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Autore: Adeia Di Elferas    09/09/2017    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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La Messa di Natale in Duomo venne disertata in massa dalla Contessa e anche dai suoi invitati, che preferirono assistere alla cerimonia in San Girolamo come la loro signora.

“Cercate di sbrigarvi – aveva detto la donna al prete, prima che desse inizio alle celebrazioni, raggiungendolo a sorpresa mentre si stava mettendo i paramenti – evitate canti troppo lunghi e quando potete accorciate il rito. Con il freddo che fa, non voglio rischiare che qualcuno si ammali per sentire voi cantare in un latino orribile.”

Desideroso di assecondare in tutto e per tutto le richieste della Tigre, il religioso aveva fatto esattamente quello che gli era stato chiesto e così il piccolo gruppo di nobili e notabili si era liberato molto prima dei fedeli che avevano optato per altre chiese.

A Messa finita, Caterina aveva lasciato che gli altri la precedessero e si era presa un momento di solitudine per andare nella cappella dei Feo, davanti alla tomba di Giacomo. Aveva appoggiato la mano sulla fredda pietra in cui era stato scolpito il nome del suo secondo, amatissimo marito, e poi, con un sospiro dolente, era uscita nel gelo della sera e aveva raggiunto Ravaldino come tutti gli altri.

Una volta alla rocca, il banchetto era cominciato subito in gran velocità, come se tutti avessero fretta di togliersi dalle spalle il sentore greve dei riti religiosi e dell'odore dell'incenso. Dopo i primi calici di vino, l'aria si era già riscaldata abbastanza da dimenticare le nuvolette di vapore che in chiesa erano uscite dai nasi e dalle bocche congelate di tutti quanti.

Al tavolo d'onore sedeva solo la famiglia dei Riario – Caterina nel mezzo, e tre figli per parte – e tutti gli altri, questa volta anche persone della risma di Luffo Numai, del castellano Feo o dell'ambasciatore fiorentino, erano stati relegati ad altri tavoli.

Caterina aveva un preciso intento, con quel banchetto. Voleva dimostrare anche ai più scettici che la sua famiglia era ancora unita, malgrado tutto, e che nessuno straniero aveva il suo favore più di un altro.

Per tutta la cena, Ottaviano non fece che occhieggiare malevolo verso Bernardino, seduto accanto a Sforzino, alla sua destra. Non osava criticarlo apertamente, né incitare Sforzino a farlo al posto suo, ma le sue pupille scure continuavano a correre a quel bambino che gli ricordava anche troppo quello che era successo poco più di un anno prima.

Quando il piccolo rovesciò il bicchiere che condivideva con il fratello, in modo tanto maldestro da far arrivare qualche goccia d'acqua anche al primogenito della Contessa, questi ebbe un moto di stizza e aprì la bocca, forse per sgridare in modo particolarmente duro Bernardino.

Caterina, che stava mangiando in silenzio da molto tempo, Bianca da una parte e Ottaviano dall'altra, gli appoggiò perentoria una mano sull'avambraccio e gli sussurrò, appena udibile sopra al chiacchiericcio ridanciano degli invitati: “Non provarci neanche.”

Il giovane Conte così sbollì all'istante e, come ormai faceva spesso, riversò il suo astio sul cibo, divorando tutto quello che gli veniva messo davanti senza nemmeno far caso a cosa fosse.

Per tutto il tempo, Giovanni lanciò occhiate al tavolo della famiglia Riario, chiedendosi se per i presenti quella farsa sarebbe servita. Dai commenti che sentiva fare da alcuni notabili della città che aveva accanto, pareva di sì.

Mettersi così in mostra, schierati in fila davanti agli ospiti, aveva fatto sì che la Contessa e i suoi figli venissero rimirati come un quadro da tutti i presenti, distraendoli da qualunque altro discorso.

