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Autore: Lost In Donbass    11/09/2017    4 recensioni
Tom è un alcolizzato, cinico, apatico, coltiva marijuana e se ne frega del resto.
Bill è uno scrittore, ha subito un crollo psicologico non da poco, cucina torte di mele a raffica e mostra cicatrici che nemmeno lui sa di avere.
Ma se questi due squilibrati si trovassero a dover condividere la casa? In una campagna opprimente e inquietante, tra segreti sepolti in cantina, torte di mele, musica punk, fantasmi non del tutto morti, esperimenti umani, occhiate languide e case-reliquiario, riuscirà Tom a salvare sé stesso e Bill? Oppure sprofonderanno nel baratro dove nessuno li tirerà mai fuori?
Genere: Angst, Fluff, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Bill Kaulitz, Tom Kaulitz, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Incest
Capitoli:
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IN YOUR KITCHEN LIGHTS YOU CAN SEE ALL MY WOUNDS

CAPITOLO PRIMO: ALCOLIZZATI E PSICOPATICI

-Si può sapere dove mi state portando oppure è un segreto di Stato?
Tom si passò una mano tra i lunghi capelli scuri, osservando senza nemmeno troppo interesse la strada stretta e maltenuta che si inoltrava nella triste pianura tedesca, piatta e desolata, sotto l’immenso cielo color perla dove si inseguivano banchi di nuvole grigie e smorte, nemmeno un timido raggio di sole a fendere il grigiore della Pannonia, quel giorno. Guardò Georg, seduto accanto a lui, in giacca e cravatta come un avvocato che si rispetti, al volante della vecchia macchina. Guardò il profilo marmoreo, i muscoli sviluppati, i capelli corti ma alla moda, la linea dura della bocca. Era arrabbiato, e nessuno poteva biasimarlo.
-Non sei nella posizione di fare domande.- rispose seccamente Georg, decelerando quando cominciarono a intravedersi le prime villette sperdute nel grigio, malinconiche e decadenti come un paesino al confine con la Polonia che si rispetti. Faceva male sentirlo così, sentire quella voce che sì, poteva essere furiosa, ma soprattutto era delusa. Tom sospirò, ingoiando il suo solito sarcasmo come un rospo amaro. Aveva deluso Georg, e ne era pienamente cosciente ma non aveva avuto ancora il coraggio di chiedergli umilmente scusa. Scusa per averlo terrorizzato a morte, scusa per non averlo ascoltato, scusa per tutti i guai che gli aveva portato. Non era facile farlo, quando avevi mancato miseramente tutte le aspettative che il tuo migliore amico aveva su di te, mostrandoti per quello che veramente sei, una testa matta persa nel suo egocentrismo e nelle sue scelte, egoista tanto da aver ridotto tutti a uno stato angoscioso per te. Non avrebbero dovuto volergli così bene, pensava Tom. Non pensava di meritarsi gente come quella che aveva intorno.
-Ti portiamo nella tua nuova casa.- rispose da dietro Gustav, sgranocchiando qualche patatina al chili, e insozzando di conseguenza la macchina – Lontana dal casino, dalla città, e, soprattutto, lontana dai pub.
