur non disdegnava la compagnia dei suoi coetanei, fosse più incline all’amore saffico che ad una relazione convenzionale e di come si fosse stupita quando aveva appreso del suo improvviso fidanzamento con Daniel Kurzh.

Così si erano ritrovate a parlare per interminabili minuti nei quali la ragazza le aveva raccontato del loro incontro, del viaggio, del ricatto, della fuga e della diga, di come Michiru si fosse rifiutata di lasciarla sola nel momento più difficile, ferita, impossibilitata a mettersi in salvo, scegliendo di fatto di condividerne la medesima tragica sorte. E la governante l’aveva ascoltata arrivando a consolarla capendo il senso di colpa nell’essere stata involontariamente la causa della scomparsa dell’altra. Haruka aveva trovato un’insospettabile alleata, sentendosi quasi avvolta da quello spirito materno che da due anni ormai non aveva più, mentre Clementine aveva scoperto in quella ragazzona timida una dolcezza ed una forza di spirito incredibili, ed era stato un po’ come se la sua Michiru fosse stata nuovamente a casa.

Così avviluppata da quei ricordi Tenou cedette al sonno lasciando che il ritmico dondolare del treno la cullasse fino a Bellinzona.

 

 

Ospedale riabilitativo di Muhleberg

Svizzera settentrionale

 

Portandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio destro, la dottoressa chiese al suo interlocutore di poter aprire la finestra per lasciare entrare nella stanza un po’ d’aria fresca. Completamente chiuso a riccio lui la guardò voltando maleducatamente il viso continuando a stringersi le braccia al petto. Trenta minuti buttati all’aria, gemelli di tutti quelli che nel corso dei loro incontri li avevano preceduti e fratelli dei futuri che sicuramente sarebbero arrivati l’indomani. Si, perché quel ragazzino proprio non voleva collaborare.

Il dottor Ernest Grafft, titolare della struttura e gran luminare della medicina post traumatica, le aveva dato quell’incarico proprio in virtù del suo essere donna e perciò dotata dalla natura di un certo intuito empatico e del così detto “spirito materno”, ma alla luce dei suoi completi fallimenti giornalieri, Setsuna era più che convinta che continuando così non avrebbe tirato fuori un ragno dal buco. Facendo leva sulla maniglia di ottone aprì la finestra sorridendo al venticello alzatosi dopo pranzo.

“Lo so che vorresti andare a correre fuori Sigmund, ma se non mi aiuti ad aiutarti continueremo a buttare tempo prezioso.” Disse girandosi per poi appoggiarsi alla mensola con entrambi i palmi delle mani.

Nulla. La tecnica che quel bambino stava usando con lei era chiara e ovviamente infantile; un muso messo su dall’inizio alla fine della seduta, occhi bassi o fissi su un particolare qualsiasi presente nella stanza ed un mutismo irritante che però, grazie al cielo, non squassava mai più di tanto i nervi della donna.

“Il suo essere predisposta alla maternità potrà sicuramente aiutarla dottoressa.” Le aveva detto il dottor Grafft affidandole quel caso con una mancanza di rispetto estremamente sessista.

Ecco perché Setsuna Meiou, vent’ottenne prodigio della psicanalisi, allieva del genio freudiano e dei più reconditi lati oscuri dell’essere umano, aveva dovuto in fine scegliere quell’enigmatico ramo della medicina pur essendo molto più talentuosa nella chirurgia, perché di fatto il suo essere donna le precludeva ancora gran parte delle specializzazioni. I tempi non erano maturi perché il sesso femminile campeggiasse al fianco a quello maschile nell’arte medica, ed anche se la guerra aveva involontariamente aperto nuove frontiere al così detto “sesso debole”, portandolo nelle fabbriche, negli uffici, fin anche nei trasporti, lei trovava ancora tanta difficoltà a farsi, non tanto valere, ma semplicemente ascoltare dai suoi colleghi.