Tra una risata e una battuta grassa, i forlivesi che lo attorniavano commentavano i vestiti nuovissimi del Conte Ottaviano e anche i gioielli che stavano al collo e ai polsi della Contessa, ricordando come fossero anni che non ne indossava.

Si soffermavano di sfuggita su Cesare, dicendo che si vedeva subito che aveva la stoffa del prete, come quel Riario che stava a Roma.

Elogiavano la bellezza sempre più evidente e aggraziata di Bianca, i cui occhi blu erano forse il dettaglio più sorprendente, e ritrovavano la postura fiera ed elegante della Contessa nel figlio Galeazzo, che, malgrado la giovane età, si comportava già come un gran signore.

Ridevano bonariamente di Sforzino e delle sue guanciotte tonde, chiedendosi quanto sarebbe arrivato a pesare da grande.

Qualcuno citava Livio, accennando a una brevissima preghiera per lui o a un mezzo segno della croce, gesticolato in modo molto fatalista.

Quasi nessuno osava fare commenti su Bernardino.

Il tripudio di cacciagione che venne servito un po' stonava con i tempi ancora duri per lo Stato della Sforza, tuttavia era la classe più agiata, quella che sedeva a tavola, e così nessuno si lamentò di quello sfoggio di disponibilità.

La carne di cervo e cinghiale venne spazzolata via in un lampo e quei pochi che ebbero il privilegio di accaparrarsi qualche boccone di pernice ne lodarono il sapore e la consistenza, ribadendo che le bestie cacciate personalmente dalla Tigre avevano qualcosa in più delle altre.

Quando si arrivò al dolce, Giovanni cominciava già a essere insofferente per la posizione fissa. Si era ripromesso di restare seduto buono buono fino al momento dei balli, ma era stato fermo anche in chiesa, e il banchetto si era protratto più del previsto, e quindi le sue gambe ormai protestavano e il suo stomaco brontolava.

Aveva assaggiato un po' di pernice, e anche qualche boccone di cinghiale, ma non aveva osato andare oltre. Aveva a malapena toccato il vino e quindi, mentre tutti si crogiolavano sulle panche con le pance piene e la mente leggera, il Medici rimpiangeva un bel piatto di verdure in brodo con cui riempirsi.

Si consolò con il dolce, o meglio, con la selezione di dolci milanesi che la Contessa aveva fatto preparare per quella sera.

Appoggiando il calice mezzo vuoto al tavolo, Caterina, quando fu abbastanza sicura che tutti avessero vuotato i vassoi, si alzò e con un sorriso annunciò: “Entrino i musici, e che si spostino i tavoli: cominciano le danze!”

Mentre gli invitati, tanto entusiasti da mettersi ad aiutare i servi a spostare i tavoloni contro il muro, si affrettavano a scambiarsi inviti per le danze, la Contessa si abbandonò contro lo schienale del suo scranno e si preparò alla parte più impegnativa della serata.

Finché erano stati a tavole diverse, era stato impossibile per gli altri avvicinarsi a lei o ai suoi figli e fare conversazione, ma adesso che la festa entrava nel vivo, era verosimile attendersi un mezzo assalto.

E infatti nel giro di un paio di minuti, con fare molto casuale, parecchi forlivesi e anche l'oratore milanese, si erano avvicinati alla tavola d'onore e avevano iniziato a fare chiacchiere apparentemente casuali, coinvolgendo anche i figli più grandi della Contessa.

Caterina era stata distratta un momento dall'arrivo di Giovanni, che, con passo un po' ciondolante, aveva raggiunto anche lui il gradino su cui stava la famiglia Riario, ma restava per il momento in disparte, fissandola in silenzio.

Per quanto la sua attenzione fosse in parte rivolta al fiorentino, la donna tese comunque l'orecchio, quando sentì un membro del Consiglio Cittadino chiedere a Ottaviano: “Mio signore, è da molto che non vi si vede a una riunione... Quando pensate che comincerete a presiederne qualcuna?”