Tom chiuse per un attimo gli occhi, ingoiando a vuoto. Teoricamente, Georg si era assicurato che la disintossicazione funzionasse, il metodo era quello che tutti definivano vincente. Ma, per Tom, non era funzionato per nulla. Sì, ok, forse gli si era aggiustato il fegato, sempre che si potesse aggiustare il fegato di uno che beveva come una spugna da quando aveva quattordici anni e i dread in testa, però non gli aveva per nulla curato la testa. Anzi, forse gli aveva fatto venire ancora più voglia di bere di quanta non ne avesse prima, così, anche solo per contravvenire alle regole e al secco “Se lei tocca ancora dell’alcol, è morto”. Cosa gli importava in fondo? Aveva qualcosa da perdere? Ne aveva mai avuto qualcuna? Si inumidì le labbra con la lingua, pregustando il momento in cui avrebbe potuto finalmente riprendersi in mano una bottiglia di birra, di vodka, di gin, non gli importava, e fare quello che era abituato a fare sin da ragazzino. Sedersi sul tetto, la notte, a guardare le stelle cadenti, attaccato alla bottiglia come fosse ossigeno, da solo, come il perfetto alcolizzato senza speranza che era. Alla riabilitazione, erano tutti cinquantenni bruciati dopo un divorzio, o ragazzi della sua età che avevano alzato troppo il gomito a qualche festa. Lui si distingueva tra tutti anche per il solo fatto che beveva solo. Alle feste, non era di sicuro quello che beveva di più, anzi, a volte non toccava affatto nemmeno un bicchiere. No, Tom beveva quando era solo, quando i suoi demoni tornavano a bussare con troppa forza, quando rimaneva lui e la sua infanzia che faceva capolino nella memoria, e non gli rimaneva che una bella bottiglia in cui nascondersi e in cui affogare i ricordi che tornavano a premere come una marea. Stava bene, seduto sul tetto quando ancora viveva con sua madre a Loitsche, a guardare il cielo opprimente della pianura tedesca, il whisky trafugato dall’armadietto degli alcolici. Stava bene, al davanzale della casa di Magdeburgo, a guardare le luci della strada e a bere fino a svenire, cercando di svegliarsi la mattina e trascinarsi a lavorare. Stava bene, nei pub, seduto da solo al bancone, liquidando con un mezzo sorriso chiunque tentasse di avvicinarlo, la sua aria triste e malinconica che attirava ma spaventava. Non era contento che il piano di Georg, Gustav e di sua madre non avesse avuto i suoi frutti, ma non si stupiva nemmeno: il problema di fondo era che lui non voleva affatto disintossicarsi. Voleva essere un alcolizzato, non ci credeva nemmeno per ridere ai discorsi delle psicologhe, non credeva ai medici che gli assicuravano che sarebbe guarito, perché lui avrebbe fatto di tutto per non farlo. Non c’era un motivo valido, si diceva. Era solo fatto così, era un egoista senza via di scampo che voleva rimanere nel vortice dell’alcol e non uscirne. Chissà come mai, da piccolo, il suo passo preferito de “Il Piccolo Principe” era proprio il pianeta dell’ubriaco; quel “bevo per dimenticare che ho vergogna di bere” era la sua massima di vita, il suo motto, il suo “alea iacta est”. Eppure lui non si vergognava di bere, era poco importante.
-Abbiamo trovato un cottage poco fuori Magdeburgo, dividerai l’affitto col proprietario della casa. Abbiamo già preso noi accordi con lui, la casa non è divisa, vivrete a stretto contatto, ma per i primi tempi dovresti starci bene.- disse Georg, con tono piatto, prendendo una stretta stradina laterale, non asfaltata.
-Emozionante, un coinquilino.- commentò Tom senza allegria, appoggiandosi al finestrino, roteando gli occhi al cielo – Un’anticipazione su di lui?
-E’ un tipo strano.- intervenne Gustav, scuotendo il corto codino biondo, la mascella impegnata a ruminare patatine su patatine – E, ti avverto, è frocio fino al midollo. Quindi non rimanere scioccato se ti accoglie come ha accolto me e Geo l’altra volta, con vestaglia rosa, foulard leopardato e unghie smaltate di rosso, con tanto di “Tesori, benvenuti!”
-Cosa?!- Tom strabuzzò gli occhi, facendo una smorfia – E’ proprio quel tipo di frocio?
-Non abbiamo trovato altro.- tagliò corto Georg, mentre la macchina si avvicinava a un cottage sperduto da solo nella Pannonia, con la porta azzurra e un dondolo a fiori in giardino, le pareti bianche e le persiane azzurre con petunie nere alle finestre. – E … un’altra cosa, prima di entrare a conoscerlo: il tuo coinquilino ha subito un lutto piuttosto recentemente. Non ho capito di che tipo, ma è un po’ in crisi, credo. O meglio, Gus, il succo di tutto quel panegirico era questo, no?
-Ma che ne so, Geo, parla a raffica, e ha quell’odioso accento berlinese incomprensibile. - abbaiò Gustav, pulendosi le dita grasse e unte nella maglia – E sia chiaro, io ti saluto e scappo, quello non lo voglio vedere.