E così non aveva potuto far altro che applicarsi ancora di più, spingendosi giornalmente oltre i suoi limiti. Dal carattere curioso, severo, ma sereno, Setsuna aveva sviluppato nel tempo la capacità di analizzare, ripartire, schematizzare e catalogare ogni mente bisognosa d’aiuto le si ponesse davanti, sapendo benissimo che quelle doti affinate con ore e ore di studio e apprendistato, non soltanto non sarebbero servite a farla apprezzare, ma con molta probabilità le avrebbero gettato addosso la plumbea invidia dei colleghi uomini. In più lei era straniera, forgiata alla scuola americana dell’avanguardia sullo studio dell’inconscio e con l’aggravante di essere una gran bella donna.

Di padre newyorchese e madre catalana, Setsuna era cresciuta ed aveva studiato negli Stati Uniti, dove tutto era innovazione e progresso. Al ritorno nella vecchia Europa si era dedicata a mettere in pratica la psicoanalisi e le sue derivazioni, soprattutto nei coinvolgimenti affettivi, cosa questa che aveva finito per assorbirla completamente non lasciandole il cuore libero di innamorarsi pur avendo già avuto parecchi pretendenti. Dalla figura alta e slanciata, i lunghissimi capelli lisci di uno scuro intenso lasciati spesso liberi dalle acconciature modaiole del momento, due occhi castani così caldi da sfiorare sfumature di un rosso quasi terroso, un viso dai lineamenti regolari risaltati dall’incarnato bronzeo della terra di Spagna, non passava certo inosservata, anzi, il magnetismo che esercitava, una sorta di intreccio tra il sensualissimo sangue iberico e la smania progressista della grande mela, la rendevano ambitissima per qualsiasi uomo colto con un minimo di sale nel cervello.

Guardando il ragazzino sorrise benevola. Certo Sigmund non le rendeva le cose facili eppure e nonostante tutto, quel biondino con il suo comportamento al limite dell’arroganza continuava a pungolarle la voglia di un soccorso.

Sospirando silenziosamente incrociò le braccia al petto capendo che anche quella seduta si sarebbe chiusa infruttuosamente. Tanto valeva divertirsi un po’ prima di mollare definitivamente la presa.

“Ho riscontrato che dopo i nostri incontri l’aggressività che dimostri verso gli altri bambini aumenta. Questo vuol dire che forse le nostre conversazioni tendono a farti arrabbiare?” Chiese iniziando ad aumentare il disagio del piccolo.

“Come ho notato che a domande ben precise inizi a dondolarti stringendo e rilasciando i muscoli delle mani. - Aggiustò il tiro e sparò sapendo già come avrebbe reagito. - Non è così… Sigi?”

Due occhi incolleriti le si piantarono contro mentre si alzava di scatto dalla poltrona guardandola con quello che Setsuna sapeva essere una sorta di odio.

“Non permettetevi di chiamarmi così! Solo Milena può farlo. Sono stato chiaro?!”

Non scomponendosi lei ne sostenne lo sguardo e con il calore che da sempre aveva nella voce continuò quasi schernendolo. “ E a cosa dobbiamo tanta dedizione mio piccolo amico?”

Stringendo i pugni fino a farli tremare lui continuò a fissarla per qualche altro secondo per poi schizzare verso la porta, aprirla e sbattersela alle spalle.

Stiracchiandosi la schiena per poi ravvivarsi i capelli la ragazza scrollò le spalle dirigendosi verso la scrivania per iniziare la relazione giornaliera su quell’incontro. Almeno aveva avuto una reazione. Sembrava che Milena per il momento fosse l’unica persona in grado di allacciare con quel teutone una specie di legame, anche se ancora non le era riuscito di capire a quale ramo appartenesse; rispetto, amicizia, ammirazione, amore. Sigmund era inevitabilmente attratto dagli altri bambini e si vedeva che doveva essere cresciuto in una famiglia numerosa e che con molta probabilità aveva frequentato la scuola almeno fino alla quinta classe, perché non poteva esimersi dal partecipare ai giochi o alle varie lezioni che i maestri cercavano di dare ai piccoli ospiti della struttura, ma quando venivano a crearsi interscambi con gli altri ragazzini, la razionalità di quel biondino si spegneva di colpo e la parte animale prendeva il sopravvento facendolo arrivare anche alle mani. L’unica persona che sembrava riuscire in un certo senso a domarlo era Milena, che da par suo aveva già un gran da fare ad evitare al suo passato di riaffiorare.