Il giovane, mordendosi il labbro, aveva abbassato lo sguardo e aveva risposto, in modo molto formale: “Per il momento la mia formazione è ancora carente sotto tanti aspetti. Voglio prima essere preparato a dovere. Fino ad allora, sono felice che sia mia madre a fare le mie veci.”

Dopo un altro paio di risposte del genere, la Tigre si permise di concentrarsi su altro.

Bianca era appena stata invitata a ballare da un giovane rampollo della famiglia di Tomasoli, ma aveva cominciato a farfugliare qualcosa sul fatto che non fosse opportuno, vista la sua condizione di donna sposata.

Malgrado quello che lei stessa le aveva detto un paio di giorni prima, Caterina non sopportò di vedere la figlia rinunciare a uno degli svaghi che preferiva. Era vero che Bianca doveva stare attenta a quello che faceva e a quello che diceva, ma se fosse stata lei a ordinarle di ballare, nessuno ci avrebbe visto nulla di male né di civettuolo da parte della ragazzina.

Dato, poi, che il ragazzo era parente di uno degli uomini che aveva fatto del suo meglio per venirle in soccorso alla morte di Giacomo, la Contessa si rivolse alla figlia dicendo: “Avanti, figlia mia. Ti dico io di ballare, va bene? Questo giovanotto è stato così cortese che sarebbe un peccato deluderlo.”

Bianca non riuscì a trattenere un sorriso che andava da un orecchio all'altro e così, mentre i musici intonavano la prima ballata dal gusto spagnolo, si alzò da tavola e corse verso il suo cavaliere.

Cesare, che aveva fatto scena muta fino a quel momento e che guardava con disgusto tutti quelli che si stavano divertendo, disse ad alta voce di avere un forte mal di testa e chiese il permesso alla madre di ritirarsi. Con un certo sollievo, Caterina lo lasciò andare molto volentieri, convinta che costringerlo a restare avrebbe solo reso le cose più difficili per tutti.

L'ambasciatore di Firenze, con un pretesto, si era messo a parlare con Galeazzo di armi, ma la sua attenzione era tutta rivolta a Caterina.

“Posso chiedervi un ballo?” domandò il Capitano Mongardini, che, pur essendo un invitato qualsiasi, indossava una mezza armatura leggera e portava la spada al fianco, sempre pronto a proteggere la Contessa in caso di bisogno.

La Tigre declinò e così fece alle proposte che arrivarono dopo. Tutti quanti incassarono senza fare commenti e si misero o a discorrere con Ottaviano – che diceva a tutti le stesse tre o quattro cose badando solo a cambiare di quando in quando parole e intonazione – o a ballare con altre donne.

“Rifiuterete anche il mio invito, immagino...” fece a un certo punto l'oratore milanese, con un profondo inchino.

La sola idea di mettersi a ballare con quell'individuo mellifluo dava il voltastomaco alla Contessa, che, tuttavia, rispose con un sorriso così affabile da non sembrare adatto a lei: “Mi spiace, ho già detto che questa notte non danzerò.”

“Ma le dame sono poche...” si incaponì il milanese, guardato storto da Luffo Numai e Cesare Feo, che avevano preso momentaneamente il posto di Sforzino e Bernardino – che erano corsi in mezzo alla sala a giocare insieme a un paio di bambini della servitù scappati dalle cucine – in attesa di poter parlare in tranquillità con la loro signora: “Così poche che perfino le vostre balie sono state invitate... Guardate quanti uomini stanno aspettando che...”

“Sono la padrona di casa.” lo interruppe Caterina, cedendo a un tono molto più freddo di quello che avrebbe voluto usare: “Posso prendermi almeno il privilegio di decidere di non ballare, non credete?”

“Ma eravate voi che eravate convinto che la nostra signora avrebbe sposato un fiorentino?” chiese di punto in bianco uno dei membri del Consiglio, guardando l'oratore milanese, liberando involontariamente la Leonessa da una bella seccatura.