Georg parcheggiò la macchina nel vialetto perfettamente ordinato e tirato a lucido, e Tom si guardò intorno stranito. Era tutto così … pulito per i suoi gusti. Sembrava di essere in quelle bomboniere inglesi che si vedono con Miss Marple, con i fiori dappertutto, la casa linda, la porta e le persiane dipinte senza una minima screpolatura, il tappetino spazzolato. Si grattò il collo, incerto se ce l’avrebbe mai fatta a mantenere tutto quell’ordine, lui, che viveva in un appartamentino di Magdeburgo in mezzo a libri sparpagliati, Green Day a palla, bottiglie vuote dappertutto, vestiti sporchi e puliti insieme, poster degli Hollywood Undead alle pareti. Vigeva il delirio che qualunque quasi trentenne che non voleva crescere aveva in casa. Come avrebbe fatto ad abituarsi lì dentro? Si guardò attorno, lasciando scivolare lo sguardo sui vasi di fiori viola e neri accuratamente innaffiati e accuditi. Lui non aveva mai voluto dei fiori nella sua stanza, era qualcosa che lo soffocava, che lo infastidiva, quelle creature pulsanti e silenti a un metro da lui che lo osservavano con i loro occhi vegetali ciechi, eppure lì sembrava essercene in ogni angolo, con il loro profumo nauseante e i loro colori cupi eppure stranamente vivi. Non poteva nascondere a sé stesso di essere in ansia. Non aveva mai convissuto con nessuno, fino ad ora. Viveva da solo, in un appartamento lurido nei grossi palazzi del dopoguerra, lui e le sue bottiglie di superalcolici a tenergli una compagnia perversa. Qualche ragazza aveva provato a convincerlo a condividere l’appartamento, alcune con le lacrime, altre con le lusinghe, ma bastava una delle sue occhiate tristi, un po’malinconiche e le convinceva a lasciarlo vivere in pace, con i suoi ritmi, la sua solitudine. Il suo vuoto interiore.
Si sciolse i capelli, lunghi e scuri, sfregandosi gli occhi assonnati, annoiato dall’esistenza, e girellò stancamente davanti al portoncino azzurro, lanciando qualche occhiata distratta a Georg, appeso al campanello, e a Gustav, rintanato nei pressi della macchina, la sua valigia che gli sbatteva contro la gamba e l’aria solitaria. Sembrava un ragazzino portato dai genitori a casa della vecchia zia per farlo tornare sulla retta via, farlo studiare e fargli piantare lì videogiochi e cannabis. Ma lui non era più un ragazzino, e quelli non erano i suoi genitori, ma i suoi migliori amici che si preoccupavano della sua salute minata da anni di alcolismo silenzioso. Si avvicinò a Georg, ma non disse nulla, limitandosi a guardare la porticina chiusa che proprio non si addiceva a un tipo come lui, abituato alle porte di alluminio mezze scassate della periferia di una grande città. Non conosceva la campagna, la calma e la vita sana, abituato alla città caotica, al rumore delle discoteche, alla droga e all’alcol come via di fuga da qualcosa che gli faceva ribrezzo, e aveva paura. Paura di quello che lo avrebbe accolto una volta reinserito nella società normale. Tom non era mai riuscito veramente a inserirsi nel mondo, rimanendo sempre un po’ in disparte da tutto, osservando svogliatamente quello che avveniva attorno a lui come uno spettatore annoiato in un solitario drive-in in Alabama. La politica, l’aveva sempre presa come uno scherzo, non c’era mai nulla che gli andasse davvero a genio, non si diceva comunista, estremista, voleva un’anarchia che esisteva solamente nella sua mente, un menefreghismo che l’aveva sempre caratterizzato da quando era bambino. Sembrava che nulla potesse smuovere la sua perenne noia, animare quei grandi occhi scuri così tristi, che si spegnevano più passavano gli anni, risvegliare l’attenzione di quel ragazzo che si chiudeva in sé stesso per tenere gli altri lontani da sé e dal suo mondo chiuso. La sua musica, nessuno la capiva. Dicevano che era roba strana, inascoltabile, che era da psicopatici strafatti di LSD, ma lui la suonava lo stesso, per ore, la notte, suonava alle sue bottiglie vuote sistemate ordinatamente davanti ai suoi occhi stanchi e arrossati; per la band, faceva quello che gli veniva ordinato, senza voglia, passione, solo tecnica e una malinconia così struggente che era percepibile anche se stavano suonando roba punk rumorosa e anarchica.
