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Autore: heartbreakerz    08/09/2017    5 recensioni
[ Michael&Robert | Robert&Max | dislessia ]
Robert soffre di una leggera forma di dislessia, ma grazie all’aiuto di Michael riesce a migliorare. Quando poi Robert diventa padre, è il suo turno di aiutare Max come Michael ha aiutato lui.
Dal testo: “«Perché mi fissi?» domandò Michael.
Robert distolse rapidamente lo sguardo. «Non hai lezione?»
«Potrei dire lo stesso di te. Visto che, sai,» gli pizzicò un braccio, «siamo nella stessa classe.»
Robert piegò il capo, nascondendosi al suo sguardo, e riprese a strappare l’erba umida. «Non mi piace la storia» mormorò, e arrossì, perché le sue parole erano suonate lamentose come il pianto di un bambino.
E quando fu lì per cambiare discorso, per andarsene, per nascondersi, Michael si limitò a scrollare le spalle, dicendo: «Lo so».
Allora Robert continuò. «Le date sono tutte uguali.»
«Una vera rottura.»
«E il libro è troppo lungo.»
«E noioso» confermò Michael.
Robert restò a fissarlo per un lungo istante. «C’è qualcosa di sbagliato in me?»”
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Max Lightwood, Michael Wayland, Robert Lightwood
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'The Evil We Love (What If)'
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DISCLAIMER: Tutti i personaggi e le ambientazioni contenuti all’interno di questa storia non mi appartengono. Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro e non intende infrangere il copyright dell’autore originale.


 

A voce alta


Quel pomeriggio Robert aveva saltato l’ora di storia e si era trascinato nel patio nascosto dell’Accademia, sotto a una grande quercia silenziosa, sperando di riuscire a convincersi a seguire la lezione successiva.

Nessuno poteva dirgli di non aver tentato abbastanza. Aveva provato a prendere appunti, ma quando li rileggeva, la sera, non riusciva a decifrare ciò che aveva scritto. Aveva allora preso il manuale e si era messo d’impegno per riassumere parola per parola, data per data, azione per azione. Eppure le parole gli sfuggivano dalle mani. Saltavano una riga, si mimetizzavano nelle frasi successive. E Robert faticava a capire da dove doveva continuare. Il suo sguardo slittava giù, seguiva le fusioni nelle nuove frasi, e cercava di afferrarne il senso ma senza troppo successo. Era difficile concentrarsi quando le lettere si muovevano e si duplicavano e si nascondevano, agitate, sperando di non essere lette. E a Robert restava solo di chiudere il libro, gettarlo via, e sperare di non doverci più avere a che fare.

Quando erano insieme, Robert guardava Michael, il suo parabatai, e lo invidiava. Michael era in grado di seguire le frasi senza distrarsi. Riga per riga, paragrafo per paragrafo, Michael riusciva ad arrivare a fine pagina senza problemi. Riusciva a capire ciò che aveva appena letto, e lo sapeva ripetere ad alta voce.

Robert aveva cercato di imitarlo. Aveva tentato di seguire i suoi movimenti, di leggere i suoi stessi libri, di sistemarsi nella sua stessa postura. Ma dentro di lui doveva esserci qualche ingranaggio danneggiato perché niente aveva funzionato.

Si era chiesto se, per caso, Michael non avesse una tecnica segreta; un meccanismo, un qualcosa che gli permettesse di leggere senza tante difficoltà. Ma non aveva avuto la forza di chiederglielo. Con che coraggio avrebbe potuto dirgli: Michael, mi insegni a leggere?

Strappò una manciata d’erba, frustrato, e guardò la propria mano tingersi di verde. Alcuni fili d’erba erano rimasti nel suo palmo. Ma non si muovevano come le lettere, no: loro restavano immobili, canzonandolo.

Li lanciò via.

Raccolse le gambe al petto e si poggiò con la testa sulle ginocchia. Si sarebbe preso solo quel pomeriggio, si ripromise. Un solo pomeriggio, e poi si sarebbe impegnato di più. Avrebbe trovato un modo. Avrebbe superato gli esami.

Stava ancora cercando di convincersene, quando qualcuno si lasciò cadere al suo fianco. Qualcuno che Robert conosceva come se stesso. Non ebbe bisogno di sollevare lo sguardo: riconosceva quel calore e quel profumo come se fossero i propri.

Michael.

Michael l’aveva raggiunto.