Giovanni, poco lontano, finse di non sentire, continuando a elencare a Galeazzo, che pareva molto interessato, le peculiarità delle balestre che aveva visto in vendita a Firenze.

“Proprio così!” intervenne Francesco Numai, che aveva sentito tutta la storia dal suo parente: “E pensate che anche il Moro di Milano lo pensava!”

“Come se io non avessi di meglio che mettermi a pensare a un matrimonio!” esclamò Caterina, assecondando Francesco e cercando di mettere in ridicolo l'uomo di suo zio, fingendo di farlo con bonarietà: “Forse Ludovico ormai prova più interesse per gli sposalizi delle proprie nipoti che non per le guerre combattute dai suoi eserciti! Nemmeno fosse una vecchietta a cui non resta altra gioia che maritare le parenti nubili...”

“Idea più assurda non poteva venirgli!” concordò uno dei Consiglieri.

“Davvero, quando l'ha detto – fece Luffo Numai, che era stato reso loquace da qualche calice di troppo – ci sono rimasto tanto stranito, che nemmeno sono riuscito a ridere.”

Siccome i suoi si erano messi tutti a ridere, anche la Contessa fece altrettanto e finalmente l'oratore milanese si esibì in un sorriso imbarazzato e disse, facendosi piccolo piccolo: “Ho solo riportato le parole del mio signore...”

“Ma certo, voi non ne avete colpa. So bene che un uomo della vostra levatura – disse Caterina, mentre con la coda dell'occhio vedeva Giovanni congedarsi da Galeazzo e allontanarsi – non avrebbe potuto pensare a una cosa tanto assurda. Mi spiace che mio zio vi abbia messo così in difficoltà.”

L'oratore la ringraziò e il modo in cui se ne tornò tra gli altri invitati, unendosi perfino a un ballo di gruppo, lasciò intendere alla Tigre di aver fatto centro.

Ottaviano aveva ascoltato tutto senza fare una piega. Aveva già sentito commenti riguardo sua madre e il fiorentino, ma era sicuro che fossero infondati, almeno per il momento.

E, se anche un giorno lo fossero stati, nonostante tutto non avrebbe permesso alla sua anima nera di indurlo a commettere per la seconda volta lo stesso errore. Non con un uomo di specchiata nobiltà come un Medici, almeno. Lo stalliere era un pezzente, non meritava alcun rispetto, ma l'erede di una famiglia tanto importante, era tutta un'altra cosa.

“Perché non vai a ballare anche tu?” chiese Caterina, rivolgendosi al suo primogenito.

Il giovane si sistemò sulla sedia e stava per rifiutare, quando comprese che quella domanda altro non era se non un ordine.

Pur non avendone alcuna voglia, Ottaviano su unì agli altri, ringraziando che si trattasse di una melodia da danzare in piccoli gruppi, e così lasciò la madre libera di discutere con il castellano e con Numai, come se non potesse farlo già nei giorni normali.

La donna, in realtà, non prestò alcuna attenzione alle parole dei due uomini, troppo concentrata nel cercare di vedere dove si fosse cacciato Giovanni. Quando fu certa che non fosse più nella sala, attese che l'argomento del castellano si esaurisse e poi si scusò con entrambi, dicendo che per lei c'era troppo caldo e aveva bisogno di prendere un po' d'aria.

Nessuno le fece caso, mentre usciva dalla sala. Tutti quanti erano troppo euforici e anche un po' brilli. Da troppo tempo non si teneva un ricevimento a Ravaldino, e quella era la reazione più normale che ci si potesse attendere. Tutti avevano mangiato e bevuto a sazietà e il desiderio di vita era tornato a pulsare nel cuore di una città che aveva vissuto troppi mesi nel terrore.