Tom era fatto così, un ragazzo quasi uomo che galleggiava stancamente nella sua esistenza depressa e alcolizzata senza trovare una sola via di uscita, chiudendosi sempre di più in quell’immaginaria bettola rock’n’roll in Louisiana che tanto andava a genio alla sua chitarra e alle sue bottiglie.
Aveva anche paura di dover condividere la casa con qualcuno che non aveva mai visto. Non sapeva quanto avrebbero potuto resistere ma sapeva da solo che tanto non sarebbe stato: chi reggeva un alcolizzato depresso come coinquilino? Appunto. Tom era abituato al disordine, a suonare a orari improponibili, a stare sveglio fino a tarda notte a suonare la chitarra, a bere fino a svenire e sapeva che la disintossicazione non era servita a niente se non a convincerlo a bere ancora di più. Come avrebbe fatto adesso, con qualcuno che gli avrebbe imposto delle regole, regole che ovviamente non avrebbe rispettato, perché lui era uno spirito libero che si era sempre rifiutato di obbedire a qualsivoglia persona, non tanto per reazione ma per inerzia morale? Come avrebbe sopportato un’altra persona con sé, con le sue, di abitudini, con la sua vita? Aveva bisogno del rumore per soffocare i suoi pensieri troppo incasinati, di musica ad alto volume la notte per conciliarsi un sonno che lo uccideva ogni notte di più. E chi, per quanto potesse essere accomodante e paziente, poteva sopportarsi ogni notte gli Hollywood Undead o i Sex Pistols a tutto volume? Chi poteva reggere un coinquilino che non parlava mai ma si trascinava per casa come un fantasma dolente, con delle catene invisibili al collo e ai polsi? Chi sarebbe stato così folle da resistere a vivere con lui?
-Ma siamo sicuri che sia in casa?- la voce di Gustav interruppe i suoi pensieri. Il grasso biondo aveva messo il naso fuori dalla macchina e li guardava incarognito e indagatore allo stesso tempo – Per me è morto.
-E perché dovrebbe essere morto?- chiese Tom, piegando la testa da un lato.
-Perché ci gioco la casa che ha l’AIDS. E sicuramente sarà un tossicodipendente. E …
-Gustav, il fatto che non ti piacciano le persone omosessuali non ti autorizza a sparlargli dietro in questo modo.- lo redarguì Georg alzando gli occhi al cielo. – Non è che tutti i gay hanno l’AIDS o sono eroinomani. Piuttosto, speriamo che si ricordi che ti devi trasferire qui.- battè con più forza il pugno sulla porta, dicendo, a voce un po’ più alta – Ehm … Bill? Bill, scusa, sono Georg Listing, l’avvocato, avevamo l’appuntamento per oggi.
-Magari non c’è.- commentò senza gioia Tom, cercando di spiare dalle finestrelle della sua nuova casa, con le tende inamidate. Anche se, perché c’erano petunie nere come fiori e perché le tendine avevano una complessa decorazione al punto croce nera che pareva una croce? – A questo punto posso anche …
Non fece in tempo a finire di parlare, che una nuova voce, malinconica, infantile, inquietante, si aggiunse al terzetto, facendoli voltare sobbalzando. E Tom non poté fare a meno di trattenere il fiato a vedere il ragazzo che si stava avvicinando ciondolando dal giardino.
-Sì? State cercando Hansi? A chi devo il piacere?