Forse avete legato tanto perché spinti entrambi dal terrore di ricordare e non posso certo darvi torto si disse rammentando in quale condizione fisica quei due fossero arrivati nella struttura. Come potrebbe essere utile cercare di farvi fare fronte comune verso di me, che rappresento il Cerbero malefico da combattere per non soffrire.

Prendendo dal primo cassetto il fascicolo della ragazza lo aprì leggendone l’intestazione.

“Michiru Kaiou, anni venti, nata a Berna il sei marzo del 1895. Registrata con il nome di Milena Buonfronte. Motivo del ricovero; amnesia temporanea. Causa non fisica.” Sbuffando poggiò la schiena alla poltrona. Con lei la terapia d’urto non aveva funzionato, anzi, era stata anche di un certo danno, ed era talmente evidente che quella ragazza non volesse ricordare nulla di se da lasciarla interdetta sul da farsi.

Il fascicolo di del bambino invece era molto più scarno. Sigmund, apparente età dodici anni. Paese di provenienza: Germania.

“E se stessi prendendo in giro tutti quanti?” Si disse fissando quella pagina inconcludente.

“Forse è ora che inizi a “giocare pesante” con entrambi.”

Alzandosi dalla poltrona ed aggiustandosi il camice bianco si diresse verso l’uscita pronta ad un nuovo alterco con il Dottor Grafft.

 

 

“No signorina Meiou vi ho già spiegato perché i due pazienti in esame non possano essere analizzati simultaneamente e voi da quest’orecchio proprio non sembrate volermi ascoltare.” Le disse quel vecchio bisbetico dalla testa imbiancata e dall’età anagrafica perfettamente collimante con quella celebrale.

Ma perché quell’uomo proprio non riusciva a capire che la psicanalisi aveva compiuto passi straordinari e continuare ad insistere con obsoleti metodi curativi non avrebbe portato a nulla, sia con Sigi, che con Milena. La donna aveva già capito da tempo come per quel medico le idee rivoluzionarie del Dottor Freud fossero un’accozzaglia di baggianate e lo scoprire che lei era stata una sua allieva non aveva fatto che precluderle gran parte dei pazienti presenti nella struttura, anche se tale meschina mosse aveva finito per esaltare intimamente Setsuna, si perché con quelle due così dette “cause perse”, avrebbe almeno potuto sperare di sperimentare tecniche curative di un certo spessore. Sigi e Milena non interessavano all’uomo come invece facevano i reduci del fronte, i mutilati, coloro che necessitavano di approcci standardizzati ed in un certo sento “sicuri”, ed era per questo che le cartelle cliniche di quelle due amnesie erano arrivate sulla scrivania della statunitense senza che neanche avesse dovuto battersi a fil di spada con gli altri colleghi uomini. Come unica donna era per forza di cose “costretta” a ricevere in dote i casi scartati dagli altri ed in quella struttura di medici competenti in materia di psicologia applicata alla perdita parziale o totale della memoria, non ve n’erano certo molti.

“Professore vi prego di lasciarmi provare. Sono sicura che l’ostinazione che quei due manifestano potrebbe essere sfruttata a nostro vantaggio. Me li lasci analizzare in sincrono con una seduta di coppia.”

“Dottoressa Meiou vorrei che non insistesse!” Le ordinò camminando veloce come un furetto per il corridoio del corpo principale che portava alle camerate della degenza maschile.

“Allora siete proprio convinto che la mia idea sia completamente sbagliata?” Lo vide bloccarsi di colpo e quasi non gli franò contro.