Caterina sperava che il Medici non si fosse già ritirato nella sua stanza. Avrebbe voluto avvicinarlo già nella sala dei banchetti, ma non voleva attirare troppo l'attenzione su di loro. E poi c'era stata quell'odiosa scenetta con l'oratore milanese...

“Oh, eccovi qui, finalmente...” disse la donna, con un soffio, quando, dopo una ricerca abbastanza difficoltosa, trovò Giovanni sotto le arcate del cortile d'addestramento, riparato a malapena dal nevischio che turbinava nel buio della notte: “Non avete freddo, qui fuori?” gli chiese, visto che, rispetto a dentro, la temperatura era veramente inclemente.

“Volevo fare due passi.” rispose laconico il fiorentino, la condensa che si alzava dalle sue labbra carnose a ogni parola.

Caterina guardò un momento i fiocchi bianchi, pallidi alla luce delle torce, che volteggiavano in aria andandosi poi a posare sul terreno grezzo del cortile: “Non vi ho ancora chiesto scusa per quello che è successo quella volta con l'oratore di mio zio. E volevo anche ringraziarvi per la prontezza con cui avete inventato la storia del prestito.”

Una mano della Tigre era corsa inconsciamente a una delle due collane che portava quella notte e Giovanni, dopo aver osservato in silenzio quel gesto, sospirò e ribatté: “Non dovete né scusarvi né ringraziarmi.”

“E perdonatemi anche per quello che avete sentito prima, quando i Numai hanno preso in giro l'oratore... Io ho dovuto assecondarli, perché...” cominciò Caterina, stringendosi nelle spalle, quasi desiderando di tornare subito nella sala affollata e abbandonare quel discorso scomodo.

Là fuori faceva davvero molto freddo e il suo rosso abito scollato poco si addiceva alla neve che cominciava a cadere copiosa.

Anche Giovanni pareva infreddolito, nonostante il giubbone imbottito che portava i colori dei Medici, eppure i suoi piedi non si mossero di un centimetro: “E perché mai dovete scusarvi con me? È vero, no, che trovate l'idea di sposarmi semplicemente ridicola?”

La Contessa strinse le labbra e incrociò le braccia sul petto, per riscaldarsi un po', mentre le sue gote si arrossavano: “Non la trovo ridicola.”

“Però non avete alcuna intenzione di accettare di sposarmi.” controbatté Giovanni accigliandosi e guardando in terra, dove la neve andava via via ammucchiandosi.

La voce del Popolano era così tagliente e aggressiva che la Leonessa quasi stentava a riconoscerla.

Reagendo all'attacco come faceva sempre, ovvero attaccando a sua volta, sbottò: “Non mi pare che voi me l'abbiate mai chiesto!”

Il fiorentino scosse il capo e spostò il peso da una gamba all'altra con una smorfia: “Quando fate così, proprio non vi capisco.”

Caterina aveva compreso che quell'espressione di sofferenza non era solo legata al discorso che l'ambasciatore stava facendo, ma anche alle sue gambe.

“Avete di nuovo i vostri dolori?” gli chiese, a voce bassa.

La musica non riusciva a uscire dal salone e non c'era nessuno, in quell'ala della rocca. La Tigre e il Popolano erano completamente soli, gli unici rumori che si sentivano erano il sospiro lieve del vento e il suono ovattato e quasi impercettibile della nevicata che incorniciava quella strana notte di Natale.

“Non è nulla. Solo un fastidio.” rispose Giovanni, arrabbiato perfino con quelle arcate, che non riuscivano a metterli al riparo dalla neve: “Mi sono messo a camminare per farmelo passare, ma ormai non so nemmeno più se sia peggio stare seduto, coricato o in piedi.”

Non aveva voglia di rientrare, attirato dall'odore del ghiaccio e della notte, e anche dal freddo, che leniva un po' i suoi fastidi, ma avrebbe preferito che il vento non spingesse i fiocchi fino a loro, finendo per riempirli di neve e inumidire i loro abiti.