Tom osservò con uno stupore che non provava da anni il nuovo venuto e scambiò un’occhiata imbarazzata e vagamente scioccata con Georg e Gustav. Più che un uomo, pareva un giunco, tanto era longilineo e magro ai limiti dell’anoressia, con un andatura ciondolante e incerta sui piedi nudi, così tanto pallido da sembrare un fantasma slavato di qualcosa di vivido un tempo lontano. Aveva i capelli biondo platino, evidentemente tinti, accuratamente pettinati, una quantità notevole di piercing sul viso e sulle orecchie, un largo sorriso dolce e innocente come quello di una bambola, e l’aria di un folle. Ma erano i suoi enormi occhi neri come l’inferno che fecero rimanere Tom di stucco. Magistralmente ricoperti da quintali di trucco, erano come un paio di specchi d’ossidiana maledetta. Tom non aveva mai pensato che un paio di occhi potessero essere così espressivi, inquietanti e malati, ma quelli erano qualcosa di cui non si era mai nemmeno sentito. Vi sembravano trasparire onde e onde di nostalgia che si propagavano gelide come il mar Baltico in mezzo a loro, fiumi delicati eppure assassini di malinconia congenita, un senso di freddo e di perdita che poteva concorrere con il Generale Inverno. Erano occhi che sapevano di Siberia, non di Magdeburgo. Erano occhi ghiacciati dai venti ed erosi dall’oceano, quelli, occhi vivi eppure morti. Erano meravigliosi, si ritrovò a pensare Tom, deglutendo rumorosamente. Non sapeva chi fosse quello straordinario ragazzo con i jeans strettissimi e una camicia di lamè argentato, ma sapeva che aveva gli occhi più malati che potessero esistere. E che era la figura più sensuale che avesse mai avuto il piacere di vedere da anni.
-Oh, Bill, eccoti.- Georg si fece avanti, porgendogli la mano, che venne guardata con estremo stupore e non venne stretta – Spero ti ricordi di me, sono Georg Listing, l’avvocato, e lui è Gustav Schafer. Eravamo venuti per combinare l’affare sul tuo nuovo coinquilino. Ecco, lui è Tom Kaulitz, pienamente disposto a trasferirsi qui.
Se fosse stato per lui, il ragazzo avrebbe tranquillamente grugnito un ciao e avrebbe distolto lo sguardo, ma un’occhiata assassina del suo migliore amico lo costrinse a fingere un sorrisetto tirato e ad allungare timidamente la mano.
-Ciao, sono Tom. Piacere.
La reazione fu alquanto strana, o almeno così la vissero i tre amici. Bill li guardò tutti, con attenzione, socchiudendo gli occhi e aggrottando le sopracciglia perfettamente disegnate, come se non avesse minimamente capito con chi stesse parlando. Piegò la testa da un lato, scrutandoli con un’attenzione maniacale, prima di risvegliarsi completamente dalla breve e inquietante trance e strillare
-Ah, sì, giusto! Mi ricordo! Ciao, io sono Bill, Bill Schadenwalt, è un piacere! Tu sei il mio nuovo coinquilino! Wow, è così eccitante! Non ne ho mai avuto uno! Fa molto universitari! Io ho due lauree! Ma nessun coinquilino! Ho un’altalena, se vuoi! Ti piacciono le altalene? Io le amo! Sono così divertenti! Se hai qualche animale, portalo pure in casa! Mi piacciono gli animali! Prima non potevo averne, quindi sarebbe bello se tu ne avessi uno! Volete del the? Ne ho tanti tipi! Dei biscotti? Li ho fatti io! Cucino, ovviamente! Basta che mi aiuti per la spesa, ti faccio tutto quello che vuoi! Sono abituato intanto! Qualunque tipo di cucina, sono aperto a tutto! Fumi? Perché io sì, spero non ti dia fastidio! L’unica cosa, se …
-Ehm, certo, magari ne potete parlare quando sarete soli.- lo interruppe Georg, con un sorriso incredibilmente tirato, ponendo finalmente un freno a quello sproloquio completamente insensato di frasi.
Tom era semplicemente basito. Si avvicinò a Gustav, e sussurrò
-Aspetta, volete mettermi in casa con sta checca psicopatica invece di lasciarmi a casa mia, in pace? Che cazzo vi siete fatti?!
-Scusa T., lo so che è un’infamata da parte nostra, ma è per il tuo bene.- gemette di rimando il biondo ragazzone, rifacendosi il codino.
-Te lo dico chiaro, lasciatemi qui, e riprendo a bere.- Tom era sbiancato, guardando Bill saltellare in giro a Georg come Heidi – Lo giuro. Adesso saliamo su quella macchina e scappiamo finché siamo in tempo.
