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Autore: Luana89    08/09/2017    1 recensioni
«Perché?». Mi guardò dubbiosa.
«Perché cosa?»
«Perché rimani se odi l’idea di mostrarmi il tuo corpo?». Ero sinceramente curioso.
«Perché .. – una pausa, le sue dita sul gancio del reggiseno. Lo tolse – preferisco questo piuttosto che..»
«Piuttosto che?»
«Tornare in quella casa». Le dita sottili e dalle unghie corte e colorate sfilarono via le mutandine. Nuda e imperfetta.
«Lo preferisco anch’io». Continuò a fissarmi dubbiosa, non capiva se parlassi di lei o di me stesso. Non avrei comunque esaudito la sua curiosità. Per il momento. Le indicai il divano, la prima cosa che fece fu coprirsi con il lenzuolo.
«Come devo mettermi? Insomma c’è qualche posa precisa..?» quando era nervosa parlava velocemente, memorizzai anche quel dettaglio.
«In effetti si». Mi avvicinai a lei, la costrinsi a sedersi e piegare le ginocchia al petto, il lenzuolo cadde appena scoprendole un seno. Le braccia abbandonate mollemente, le dita che accarezzavano i piedi candidi, le spalle ricurve come se portasse addosso il peso del mondo e il viso chino e appena rivolto alla finestra.
«Questa non è una posa..»
«Lo è. E’ la tua». Mi guardò e stavolta ero sicuro avesse capito. Era così che la vedevo, un’anima stanca e ferita. Come me?
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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XI

Manhattan, 2017

 
La porta si aprì stridendo appena, la guardia carceraria lasciò passare il detenuto, fissai le sue manette seduta comodamente sulla sedia aspettando che prendesse posto.
«Ti trovo bene». Sorrisi divertita accavallando le gambe, le sue labbra si schiusero in una smorfia.
«Ho saputo che hai ficcato il naso ancora una volta nel mio processo d’appello». Mi sporsi verso di lui assottigliando lo sguardo.
«Testimonierò altre mille volte se dovesse servire, e userò tutte le mie conoscenze pur di tenerti qui a marcire. Non avrai alcuno sconto di pena Juan». Ci fissammo per un tempo che parve indefinito finché non mi scostai appena poggiandomi allo schienale, lo vidi fissare la mia pistola d’ordinanza.
«Detective Kurtzman, sono passati otto anni non è forse il momento di mettere da parte il rancore?». Otto anni scivolati via, cristallizzati dal loro scorrere incessante. Avevo lasciato Chicago con Nicole, mi ero iscritta all’accademia di polizia divenendo un detective a New York. Avevo perso i contatti con B-bomb ormai da anni, vedere Juan me lo riportò alla mente così come riportò a galla la mia eterna ferita mai rimarginata.
«E’ giusto pagare per i tuoi crimini.»
«No, tu vuoi farmi pagare solo per una cosa. Questa non è giustizia». Mi fissò rabbioso e io sorrisi alzandomi.
«Hai ragione, questa forse non è la giustizia – poggiai le mani contro il tavolo chinandomi su di lui – ma questa è la MIA giustizia». Carezzai il suo viso con lo sguardo per poi avviarmi alla porta, ogni settimana da anni venivo lì a cibarmi di rancore e odio, andavo avanti con la mia vita ma non dimenticavo quella dannata notte di anni prima.
«Non hai prove, lui è sparito, ha corrotto gente e nessuno può associarmi alla sua aggressione». Rise di gusto gli occhi lucidi da folle, lo fissai disgustata.
«La tua coscienza ha talmente tante tombe da somigliare a un cimitero, non uscirai di qui Juan, te lo giuro». Il cellulare squillò all’uscita della prigione, lessi il numero sorridendo.
 
– Nicole!
– Sei in ritardo o sbaglio?
– Non sbagli, ma ho casini a lavoro. Lo sai che qui la criminalità non dorme mai.
– Va bene paladina della legge, io e Justin ti aspettiamo in caffetteria.
 
Justin era mio fratello, o meglio lo reputavo tale visto e considerato che lo avevo praticamente visto nascere e crescere. Nicole alla fine era convolata a nozze, e circa sei anni fa aveva dato alla luce il mio mostriciattolo preferito. Infilai le cuffie avviando la musica, in quello non ero cambiata per niente, aprii lo sportello dell’auto e la brezza autunnale sferzò il mio giubbotto facendomi rabbrividire, lo sentii alla base del collo quasi all’altezza della nuca, mi voltai ma il nulla mi accolse. Entrai in auto e partii senza più voltarmi.
 