Caterina, la pelle baciata dal gelo di qualche fiocco ribelle che arrivava fino al suo collo scoperto, ebbe un brivido di freddo e stava per proporre di andare a parlare al caldo, ma il fiorentino la fermò, prendendole una mano: “Vorrei avere il vostro coraggio, perché io vivo nella paura.”

“Che cosa intendete dire?” chiese la Tigre, sentendo con piacere il calore di Giovanni attorno alle dita.

“Ogni giorno mi sveglio con il terrore di soffrire di nuovo. Non voglio morire come è successo a mio cugino Lorenzo, in un letto sfatto, fradicio di sudore, perdendo coscienza poco a poco, dopo ore di dolore insopportabile, senza poi risvegliarmi più.” la stretta della mano del Popolano si era fatta molto più forte e le sue iridi chiare cercavano quelle di un verde più pieno di Caterina: “Io ho studiato la vostra storia, prima di venire qui, e so che avete affrontato la morte tante volte, siete stata in guerra, vi siete fatta beffe degli Orsi quando hanno minacciato di uccidervi, avete sfidato perfino il Vaticano, quando avete preso Castel Sant'Angelo, infischiandovene ogni volta del rischio di perdere la vita e di soffrire...”

“Non è così.” disse la donna, ricambiando la stretta di Giovanni: “Anche io ho avuto paura, ne ho sempre. E anche io potrei morire nello stesso modo in cui temete di morire voi.”

Giovanni si accigliò e la fissò, senza riuscire a capire. L'aria tra loro si era fatta immobile e ormai la Tigre non sentiva nemmeno più il freddo.

“Dicono che sia malaria, ma in realtà non ne sono sicura. So solo che più di una volta ho passato interi giorni preda di febbri molto alte, restando incosciente il più del tempo, e, ogni volta, non sono morta per puro caso.” spiegò la Contessa, deglutendo a fatica, al ricordo delle crisi che aveva avuto, l'ultima, la più penosa per lei, poco dopo la morte di Giacomo: “So bene cosa significa, avere paura della morte e anche del dolore.”

“Però voi l'affrontate con coraggio. Io non ci riesco.” sussurrò Giovanni.

“Voi siete un uomo più coraggioso di quel che credete.” lo contraddisse Caterina, avvicinandosi un po' di più: “Siete arrivato qui, quando nessuno avrebbe voluto venirci. Siete stato il primo ambasciatore straniero ad avere il coraggio di mettere piede in una città che era stata devastata dalla mia furia. Mi avete subito affrontata, anche se di me tutti dicevano che ero un'assassina pazza e spietata. Mi avete aiutata a scapito dei vostri stessi interessi, e continuate a farlo, anche se voi e la vostra famiglia già state rischiando di perdere definitivamente il favore della Signoria. In pochi l'avrebbero fatto, visto il pericolo che Savonarola è per voi Medici. Ancora non mi spiego come siate riuscito a trovare un simile coraggio.”

“Il coraggio di farlo, l'ho trovato perché vi amo.” disse Giovanni, tutto d'un fiato.

La Tigre sentì il cuore perdere un colpo e il respiro farsi più veloce. Il fiorentino era molto vicino a lei e teneva la mano ancora stretta attorno alla sua.

Senza riuscire a dominarsi, Caterina scivolò via dalla sua presa e cercò di andarsene, assordata da quello che il Medici le aveva detto. Finché restava solo un sospetto o un qualcosa di non espresso chiaramente, poteva anche accettarlo, ma così veniva messa davanti a una scelta che non si sentiva in grado di fare.

Malgrado le gambe doloranti, Giovanni decise di non lasciarsi sfuggire quell'occasione unica. Se Caterina davvero lo credeva un uomo coraggioso, ebbene, allora avrebbe agito con coraggio.

Con un paio di ampie falcate, che gli costarono le proteste delle sue povere caviglie, il Popolano raggiunse Caterina nel centro del cortile e la fermò, appoggiandole una mano sulla spalla.