-Ehm, ma dai, a prima vista magari non è particolarmente invitante ma …
-Invitante? Schafer, Cristo buon Dio, è uno psicopatico! Secondo quale perversione io dovrei disintossicarmi stando in casa con quel coso saltellante tinto male?!
-Senti, Tom, lo so! Credi che ci piaccia lasciarti qui con lui, sapendo cosa ne penso io dei froci? Appunto. Ma Georg ha ragione: non puoi stare a Magdeburgo, adesso, hai bisogno di calma, di vera calma, che qui in campagna puoi trovare davvero. In città, rischi troppo grosso, qui non hai nulla che ti possa tentare. Anche perché il prossimo pub è a mezz’ora di macchina, che tu non hai a disposizione.
-Perché qualcuno di mia conoscenza ha pensato bene che prendere la moto del proprio migliore amico per scarrozzarsi la ragazza e andarsi a schiantare contro il municipio era più sensato che prendere la metro notturna …
-E piantala di rivangare sta storia, mi fai sentire in colpa. Comunque, dipende da te: prima ti reputeremo in grado di tornare in città, prima abbandonerai il frocio e la casetta in campagna.
Fu la voce vagamente isterica di Georg a far smettere i due di confabulare in un angolo, facendoli concentrare su Bill che li guardava con quei suoi enormi occhi folli e quel suo sorriso vagamente maniacale.
-Bene, Tom, allora noi pensavamo che potremmo anche andarcene. Torneremo domani a portarti le ultime cose che sono rimaste nel vecchio appartamento.
Tom era sicuro di non ingannarsi a vedere l’espressione afflitta dell’amico. Forse anche a loro bruciava averlo completamente allontanato dalla sua vecchia vita, relegandolo in un posto sconosciuto nelle mani di quel tipo strano. In fondo, se l’era cercato anche lui, dopo tutte quelle volte, non poteva credere che lo avrebbero lasciato stare. Inconsciamente, gli faceva piacere vedere quanto Georg e Gustav gli volessero bene, quanto si fossero impegnati per salvarlo, e si faceva schifo da solo pensando a quanto poco bene lui volesse loro, con il suo menefreghismo e la sua voglia di farla finita così. Ma era il suo carattere bastardo, non lo avrebbero cambiato. Li guardò salutare timidamente Bill e salire in macchina, mollandogli ai piedi i suoi zaini, salutarlo con un sorriso incoraggiante e partire sgommando per la stradina. Agitò stancamente una mano, senza avere il coraggio di voltarsi verso il suo nuovo coinquilino.
-Bene, Tom, sono molto contento di conoscerti. Vogliamo entrare? Ti faccio fare il giro della casa.
La timida vocina di Bill, così dolce e remissiva lo riscosse dalla trance in cui si era autoindotto. Si voltò, tentando per uno dei suoi mezzi sorrisi che tutti trovavano irrimediabilmente sexy, ma che per lui non erano altro che un modo per segnalare la sua stanchezza. Annuì, caricandosi gli zaini in spalla e seguì il biondo dentro la casa. Una tiepida oscurità li accolse, rilassante e morbida. Tom sbatté gli occhi, guardandosi attorno con estrema curiosità. Era tutto così … estraneo per uno come lui, abituato al rumore e al caos, alle luci asettiche del vecchio lampadario, alle notti illuminate dai nightclub e dalle volanti della polizia, gli occhi bruciati dalle luci a led ultravioletti per la sua piantagione casalinga di marijuana da spacciare. Non sapeva se gli sarebbero mancate le luci, il casino della periferia, se avrebbe potuto abituarsi alla calma campagnola. Beh, ma la coltivazione di marijuana non gliel’avrebbe levata nessuno, avrebbe convinto Gustav con qualche scusa a portargliela nella casa nuova. Come pensava che arrotondasse lo stipendio? Con la sua roba, no? Si sarebbe messo le luci blu in camera sua, insieme all’inascoltabile musica house di cui si riempiva le orecchie quando sperimentava strani incroci con le sue amate droghe naturali che creava con spirito scientifico estremamente innovatore. Un delizioso profumo gli invase le narici, così diverso dal tanfo di alcol, pizza andata a male e marijuana della sua vecchia casa. No, questo sapeva di cipria, torta di mele, rose appena colte e qualcosa che non sapeva bene identificare, ma che sapeva di vecchio e di buono. Era molto più riposante che l’odore penetrante delle fabbriche di Magdeburgo, ti metteva in pace con te stesso. Un vago sentore di fumo, forse. In mezzo al delicato zucchero a velo. Un profumo da donna dei più raffinati. Fiori ancora bagnati di rugiada. Libri vecchi sempre chiusi. Legna da ardere. Erba appena tagliata. Fresco. Campagna. Si guardò attorno curioso, osservando la sobria mobilia di legno, la quantità di abatjour deliziose, un’enorme libreria che non riusciva più a contenere i volumi che vi erano stipati dentro a forza, una poltrona rossa con grosse nappe gialle che troneggiava padrona nel centro del piccolo salotto tirato a lucido. E milioni di foto, dappertutto. Tutto il contrario dei vecchi mobili di alluminio che aveva, i poster alle pareti, l’impianto stereo tarroccato che aveva rubato da adolescente, il divano sfondato recuperato da una discarica, la tv mezza rotta, solamente disordine fastiodoso e snervante.