Robert gli lanciò un’occhiata di sfuggita. Michael aveva gli arti troppo lunghi e troppo magri per apparire coordinato, ma negli ultimi tempi stava mettendo su nuovi muscoli. La goffaggine infantile cominciava a dare spazio a un maggior controllo del suo corpo e dei suoi movimenti. Anche i suoi tratti si stavano facendo più squadrati, più delineati. Le sue guance non erano più tonde e arrossate come l’anno prima: ora i suoi zigomi pronunciati erano messi in evidenza da una mascella disegnata ad arte.

«Perché mi fissi?» domandò Michael.

Robert distolse rapidamente lo sguardo. «Non hai lezione?»

«Potrei dire lo stesso di te. Visto che, sai,» gli pizzicò un braccio, «siamo nella stessa classe.»

Robert piegò il capo, nascondendosi al suo sguardo, e riprese a strappare l’erba umida. «Non mi piace la storia» mormorò, e arrossì, perché le sue parole erano suonate lamentose come il pianto di un bambino.

E quando fu lì per cambiare discorso, per andarsene, per nascondersi, Michael si limitò a scrollare le spalle, dicendo: «Lo so».

Allora Robert continuò. «Le date sono tutte uguali.»

«Una vera rottura.»

«E il libro è troppo lungo.»

«E noioso» confermò Michael.

Robert restò a fissarlo per un lungo istante. «C’è qualcosa di sbagliato in me?»

Michael si affrettò ad allungarsi verso Robert e afferrare le sue spalle. Lo guardò dritto negli occhi – quelli di Robert lucidi e titubanti, quelli di Michael caldi e rassicuranti – e tanto bastò perché l’agitazione di Robert si calmasse, e le sue preoccupazioni scemassero lentamente.

«Non c’è nulla di sbagliato in te» disse Michael, la voce profonda, lo sguardo sicuro. In quei momenti sembrava più grande; un adulto intrappolato in una divisa scolastica, rinchiuso tra le mura dell’Accademia. «Mi hai capito, Robert?» disse ancora, stringendolo più forte. «Non c’è nulla di sbagliato in te.»

Robert avrebbe voluto annuire. Dirgli che , gli credeva, che , sarebbe migliorato, che , sarebbe diventato il guerriero perfetto, il parabatai perfetto, il fratello perfetto. E solo Raziel sapeva quanto si sarebbe impegnato per crederci, per sistemarsi, per trasformare le parole in fatti.

Ma non era così facile.

«Allora perché leggere è così difficile?»

Michael gli fece un sorriso. «Perché lo fai nel modo sbagliato» disse, e offrì a Robert uno dei due libri che aveva in mano. Robert non li aveva neanche notati. «Vuoi vedere come faccio io?»

«E come facciamo?»

Michael sollevò l’altro libro. «Segui me» gli disse. «Ho la stessa copia. Ti va?»

Robert fece scivolare lo sguardo sulla copertina del suo libro. Tentò di aprirlo e sfogliarlo, ma le sue dita non rispondevano ai comandi. Quando sollevò di nuovo lo sguardo, Michael gli mostrò l’accenno di un sorriso. Era un se te la senti, un altrimenti cambio discorso. E Robert sapeva che gli sarebbe bastato un «no» sussurrato e Michael avrebbe nascosto i libri e avrebbe cominciato a parlare di altro, di cose inutili, di cose che potessero distrarlo. Ma quella era la sua occasione. Perché Michael l’aveva capito, anche nel silenzio, e si era fatto avanti.

Gli stava insegnando a leggere.

«Insieme?» mormorò Robert.

«Sempre.»

Robert annuì e Michael si lasciò cadere sulle sue cosce. Robert si tese per un istante, ma Michael parve non notarlo. Si rigirò, invece, fino a sistemarsi con lo stomaco sulle sue gambe, con il corpo per metà su Robert e per metà sul prato, ignaro di come i suoi pantaloni avessero già cominciato a sporcarsi di verde. Il suo sorriso era tranquillo mentre sistemava il libro davanti a sé, tra i ciuffi d’erba e le margherite, e ancora più tranquillo fu il sorriso che mostrò a Robert, subito dopo, quando si girò per chiedergli: «Pronto?».

Robert lasciò andare un respiro tremante. Poi poggiò il libro sulla schiena di Michael e borbottò un breve «Come vuoi».