Quando la donna si voltò, forse per dirgli di lasciarla andare, Giovanni ebbe un istante di esitazione e poi, spegnendo il cervello e dando campo libero al suo istinto, la strinse a sé, le scostò una ciocca di capelli d'oro e d'argento dalla fronte e la baciò.

La Tigre non si sottrasse, né cercò di respingerlo. Anzi, dopo un primo momento di incertezza, ricambiò il bacio con una voracità che sorprese il fiorentino.

Tuttavia, dopo poco, si staccò di nuovo da lui e, premendogli le mani sul petto, lo allontanò da sé.

Non gli disse nulla, nemmeno lo guardò.

Giovanni avrebbe voluto di più. Si sentiva vivo, vivo come non mai. Aveva già baciato altre donne, ma non si era mai sentito così. Quella era una sensazione così nuova e inebriante che era crudele imporsi di non cercare di più.

Però, per quanto fosse desideroso almeno di baciarla di nuovo, si accorse che l'unica cosa che poteva fare era lasciarla andare, anche quella volta. Un animale selvatico non può e non deve essere messo in gabbia.

Caterina attraversò il cortile a passo veloce, senza voltarsi, e tornò in fretta al salone, lasciando Giovanni sotto la neve a chiedersi cosa sarebbe successo dopo quel bacio.

La Contessa arrivò mentre i musici erano impegnati in una ballata molto complessa, che aveva assorbito del tutto gli sforzi dei ballerini e anche degli altri presenti, che assistevano rapiti ai girotondi concentrici che si inseguivano, a volte intersecandosi, nel mezzo della sala.

“Tutto bene?” chiese Cesare Feo, l'unico rimasto al tavolo d'onore, quando vide la Contessa sedersi sulla prima seggiola che le capitò a tiro e avvicinarsi un calice e una caraffa.

Caterina non aveva nemmeno sentito e aveva già cominciato a versarsi del vino, così il castellano ripeté la domanda, seriamente preoccupato.

La sua signora aveva il collo e le guance infuocate, e sui suoi abiti e sui suoi capelli si vedevano ancora dei fiocchi neve. I suoi occhi erano distanti e, quando sollevava il bicchiere per portarlo alle labbra, si vedeva come le sue mani tremassero.

“Sì, certo...” rispose questa volta la Leonessa: “Tutto bene. Perché?”

Cesare Feo fece spallucce e si rimise a fissare le coreografie, guidate in primis da Bianca, che si rincorrevano davanti a loro, guardando di sottecchi la sua signora di continuo, chiedendosi che mai le fosse successo.

Caterina bevve in fretta tutto quello che era rimasto nella caraffa e poi chiamò un servo affinché le riempisse di nuovo il calice un paio di volte. Sentiva la testa nella nebbia, ma non solo per quello che aveva bevuto.

Il bacio che Giovanni le aveva dato l'aveva confusa come nient'altro prima di allora. Aveva creduto che, dopo Giacomo, non avrebbe trovato mai più nessuno capace di farle provare certe cose.

Aveva avuto molti uomini, spesso li aveva cercati solo per non pensare o per lenire la sua solitudine, eppure nessuno le aveva mai dato nemmeno l'ombra di quello che Giovanni le aveva dato con un semplice bacio.

Quando ancora la sala era avvolta nel gioioso caos della festa – che si stava protraendo ben oltre le attese e con molto più movimento del previsto – Caterina appoggiò con un gesto secco il calice vuoto al tavolo e si alzò, non senza fatica, visto che le girava la testa per il troppo vino.

Cesare Feo fece per aiutarla, ma lei rifiutò il soccorso, lo ringraziò comunque e poi gli disse: “Sono troppo stanca. Mi ritiro. Controllate voi che i miei figli non facciano nulla di sconveniente, per favore. E poi fate voi i miei saluti agli ospiti, quando se ne andranno.”