-Allora, Tom, cosa ne dici del salotto? Ovviamente, potrai sistemare qui tutto ciò che vuoi. Ti chiedo solamente di non spostare le fotografie, ci tengo moltissimo. Per quanto riguarda i libri, ora sono anche tuoi, fanne ciò che preferisci.- Bill lo stava guardando con un enorme sorriso, il piercing sulla lingua e l’anello al naso che brillavano sinistramente. Era bello, decise Tom. Di una bellezza ferita, spezzata ed effimera, ma lo era comunque. Gli piaceva il suo sorriso isterico, e i grandi occhi esaltati da qualcosa che non sembrava droga, ma qualcosa di più squilibrato. Gli piacevano quelle lunghe mani magrissime e ingioiellate che si muovevano come ragni su un’invisibile ragnatela, quel tatuaggio dello scheletro così inquietante ma interessante, quel corpo così magro e così alto, slanciato e ciondolante.
-E’ una casa molto carina.- disse, impacciato, nascondendosi dietro la cortina di capelli, facendo vagare lo sguardo per la stanza - Senti, forse sembrerò un po’ maleducato ma … ci sono delle regole? Intendo dire, mi spiego, c’è qualcosa che assolutamente non devo dire, o fare, o qualcosa di simile?
La risata che conseguì a quella frase, Tom non seppe se trovarla terrificante oppure adorabile. Era qualcosa di terribilmente … psicopatico. O meglio, come il ragazzo immaginava che ridessero gli psicopatici, con tanto di occhioni esaltati e manine che battevano.
-Ma assolutamente no! Questa è anche casa tua, mi aiuti a pagare le spese, come posso darti delle regole?- Bill si strinse nelle spalle. Dio, com’era magro  - Però posso chiederti dei favori, questo sì. Tipo, le foto. Sei pregato di non toccarle, o spostarle, o farci qualsiasi cosa. Per quanto riguarda la televisione, io non ce l’ho, ma se vuoi portarne una ti farò compagnia. Sono anni che non la guardo, però quando vedrai i film horror, non contare su di me, mi spavento molto facilmente. La musica punk mi piace un sacco, anche di notte, tanto non dormo molte ore, e se vuoi suonare libero di farlo quando vuoi, se vuoi ti accompagno col pianoforte. Ovviamente, cucino io, come ti ho detto sono ferrato in qualunque genere di cucina, possiamo cenare insieme, e la colazione idem. La casa la pulisco io, faccio il bucato, e farò anche il tuo, se vuoi, ti rifaccio anche il letto, non è un problema. Magari tu puoi fare la spesa, questo sì. Ho una moto, ma non ho la patente, e andare sino in città con la corriera è davvero stancante. Bene, credo sia tutto.
Tom era rimasto a boccheggiare per tutta la tirata di Bill, guardandolo come si può guardare un elefante in smoking.