Allora Michael cominciò a leggere. La sua voce era lenta e sicura, le parole fluivano fuori dalle sue labbra con la stessa sicurezza che Michael metteva nei loro allenamenti. Non traballò neanche per un istante; continuò a seguire il discorso, lettera dopo lettera, parola dopo parola, frase dopo frase, e presto Robert riuscì a seguire il passo. Gli bastava scivolare con lo sguardo sulle righe e farsi guidare dalla voce Michael. Le lettere restavano immobili abbastanza a lungo da lasciarsi leggere; le parole acquisivano un senso. Pian piano la sua mente riuscì a comprendere i significati, a prevedere le parole successive, e a ricordarsi di non farsi distrarre dalle righe più avanti.

A volte, Robert si stupiva di come Michael pronunciava una parola, di dove finiva un accento; in altri casi le frasi erano troppo lunghe, troppo complicate, e allora tirava piano la maglia di Michael e Michael si fermava e riprendeva da capo.

Ad ogni pagina conclusa prendevano una pausa, e Michael ne approfittava per fare un piccolo recapito. Si soffermava su qualche parola chiave, e spezzava e smembrava le frasi fino a renderle banali, sì, ma comprensibili. Quando le dita di Robert ticchettavano di nuovo contro la sua spalla, allora Michael riprendeva a leggere, indisturbato, ancora e ancora, fino a che una pagina non si trasformò in due, tre, sette, e poi in un capitolo, e finalmente le grandi gesta di Jonathan Shadowhunter non furono più un ammasso di notizie confuse, ma un vero e proprio racconto che Robert avrebbe saputo ripetere senza scomporsi.

Il solito mal di testa che seguiva la lettura era ora un semplice accenno.

«Sei stanco?» domandò Michael a fine capitolo.

«No» mormorò Robert. «E tu?»

Michael, ridendo, scosse la testa. I riccioli castani gli ricaddero sul viso, e Michael li scostò come ogni volta, con un movimento infastidito. «Possiamo fare un’altra pagina» disse.

«Due?» domandò Robert.

Michael lo guardò da sopra la spalla, facendogli un sorrisetto d’intesa. «Tre, hai detto?»

E così ripresero a leggere, con Michael che leggeva anche per Robert, e Robert che seguiva la sua voce per abituarsi ai suoni delle parole e all’ordine delle lettere. E quando scese la sera, e leggere al buio divenne impossibile, i due si alzarono con i loro libri in mano e si spostarono nel dormitorio. Lì ripresero e continuarono finché non crollarono l’uno sull’altro, con i libri ancora aperti e le divise tinte d’erba.

Lo fecero ancora tante volte. Dopo le lezioni, la sera, nei momenti di noia, prima di un esame. Bastava una semplice richiesta – «Ne hai voglia?» – e in pochi attimi trovavano un libro da leggere e un posto comodo pronto a ospitarli.

Pian piano per Robert divenne più facile. Non facile, solo più facile. Cominciò ad abituarsi ai suoni, agli accenti, alle virgole, e presto si diedero il cambio: Michael leggeva una pagina, con la sua voce stabile e sicura, e la pagina successiva la leggeva Robert, a volte traballante, a volte con un leggero balbettio, ma senza mai fermarsi, senza mai dubitare. Nei giorni peggiori, quando ogni parola era un punto di domanda e Robert non capiva dove fosse l’errore, se ci fosse un errore, Michael poggiava una mano sulla sua spalla e, suggerendogli le soluzioni, gli ricordava silenziosamente che in lui non c’era nulla di sbagliato.

Con Michael al suo fianco, Robert cominciò ad apprezzare la lettura. E quando Michael morì, Robert continuò a leggere ai suoi figli, anche se loro non ne avevano bisogno.

 

*

 

Ma poi era arrivato lui, Max.

L’ultimo dei Lightwood.

L’unico uguale a lui.

All’inizio nessuno si era accorto di niente. Max faceva i suoi compiti in tempo, leggeva i libri che gli venivano assegnati e ne cercava altri da leggere da solo nel tempo libero. Aveva solo sei, sette anni. I libri erano pieni di immagini; le scritte, molto grandi e molto facili. Ma più cresceva, più i libri diventavano impegnativi, e alcuni dettagli cominciarono a saltare all’occhio.