Voltandosi e guardandola dai suoi dieci centimetri di inferiorità, le rispose affermativamente lasciandosi inoltre scappare che unire il blocco psichico di quelle due menti non avrebbe fatto altro che umiliarla, ridicolizzando in campo scientifico sia lei che il suo preziosissimo maestro Freud.

“Ora lasciate che vada a svolgere il mio lavoro e vi esorto a fare altrettanto… dottoressa. Con permesso.” Concluse dileguandosi lasciandola conscia dell’ennesima porta sbattutale in faccia.

Che mente ristretta! Pensò infilando le mani nelle tasche del camice scuotendo la testa per niente vinta. Guardando fuori da una delle finestre di quel secondo piano perse lo sguardo al parco con la sua imperiosa quercia. Socchiudendo gli occhi li vide in una delle consuete scene giornaliere; la giovane piantata sotto quelle spire lignee, composta e paziente e quel teppista dal broncio facile abbarbicato sui rami come un cavaliere decaduto trincerato dietro ad una fila di merli diroccati.

Setsuna non era tipo da arrendersi tanto facilmente.

 

 

Passo della Ruscada, Bellinzona.

Svizzera meridionale

 

Haruka piombò con la spalla contro una parete di roccia ordinando al suo corpo di riprendere fiato. Sentiva le gambe tremarle pericolosamente e conoscendo la condizione ancora non del tutto guarita delle sue ferite muscolari, cercò di non badare al suo stupido orgoglio concedendosi il tempo necessario per riprendersi da quell’interminabile salita. Era scesa alla stazione di Bellinzona già da un paio d’ore e se non si fosse data una mossa per arrivare alla baita ce ne avrebbe messe altrettante. Chiudendo gli occhi avvertì il suono dell’acqua del Riavena in lontananza, unito al frusciare delle fronde degli abeti ed al canto di un tenace fringuello alpino. Al senso dell’udito attivò quello dell’olfatto, inalando profondamente l’odore del vento carico dei funghi, della terra umida e della resina dei tronchi guardiani della sua foresta. In altre parole; casa. Era nuovamente a casa.

Ansimando un po’ e guardandosi intorno, riconobbe il posto sapendo che a circa un centinaio di metri, proprio nei pressi del torrente dov’era solita pescare, avrebbe trovato una delle tante fonti della zona. “Coraggio Haruka. Non manca molto.” S’incoraggiò sistemandosi meglio le cinghie dello zaino e riprendendo la marcia.

 

Giovanna lo guardò piegare la testa da un lato non capendo se quel mezzo lupo le facesse più tenerezza o rabbia. Quegli occhi tondi erano sicuramente simpatici e molto accattivanti, ma troppe volte sembravano volerla prendere in giro, come in quel momento, alla sua ennesima esca persa.

“Non ho neanche più la forza d’inquietarmi.” Masticò afferrando un altro lombrico fissandolo disgustata muoversi a scatti tra il pollice e l’indice.

“Flint, ribadisco che se volessi farmi dono di una qualsiasi preda commestibile io non ne sarei affatto dispiaciuta… anzi, sarebbe un modo carino per considerarsi dei vicini di casa quanto meno decenti.” Lo guardò alzarsi sniffando l’aria.

“Mi auguro che tu non stia avvertendo l’odore di orsi o malintenzionati.” Disse infilzando apaticamente la viscida creatura sull’amo mentre lui scattava il collo verso la penombra teso come un tamburo.

“Ecco… Adesso cos’avrà avvertito di tanto interessante…” Sospirò gettando il galleggiante nell’acqua vedendo il lupo correre rapido e sparire nel fitto del sottobosco.

Di qualunque cosa si fosse trattata a lei francamente poco avrebbe importato.

 

Stirandosi la colonna, finalmente rinfrescata la bionda sorrise soddisfatta e goduriosa. Seduta ed indecisa se mangiucchiarsi uno dei tanti panini preparatigli da Charlotte, si guardò accigliata le scarpe e l’orlo dei pantaloni completamente infangati.