«Allora, come va con Simon?». Sorseggiai il mio frullato fissando Justin giocare con alcune sagome di pongo.
«Bene, stasera abbiamo un appuntamento». Mi fissò frustrata dalla mia indifferenza e io risi di gusto.
«Insieme o separatamente? No perché visto il tuo entusiasmo nulla è scontato». La guardai scuotendo il capo, era impossibile averla vinta con lei.
«Nicole, sono solo cauta. Simon mi piace, è bello e responsabile, ma non voglio affrettare le cose». Fissai le mie dita attorno al bicchiere, l’anello con l’infinito non sostava più sul mio anulare ormai da tempo. Avevo attraversato parecchie fasi, nonostante non passasse giorno in cui pensassi a lui c’era una latente rabbia a covare nel profondo di me stessa. Perché non mi aveva mai cercata? Ero sicura stesse bene, quindi perché? Probabilmente non si ricordava neppure più di me, ero semplicemente stata il suo diversivo in quel pazzo inverno a Chicago.
«Sono sicura farai la cosa giusta». Coprì il dorso della mia mano con la propria e io sorrisi, facevo sempre la cosa giusta? Forse Nicole mi sopravvalutava.
«Piuttosto, sono molto incazzata con lei dottoressa». La fulminai con un’occhiata e lei roteò gli occhi sospirando.
«Hope è il mio mestiere, se mi viene chiesta una perizia psichiatrica non posso mentire.»
«Andiamo Nicole, ha ucciso tre prostitute non è pazzo è solo un figlio di puttana». Allargai le braccia frustrata, adoravo il mio lavoro ma forse prendevo tutto troppo sul personale. A differenza del mio partner non riuscivo a tornare a casa, farmi un bel bagno caldo e dimenticare lo schifo che vedevo ogni giorno. Chiunque conoscesse il mio passato pensava fossi una masochista a cui piaceva osservare la violenza, in realtà era proprio quel passato ad aver guidato i miei passi. Volevo semplicemente un mondo migliore e volevo contribuire per renderlo tale.
«Sei stata ancora da Juan?». Non risposi finendo il contenuto del mio bicchiere.
«Nicole ho un appuntamento per la quale prepararmi, ti farò sapere quanto e se andrà bene». Le feci l’occhiolino e ne ricavai un sospiro esasperato da parte sua, risi scompigliando i capelli del mostriciattolo per poi sparire oltre le porte del locale.
 
Lisciai le pieghe del mio abito nero, i tacchi mi concedevano quei dieci centimetri che facevano la differenza. Simon era abbastanza alto e imponente, lavorava in borsa e adorava il baseball, mi aveva trascinata a decine di partite insieme a lui, il fatto che glielo concedessi voleva dire che nutrivo abbastanza interesse da farmi andar giù uno sport nella quale non capivo un cazzo.
Il campanello suonò una volta, afferrai la borsetta uscendo frettolosamente dalla camera da letto, vivevo in quel loft a Soho ormai da cinque anni, mi piaceva parecchio ed era una delle poche abitazioni che consideravo familiarmente come ‘’casa’’.
«Sei bellissima». Sorrisi dolcemente lasciandomi baciare e scortare fuori. L’aria della sera era fresca al punto giusto, misi un copri spalle leggero ed entrai in auto, respirai l’odore di nuovo fissando oltre il finestrino.
«Allora, dove mi porterai stasera?». Mi fissò sorridendo allontanandosi da casa mia, guidava in maniera sicura e per niente spericolata.
«Una mostra, è da un po’ che cercavo i biglietti per noi e quando pensavo di non riuscirci eccoli apparire, volevo farti una sorpresa. Tempo fa dicesti che amavi molto l’arte». Lo avevo fatto? Abbozzai un sorriso dandomi mentalmente dell’idiota, annuendo appena.
«Si, hai avuto una grandiosa idea». No, era un’idea di merda quella ma la colpa era solo mia quindi lo avrei accompagnato fingendo interesse tutto il tempo.
«Com’è andato oggi il lavoro?». Simon mostrava parecchio interesse per tutto ciò che mi riguardava, gli sorrisi con affetto accarezzandogli la guancia.
«Normale routine, e oh.. non ho avuto nessuna scazzottata». Lo fissai ironicamente e l’abitacolo si riempì del suono di risate. Conducevo una bella vita, mi ero lasciata il passato alle spalle nonostante questo mi desse forza per arrivare ai traguardi che mi ero prefissa, la mia vita era cambiata, io ero cambiata e maturata. Non avevo notizie da mia madre ormai da anni, dopo la sua fuga nel cuore della notte non si era messa mai una volta in contatto con me; non avevo detto a Nicole di aver usato gli archivi della polizia per cercare lei .. e Aj. Inutile dire che non avevo avuto alcun riscontro in entrambi i casi, infine avevo desistito. Evidentemente la mia vita doveva proseguire senza loro al mio fianco, era inutile tenere porte socchiuse per gente che le aveva varcate senza rimpianti mollandomi indietro sola e disperata.
 