Un giorno, con il nuovo libro di storia tra le mani, Max scoppiò come una bomba a orologeria. Tra quelle pagine c’erano troppe parole nuove, troppe frasi difficili, troppe parole straniere, troppo complicate, troppo confuse, e più Max continuava con la lettura, più crescevano i suoi tremori.

Fu Isabelle ad accorgersene. Trovò Max raggomitolato su sé stesso, con le braccia strette al petto, che si dondolava al lento ritmo di una ninna nanna. Chiamava piano: «Papà, papà, papà», e quando Robert arrivò nella stanza, Max cadde nel silenzio più totale.

Robert calciò via il libro e si chiuse in camera con Max. Gli affidò carta e pastelli, e Max, tra forme e colori, riuscì a dimenticare le brutte sensazioni appena provate.

Per le ore successive non proferì parola. Solo la sera, poco prima di cena, si sforzò di dire: «Non dirlo a mamma», ogni parola scandita con estenuante lentezza.

Nei giorni che seguirono, Max tornò ad avvicinarsi al libro di storia. Cominciò a leggere una pagina per giorno. A volte era costretto a fermarsi e riprendere da capo. Altre volte, una giornata intera non bastava per leggere una singola frase.

Ci mise settimane a concludere il primo capitolo. Un anno per terminare il libro.

Maryse aveva liquidato la situazione con noncuranza. «Ha otto anni, è solo un bambino» aveva detto. «Dopo la prima runa capirà l’importanza dello studio.»

Robert non aveva avuto le parole giuste per contraddirla, e così si era zittito. Aveva aspettato che suo figlio crescesse e, di nascosto, si era segnato i dettagli che riusciva a riconoscere nei comportamenti di Max.

Poi era arrivata la prima runa e le cose erano peggiorate a dismisura.

Non c’erano più scusanti per la sua disattenzione, questo diceva Maryse. Così erano iniziati i litigi, le porte sbattute, i paragoni. GliAlec non si è mai comportato così; o gli ancor peggiori Isabelle è così intelligente, cos’è andato storto? Maryse non lo diceva mai davanti a Max, ma lo pensava ogni volta che lo sgridava; lo pensava la notte, quando piangeva in silenzio contro il cuscino; e lo pensava durante le cene, quando Alec chiedeva: «Max, com’è andata oggi?» e Max, preso di sorpresa, inciampava sulle parole, come se all’improvviso non avessero più un senso.

E se anche Max non era bravo a leggere i libri di storia, leggere le persone gli veniva facile come respirare; e presto capì perché sua madre aveva spesso gli occhi gonfi e rossi, e perché Isabelle, la sera, lo portava a fare una passeggiata fuori, lontano dalle urla del salotto.

Un giorno, sull’aereo per tornare a New York, Max afferrò uno dei tanti fogli che Robert aveva in grembo e lo studiò con attenzione. Per qualche lungo minuto rimase fermo, immobile, ma con gli occhi grandi che saettavano da una parte all’altra del documento, cercando di capire da dove partire, dove concludere, su cosa soffermarsi. Ma c’erano solo calcoli, titoli, termini specifici. A Max tremavano le mani. Si stava trattenendo: cercava di non usare le dita per seguire l’ordine delle frasi.

Robert mise via tutti i fogli e concentrò l’attenzione su suo figlio.

«Papà» mormorò lui, la voce acuta e tremante. «C’è qualcosa che non va in me?»

Robert rispose nell’unico modo che conosceva. «Non c’è nulla di sbagliato in te» disse, e avvertì un dolore vuoto all’altezza del petto. Ma non poteva fermarsi lì; Michael non si era fermato con lui. Così lasciò scivolare un braccio sulle spalle sottili di Max e lo attirò a sé. «Mi hai capito, Max?» continuò. «Non c’è nulla di sbagliato in te.»

Max deglutì, nervoso, e si appoggiò al fianco di Robert. «Allora perché leggere è così difficile?»

Robert rimase in silenzio per il resto del viaggio.

All’atterraggio, offrì la mano a Max e insieme raggiunsero un piccolo negozio di souvenir. Trovarono la sezione dedicata ai libri e Max ne tirò fuori uno pieno di figure.

Quando andarono a pagare, la commessa guardò Max e gli chiese: «È il primo fumetto che leggi?».

Max rispose con un cenno timido del capo.

«Allora devi leggerlo in questo modo, guarda» disse la commessa, e aprì il libro al contrario. Insegnò a Max il nuovo ordine delle pagine, e Max, per la prima volta dopo tanto tempo, strinse il libro in un abbraccio, sorridendo.