“Mamma mia come mi sono ridotta.” Disse ridendoci su iniziando a massaggiarsi le cosce indolenzite. Oltre a tutto il resto, era dannatamente fuori esercizio e le pendenze delle sue montagne non perdonavano.

“Domani mattina avrò dolori dappertutto.” Prendendo il fazzoletto dalla tasca della giacca poggiata poco oltre, lo bagnò nella frescura dell’acqua passandoselo poi sul collo e sulle braccia.

“Mmmm, che meraviglia…” E poi lo vide.

La stava fissando a circa dieci metri. Un lupo dal pelo grigio come la selce, massiccio, dalle zampe robuste, occhi marroni che ricordavano le stecche di cioccolato che lei bramava sin da quando era bambina e sul muso una striscia più scura, praticamente nera, che gli correva dal tartufo del naso fin sopra le orecchie.

Alzandosi lentamente le riconobbe quelle orecchie, quel naso, quegli occhi, quel pelo tanto curioso da suggerirgli un nome come Flint. E lo chiamò.

“Flint… sei tu piccolo?!” Urlò nuovamente stupendosi di non essersi accorta di aver spalancato le braccia per accoglierne il passo rapido.

Con pochissimo lui la raggiunse saltandole addosso facendola cadere all’indietro. “Signore sei tu! Quanto sei cresciuto! Quanto sei bello!” Riuscì ad articolare tra una leccata e l’altra di una lingua bavosa che proprio non voleva lasciarla respirare. Ed unghie premute dappertutto, la coda scodinzolante più dannosa di una frusta e testate, tante e poderose testate d’entusiasmo.

“Fermati, fermati! Basta!” Disse ridendo cercando di allontanarne l’euforia.

“Guarda un po’! Mi hai graffiato tutte le braccia con queste zampacce. Ma che maniere!” Lui si scansò per lasciarla sedere più comodamente godendosi le carezze al collo.

“Sei riuscito a tornare qui da solo! Ma allora sei proprio un cucciolo grande adesso.” Lo sfotté abbracciandoselo stretto. Che splendida sorpresa aveva avuto dalla sorte.

Sentendo il contatto sciogliersi lo vide saltellarle davanti mentre si alzava facendo leva sugli avambracci. E come faceva sempre quando voleva attenzione, lui iniziò a sbatterle davanti le zampe anteriori intervallando un abbaio secco.

“Cosa vuoi!? Ma lo sai che sei cresciuto proprio tanto?” Infilandosi lo zaino alle spalle e prendendo la giacca, tornò a guardarlo orgogliosa come una madre.

“Dai… andiamo a casa.” Ma intenzionata ad andare verso il sentiero che li avrebbe condotti alla baita, lui la bloccò continuando a saltellare scattando a destra e a sinistra puntando quello che portava al Riavena. La ragazza se lo guardò aggrottando la fronte mentre prendeva a correre tra il chiaro scuro della luce finendo per sparire tra i cespugli.

“Ma dove vai?!”

 

Un si urlato al cielo seminascosto dalle fronde riecheggiò confondendosi con il rumore delle acque. Una trota, anche piuttosto grassa, iniziò a dimenarsi accanto ai suoi scarponi mentre lei se la guardava sorridendo tronfia. Il primo pesce pescato degno di questo nome ed a parte lo schifo che avrebbe provato nell'eviscerarlo, quella sera avrebbe mangiato come una regina. Da quando il galleggiante aveva cominciato ad andare affondo ritmicamente, Giò aveva avuto la sensazione che il vento stesse cambiando, che la fortuna fosse tornata e che la malinconia l'avesse abbandonata.

“Ma guarda! Questo pesce potrebbe rivaleggiare benissimo con quelli presi da Haruka ed Usagi.” Ridacchiò slamandolo ed accorgendosi di aver usato ben sette esche per catturarlo.

“Riconosci Giovanna di fare pena, ma ammetti anche di essere stata bravissima nel…” Catturata da una figura in lontananza, si bloccò lanciando poi lo sguardo al Mannlicher poggiato poco vicino.