L'uomo annuì e la seguì con lo sguardo finché non la vide attraversare tutto il salone, un po' barcollante, e uscire.

La Tigre sapeva dove voleva andare. Non riusciva a pensare ad altro. Solo per quello si era decisa a lasciare il suo scranno e il vino. Un tarlo le martellava la testa. E sapeva che non l'avrebbe lasciata.

Ricordava il primo bacio che aveva dato a Giacomo. Ricordava la pioggia battente che l'aveva accompagnato, l'odore di quella notte di primavera, il sapore sconosciuto e selvaggio di quel giovane uomo che, per primo, era stato capace di suscitare in lei la fame che mai aveva provato prima di incontrarlo.

Eppure adesso quei ricordi venivano coperti con prepotenza dall'odore, molto diverso, di quella notte d'inverno e della neve.

Arrivata davanti alla porta della sua camera, non resistette oltre. Si spostò di qualche passo e batté con forza ed insistenza il pugno contro quella di Giovanni.

Subito, l'uomo aprì e restò interdetto, nel vederla. Il Popolano se n'era tornato in stanza subito dopo essere stato lasciato nel mezzo del cortile da solo a ripensare a quel bacio e alla sue conseguenze, però non si era ancora cambiato per la notte. Si era solo tolto il giubbone rosso e oro ed era rimasto con solo il camicione e le brache di velluto scuro.

Caterina appoggiò una mano sul suo petto, sentendo il cuore del fiorentino battere veloce e irrequieto, e abbassò lo sguardo.

Sentiva il sangue pulsare contro i timpani e il proprio cuore frullare impazzito come un uccellino chiuso in una gabbia troppo piccola.

Con un sospiro pesante, la Tigre risollevò gli occhi e guardò Giovanni, bagnato dalla luce malferma della torcia appesa al muro del corridoio.

Con lentezza, come se dovesse prendersi il suo tempo, si avvicinò a lui e gli sfiorò le labbra con le sue.

Il fiorentino non prese iniziative e attese che fosse la donna a trasformare quel piccolo gesto in un vero e proprio bacio. Rispetto a quello che si erano scambiati in cortile, questo era molto più audace e arrogante.

Caterina, presa dall'impeto del momento, abbandonò ogni freno e si lasciò guidare dal proprio corpo, che reclamava qualcosa di molto più importante, che non un bacio. Mise una mano sul fianco del fiorentino, tirandolo a sé con fare imperioso. Nel frattempo, passò l'altra mano tra i riccioli castani dell'uomo e poi la fece scivolare sul collo, poi più giù, fino a infilarla sotto la camicia, per sentire la pelle calda dell'addome e poi della schiena.

Dopo qualche infinito momento, in cui Caterina avvertì con chiarezza l'eccitazione di Giovanni e desiderò prepotentemente soddisfare quel bisogno che era anche il suo, la donna ritrovò un momento di lucidità e si ritrasse, come se qualcosa l'avesse improvvisamente bloccata.

Giovanni non la fermò, nemmeno quella volta, benché fosse certo che sarebbe bastato un niente, per convincerla a restare e passare con lui quel che rimaneva della notte.

Aveva sentito la forte nota di vino sulle sue labbra e aveva visto i suoi occhi, appannati come ogni volta in cui beveva troppo nella speranza di dimenticare il suo Giacomo.

Non voleva averla così. Non sarebbe stato giusto.

Così si limitò a guardarla mentre faceva un paio di passi indietro, l'espressione confusa e il respiro ancora irregolare, e raggiungeva la porta della sua stanza, entrandovi e chiudendosi dentro.

Giovanni ritornò nel tepore della sua camera e si gettò sul letto, troppo agitato anche solo per svestirsi.

Si passò lentamente una mano sul collo e poi l'indice sulle labbra e, con un sospiro tremulo, cercò di rievocare il calore di Caterina e il suo sapore.

 
   
 
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