Le luci illuminavano l’ingresso, due guardie sostavano all’ingresso in smoking con tanto di auricolare, uno dei due sembrava familiare ma perché? Che avesse qualche precedente penale? Lo fissai con sospetto mentre Simon lasciava spulciassero nella lista, e smisi solo quando sentii la presa sul mio polso che mi dirottò all’interno. Sospirai riavviandomi i capelli, le mie deformazioni professionali iniziavano a causarmi troppi problemi, non potevo fissare la gente come se fossimo nella sala interrogatori.
«Ti piace?». Sbattei le palpebre tornando alla realtà, sorridendo e infilando il braccio nell’incavo del suo.
«Assolutamente si». A dirla tutta non avevo ancora visto niente, quindi poteva anche farmi schifo per quanto ne sapevo. Cinque minuti dopo non mi pentii di essere andata lì, i quadri erano bellissimi, le forme perfette e i colori così assurdamente armonici tra loro.
«Vorrei vedere ‘’speranza’’, il suo quadro migliore a quanto pare, peccato non sia in vendita». Speranza? Non ci potevo credere, che coincidenza assurda, volevo vederlo.
«Chi è l’artista?». Sorseggiai lo champagne seguendo Simon lungo una delle tante gallerie.
«Oh è questo il bello, vedi quel tipo?». Mi indicò un uomo sui trent’anni, capelli biondi abbastanza attraente ma anonimo.
«E’ lui?» Simon rise scuotendo la testa, avvicinandomi come se dovesse confidarmi uno dei misteri di Fatima. Okay, ammetto che alle volte era eccessivo nelle reazioni.
«No, lui è Kevin Guzam ed è l’agente del misterioso artista». Interessante come un documentario sulle foche monache, ma evitai di dirlo. Non era una novità nel mondo dell’arte mantenere un certo riserbo, persino gli scrittori usavano acronimi.
«Oh..» mi fissò come se non avessi colto il punto fondamentale.
«Non capisci, lui è qui – virgolettò il ‘’lui’’ e io mi sentii osservata – solo che nessuno sa chi sia.»
«Oh». Stavolta la mia esclamazione fu abbastanza sorpresa da compiacerlo. Fissai uno dei quadri bevendo champagne, una voce si intromise.
«Posso rubarti il fidanzato per qualche minuto?». Sorrisi ad Adam annuendo appena, come sempre Simon aveva esteso l’invito anche a lui. Se non fossi stata sicura del suo interesse per me li avrei già etichettati come coppia gay non dichiarata. Li fissai parlottare e mi allontanai continuando a fissare i quadri esposti. Un cartello sopra un bivio: ‘’seguimi’’ e una freccia lampeggiante. Risi di gusto ascoltando quel consiglio originale, arrivando al cuore della galleria, alcune persone fissavano l’unico quadro della sala e i miei occhi vi si poggiarono, il calice cadde rompendosi in mille pezzi. Una lacrima scese sulla guancia involontariamente e venni sbalzata a otto anni prima.
 
Aj era sparito da 48 ore, le passai rannicchiata contro il suo portone aspettando che qualcosa accadesse. Non pensavo di certo potesse apparirmi davanti, ma magari chiunque lo avesse portato via sarebbe tornato a prendere le sue cose. Non accadde. Attesi allora che qualcuno uscisse per intrufolarmi nell’androne e scassinare il suo appartamento da perfetta ladra consumata alla ricerca di prove. Il mio tentato scasso comunque non ebbe successo, perché trovai la porta già forzata. Esitai a entrare ma alla fine mi feci coraggio, un respiro profondo, e varcai le porte di quel luogo che conoscevo a memoria. Era tutto in perfetto ordine salvo una camera: lo studio. Tutte le sue tele totalmente distrutte e sparpagliate al pavimento, ne raccolsi un frammento e riconobbi i miei occhi, piansi ogni lacrima fino a prosciugarmi dentro, fino a consumarle tutte. Dopo quella notte smisi di piangere per lui.
 