Un uomo era apparso da dietro gli alberi fermandosi nella penombra. Gonfiando il petto strinse la canna nella destra attendendo. Non amava ricevere visite, perché in genere erano rogne. Gli occhi corsero ai pantaloni marroni come il gilè mezzo slacciato, alla camicia bianca dalle maniche arrotolate ed al cravattino scuro abbandonato sciolto con estrema noncuranza. Questo solo riuscì a vedere di lui. Indecisa, si coprì gli occhi con la sinistra vedendo poi Flint far capolino da dietro le gambe dello sconosciuto ed ebbe l’impressione di non riuscire più a respirare. Da quando conosceva quell’animale aveva visto solo tre persone riuscire ad avvicinarlo; Usagi, Michiru e naturalmente Haruka e solamente quest'ultima spingerlo a seguirla.

Chiudendo gli occhi s’impose di non essere infantile, di non pensarci nemmeno, perché sua sorella non c’era più e non poteva essere lei quella figura dai capelli dorati e dalle spalle fiere che ora le stava andando incontro in piena luce.

“Giovanna…” Si sentì chiamare mentre abbassando la testa sottilissime lacrime iniziavano a rigarle il viso.

Non pensarci, non pensarci… Si disse non avendo più il coraggio di guardare, perché se nel farlo non avesse più trovato quell’immagine, lei sarebbe ripiombata nello scoramento più profondo.

“Giò… Sei tu?!” Continuava ad avanzare Haruka sentendo il fiato corto ed un fremito lungo tutto il corpo. Cosa diamine ci faceva lei li!

Non pensarci, non pensarci… “No..., non può essere…” Disse la maggiore trovando finalmente la forza per ferirsi nuovamente le iridi alla luce.

“Giovanna.” Ancora quella voce, profonda e mai dimenticata e la bionda ormai ferma ad un paio di metri da lei.

Rimasero a guardarsi per secondi interminabili mentre i denti di Haruka forzavano gli uni contro gli altri e gli occhi di Giovanna non la smettevano di lacrimare indecentemente.

“Sei…”

“Viva? Si… così pare. - Rispose non riuscendo a fermare il tremore. - Ma come cavolo… ti sei vestita!?”

L’altra inalò ossigeno. “Ma senti chi parla! Sembri un damerino di città.” Controbatté schiarendosi la voce.

“Stz… Sei dimagrita.”

“Sei ingrassata.”

Non staccando gli occhi da quelli dell’altra, Haruka le arrivò davanti scuotendo leggermente la testa mentre una leggerissima carezza le sfiorava la pelle del viso.

”Sei tornata per darmi noia?”

“Può darsi.” E l’attrasse a se per abbracciarsela forte.

“Sei tornata…”

“Si…”

 

 

 

 

 

 

Note dell'autrice: Eccoci.

Abbiamo smascherato colei che aveva bussato alla porta della bionda e spero che non siate rimaste troppo deluse dallo scoprire che sotto i panni arcigni da “signorina Rottermaier” in realtà si cela un grande cuore.

Come spero che il fatto che Michiru in questo capitolo non sia apparsa pressoché per niente non induca a tirarmi qualcosa, perché di contro altare c’è l’entrata in scena di uno dei personaggi della signora Takeuchi per me più belli ed enigmatici, ovvero Setsuna. Avrei voluto cimentarmi a scrivere di lei già da tempo, ma non riuscivo a collocarla nei miei racconti e forse avevo anche un po’ paura di fare una toppata colossale.

Lo so ed ammetto che parlare nuovamente di psicanalisi potrebbe risultare un dejavu, perché ho già affrontato l’argomento in una delle mie ff e proprio con Michiru come protagonista, ma credo e spero che risulti chiara la differenza tra le due storie e le due situazioni.

Passando a quelle due deficienti: della serie “stemperiamo il momento catartico” dicendo a mia sorella una marea di fesserie ed ovvietà!

ciauuuu

 

   
 
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