Mentre aspettavano che Maryse tornasse con le valigie, Robert si sedette su una scomoda seggiola. Max gli saltò in grembo e si appoggiò al suo petto, usandolo come schienale, per poi aprire il suo nuovo fumetto.

Le sue mani ripresero a tremare.

«Leggi con me» gli disse Robert, e allungò un dito per indicare la prima nuvoletta. Lesse il dialogo a voce alta. Cambiò tono e accento per ogni personaggio, e seguì la lettura con calma, come Michael gli aveva insegnato. Ogni volta che giravano pagina, Robert lasciava correre lo sguardo su tutti i dialoghi. Li memorizzava prima di doverli leggere, limitando al minimo dubbi o errori.

E mentre Robert leggeva ad alta voce, Max lo seguiva in silenzio, attento, tracciando con le dita le parole che Robert pronunciava. Presto le sue mani smisero di tremare e il suo corpo si sciolse in risate infantili.

Di tanto in tanto Max lo fermava per chiedergli: «Che cosa significa questa scritta?» e Robert si prendeva un attimo di tempo per pensare a come spiegarglielo senza fretta, con parole che Max potesse ricordare.

Ad un certo punto, Max lo fermò di nuovo e sollevò i grandi occhi grigi verso di lui.

«Papà,» chiese, «come hai imparato a leggere?»

Robert soppesò la domanda. Ma non aveva senso mentire, così rispose: «Me l’ha insegnato Michael».

«Chi è Michael?»

Robert sentì una fitta al petto. «Mio fratello» disse.

«Me lo farai conoscere?»

«Sì» sussurrò. «Prima o poi.»

Poche settimane più tardi, Robert si trovava in ginocchio davanti al letto di suo figlio. Aveva il suo fumetto tra le mani, i suoi libri sparsi sul letto. Ma non leggeva più ad alta voce.

Perché Max non era più lì con lui.

Quel prima o poi era arrivato troppo presto, letale come il colpo di un martello.






Allooooora.

Ci tengo a dire un paio di cose.

Tanto per cominciare, le età: nella prima parte del testo Micky e Robs hanno 15/16 anni e non sono ancora entrati nel Circolo. La parte di Max, invece, copre più o meno tutta la sua vita: a sette anni ha il meltdown, a otto/nove anni ha la prima runa, e una manciata di mesi dopo è sull’aereo con Robert. Poi muore. E vabbè.

La scena dell’aereo è ambientata in Città di Cenere; la scena di Robert davanti al letto di Max, invece, è post-Città di Vetro.

Per seconda cosa: non ho potuto approfondire di più l’argomento dislessia per ovvi motivi. Né Michael né Robert né Max sanno cosa sia la dislessia. Michael sa solo che Robert fa fatica a leggere e s’ingegna per poterlo aiutare; Robert poi si limita a tramandare la tradizione. Il metodo che Michael usa con Robert è solo una toppa: con Robert funziona, con Max funziona, ma non è sicuramente un consiglio medico.

Nella mia testa, il problema di Max è il non aver tempo di pensare. Scoppia quando si ritrova davanti troppe parole nuove che non riesce a capire e memorizzare. Per questo i manga lo aiutano: ci sono le figure e le parole si spiegano da sole. Una volta fatto il collegamento scritta-suono-significato, Max legge grazie alla sua memoria.

Robert, invece, l’ho immaginato più razionale. Ha bisogno di più sicurezze, per cui deve decifrare lettera per lettera, anche se conosce già la parola. Ecco perché legge lentamente, ed ecco perché si assicura di sapere in anticipo cosa c’è scritto dopo.

Ho anche deciso di farli più uniti, perché sinceramente? Il problema di Robs è che non ha mai trovato il filo che gli permetta di connettersi con i suoi figli. Con Max, qui, l’ha trovato; non aveva senso farlo distante.

Per il resto, come sempre, questi sono solo headcanon personalissimi. Avevo bisogno di sapere per quale motivo Robert ami tanto leggere ai suoi figli + da dove è nata la passione di Max per i manga. Quindi ecco a voi il mio What If.

Scusate se alla fine ho ucciso sia Michael che Max, ma volevo che la storia della dislessia fosse solo un dettaglio non esplorato del canon. Quindi la trama generale è rimasta identica.

Spero che la storia vi sia piaciuta,

heartbreakerz

   
 
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