«Signorina tutto bene?». Sbattei le palpebre asciugandomi frettolosamente gli occhi, chinandomi per raccogliere i cocci.
«Si, mi perdoni è scivolato..»
«Non si preoccupi, lasci fare a me». La donna mi sorrise gentilmente, la mollai come in trance avvicinandomi al quadro: era il mio ritratto. Ero sicura fosse lo stesso, non potevo dimenticarlo anche volendo. Com’era arrivato sin lì? Ero sicura fosse stato distrutto. Un movimento attirò la mia attenzione, una delle guardie fece il suo ingresso parlando attraverso l’auricolare e io ebbi il secondo cedimento della serata.
«Oh mio dio». La sorpresa nella mia voce attirò la sua attenzione, mi fissò e la curiosità divenne sbalordimento puro e infine disagio. Mi venne incontro deglutendo nervosamente.
«Hope..» B-bomb allargò le braccia fissandomi a bocca spalancata.
«Che diavolo ci fai tu qui, ti ho chiamato senza sosta .. no aspetta». Scossi il capo muovendo un passo indietro.
«Era complicato, ho pensato fosse meglio sparire per i guai con la polizia e poi..» non ci fu bisogno di continuare.
«E’ lui l’artista della mostra». Allargai le narici, le labbra tremavano ma non piansi. Chinò il capo e per me valse più di mille conferme. La guardia che pensavo di aver riconosciuto fuori la galleria era uno dei Cruz.
«Penso che questa sia una coincidenza che rasenta i miei peggiori incubi nevrotici». Si grattò il capo rasato guardandosi attorno. Gli afferrai la manica.
«Dimmi dov’è». Il mio tono risoluto lo fece ridere.
«Guarda che sono la sua guardia del corpo, devo proteggerlo da quelle assetate di violenza come te». Rovistai nella mia borsa uscendo il distintivo con un sorrisetto, seguì un suo fischio.
«Cazzo. Fortuna che ho cambiato vita eh?». Incrociò le braccia al petto.
«Ripeto la domanda?». Misi le mani sui fianchi, il mio sorrisetto vittorioso migliore dipinto sulle labbra.
«Beh ..te lo direi, se lo sapessi». La mia vittoria durò effettivamente poco.
«Che vuoi dire?»
«Voglio dire che lui è qui, ma non so dove. Fa sempre così lo stronzo, Kevin si occupa di tutto e lui.. lui si diverte a vedere le reazioni dietro le quinte». Non era cambiato di una virgola, evidentemente il mistero lo aveva nel DNA. La voce di Simon mi riscosse.
«Hope ti ho cercata dappertutto». Mi cinse il fianco con la mano e a B-bomb non sfuggì, lo vidi annuire appena e sorridermi come se mi dicesse ‘’hai fatto bene, bisogna andare avanti’’, fu peggio di una coltellata.
«Ho solo incontrato un mio amico.. lui è…» allungai una mano come a volerlo presentare rendendomi conto però di conoscere solo quello stupido nomignolo. Ci pensò lui stesso a risolvermi dall’impiccio.
«Sono Mike piacere». Si strinsero la mano e il suo sguardo tornò su di me.
«Piacere mio, sono Simon il ragazzo di Hope». Marcava il territorio per caso? Il pensiero mi fece quasi ridere.
«Hope, che ne pensi del Presidente Roosevelt?». Lo fissai imbambolata, si drogava ancora? Aggrottai la fronte e probabilmente persino Simon iniziò a porsi due domande sulle mie discutibili conoscenze. B-bomb rise scrollando le spalle.
«Io, beh..»
«Pensaci attentamente». Ammiccò per poi mollarmi lì come una stronza.
«Ma era un tuo amico? Oddio ma quella ragazza è identica a te». Mi gelai fissando il quadro, sorridendo senza alcuna sincerità.
«Già, sono rimasta stupita, è solo una stupida somiglianza .. senti Simon credo di non sentirmi troppo bene, andiamo?». Sentii nuovamente quel formicolio alla nuca, mi girai e stavolta i suoi occhi erano lì a svuotarmi l’anima. Sentii l’aria risucchiata, continuava a fissarmi in silenzio finché non lo vidi voltarmi le spalle e sparire tra la folla. Mossi un passo pronta a corrergli dietro, tra noi erano passate così tante parole silenziosa, avevamo urlato in quella sala gremita di gente, come poteva semplicemente andar via? La stretta sul mio braccio mi riportò alla realtà, era durato tutto così poco.
«Certo, andiamo dai sembri pallida». Il mio mondo capovolto totalmente, la mia vita che pensavo ormai passata mi aveva appena schiaffeggiata con forza. Lui era qui.

 

AJ

 
Sorseggiai lo champagne seduto alla mia scrivania, i piedi sopra il pregiato legno e lo sguardo fisso al monitor di fronte a me, la porta si aprì.
«Non riuscirai a crederci». B-bomb entrò con la sua solita enfasi, il lavoro di bodyguard era perfetto per lui.
«Fammi indovinare, Hope è qui con il suo fidanzato e ha visto il mio quadro.»
«ESATT—Mi prendi per il culo?». Mi fulminò con un’occhiata sedendosi di fronte a me, risi di gusto finendo il liquore.
«Si. L’ho vista stamattina, ero lì per avere notizie di Juan.»
«Alexander, lei sa che tu sei qui». Mi fissò come se fosse al cospetto di un demente, sospirai.
«Lo so, era ciò che volevo o non avrei inviato gli inviti a quell’idiota con cui si frequenta, né avrei esposto il suo ritratto.»
«Santo dio, sei uno psicopatico». Ci fissammo eloquentemente scoppiando a ridere. La definizione di pazzoide mi calzava a pennello, probabilmente persino lei ormai sapeva il mio passato e ne avrebbe convenuto. Dubitavo Nicole avesse chiuso il becco in otto anni insieme.
Il motivo della mia scomparsa, ciò che avevo fatto in tutti quegli anni, c’erano tante cose che avrei voluto dirle ma non ero sicuro di poterne avere l’occasione. Mi alzai con uno sbadiglio soffocato allentandomi la cravatta.
«Portami a casa, sono stanco di tutta questa gente». Fissai nuovamente i monitor con apatia, in fondo il pezzo migliore era appena uscito dal parcheggio, no? Peccato avesse dimenticato la sua anima nel quadro che portava il suo nome.  Se ne rendeva conto?
 

Hope

 
«ROOSEVELT». Sbattei le mani contro la scrivania alzandomi di colpo. Lucas il mio partner cadde quasi dalla sedia fissandomi stralunato.
«Mi fa piacere tu conosca la storia americana dei presidenti, ma piantala». Lo fissai con sarcasmo malcelato. Non avevo praticamente dormito tutta la notte mentre rimuginavo sull’assurdità in cui era piombata la mia vita. Le parole di B-bomb erano come un tarlo, finché non avevo capito.
«Alexander Roosevelt, ecco il suo nome». Lucas mi fissò stralunato per la seconda volta, improvvisamente si sporse con fare attento.
«Perché cerchi la famiglia Roosevelt?». Voltai il capo come fossi un robot i cui ingranaggi andavano oliati.
«Tu li conosci?»
«Sei idiota? Non conosci la catena alberghiera Roosevelt?». Le ginocchia cedettero facendomi ricadere sulla sedia, le conoscevo si ma non le avrei mai associate a lui. Era un po’ come dire di conoscere Paris Hilton, per capirci.
«Dove trovo Alexander?»
«Alexander Junior Roosevelt? Spiegami perché un semi-dio dovrebbe scendere tra noi mortali». Mi venne da ridere istericamente e lo feci. AJ, ecco spiegato il nomignolo.
«Già, perché?». Infilai le dita tra i capelli scompigliandoli, dovevo forse dirgli che c’era già sceso e persino rimasto parecchio tempo fa?
«E poi meno lo vedo quel piccolo bastardo, e meglio sto». Sbadigliò tornando a poltrire, sbattei il pugno contro la scrivania facendolo sobbalzare.
«Frena, lo conosci? Nel senso ..lo conosci?». Sembravo idiota, non c’era bisogno del suo sguardo per capirlo.
«L’ho arrestato a quindici anni per rissa, ha mandato in ospedale un compagno, sai cosa successe?»
«Cosa?». L’ansia mi attanagliava.
«Un cazzo. Venne scagionato e persi le sue tracce. Se lo ribecco giuro che lo prendo a calci nel culo.»
«Sul serio? Allora sono arrivato al momento giusto». Ci girammo simultaneamente e io persi totalmente la lucidità mentale. Aj era lì di fronte a me, sorrideva come se il tempo non fosse mai passato, la barba appena più pronunciata, quegli occhi verdi manipolatori, vestito impeccabile e pronto a trascinarmi nuovamente all’inferno insieme a lui.
 


 
  
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