-Cioè … no, scusa, fammi ricapitolare. Come hai fatto a capire che mi piacciono gli horror e il punk? E poi … non posso accettare! Siamo coinquilini, non sono mica un ospite, tutto ciò è gentilissimo da parte tua ma è esagerato. Ho capito, lo so che non ho esattamente l’aria del casalingo, ma qualcosa so fare, eh.
Per tutta risposta, Bill rise di nuovo e scosse i capelli biondissimi
-E’ semplicissimo; hai la maglietta dei Korol I Shut, se non fossi un fissato del punk non conosceresti la band e di conseguenza non avresti una loro maglietta. Per quanto riguarda gli horror, da quella borsa sbuca la collezione dei film di Wes Craven, che dicono tutto. Davvero, Tom, non ti devi preoccupare: mi faresti solo che un favore a farmi fare la donna di casa. Sono sempre stato abituato così, per me è una routine obbligatoria.
I due ragazzi si guardarono un po’ negli occhi, finché Tom non distolse lo sguardo, infastidito nel profondo da quelle iridi nere come l’ossidiana più nera. Più stava a contatto con Bill, più si rendeva conto di quanto avessero sbagliato Georg e Gustav a lasciarlo nelle sue mani. Uno psicopatico e un alcolizzato, dove sarebbero mai finiti? Era una cosa quasi inconcepibile, tanto valeva metterselo in casa. Cosa diceva loro che non avrebbe bevuto, in quella casa, dove non c’era nessuno a controllarlo, erano lontani almeno un’ora da Magdeburgo e bastava un niente per scappare in Polonia e finire i suoi giorni miserabili in uno dei vecchi alberghi di Varsavia in mezzo alla vodka pura? Doveva per forza esserci qulcosa sotto, qualche trucco strano che legava loro e Bill, la casetta tirata a lucido e il profumo di strudel e cipria. Non ci credeva minimamente alle scuse piccine dei suoi amici, quei vaghi “sei lontano dai pub”, “la campagna è tranquilla”, “meno stimoli”. Tutte cazzate, lo sapevano tutti e tre. Di pub ne aveva visti almeno tre lungo la strada, il casino non vedeva cosa c’entrasse con la sua nuova vita, visto che per lavorare ci doveva ben andare giù in città, e per gli stimoli, beh, ne aveva forse bisogno? Appunto. Doveva esserci qualcosa che non gli volevano dire, qualcosa che riguardava il biondo più di quanto volessero fargli credere. Ma cosa poteva essere? Il fatto che forse fosse un ex alcolizzato e lo avrebbe aiutato? Uhm, no, non ne aveva la faccia. Magari un’alcolizzato di the alla fragola e torte di mele, quello sì. Non credeva nemmeno alla ricerca di un coinquilino per dividere le spese; come se non conoscesse le facce della gente che stava più che bene economicamente, e Bill aveva la classica faccia di uno ricco. Mentre lui arrivava ai livelli da straccione, quindi non sapeva davvero cosa gli sarebbe servito. Scrutò di sottecchi il suo nuovo e misterioso coinquilino saltellare in giro blaterando di torte di mele e zucchero a velo al nulla più completo e si guardò attorno, un fastidioso senso di terrore ad attanagliargli la gola. C’era qualcosa che gli stava urlando “scappa”, eppure pareva che l’uscita dalla Wonderland fosse lontana anni luce e il Ciciarampa lo stesso braccando da troppo vicino. Si chiese anche perché dovessero tenere le luci tutte spente e perché le tendine fossero nere. Guardò le fotografie sul camino, e si chiese chi fossero i due ritratti. Una, la più grande, era la foto di un matrimonio. Osservò curiosamente un ragazzo longilineo, coi capelli color platino lunghi almeno fino alla vita, con lo smoking addosso e lo sguardo più cattivo e perverso che avesse mai visto, tenere a braccetto un altro ragazzo, effeminato fino alla nausea, coi capelli neri e bianchi sparati dappertutto, truccatissimo, con un enorme vestito da sposa bianco e rosa, con tanto di strascico. Chissà chi erano, pensò, non sentendo nemmeno la voce di Bill che strillava qualcosa su “la torta, avevo preparato la torta di mele ma poi i tuoi amici se ne sono andati, la vado a prendere!”. Erano bellissimi, continuò a pensare, osservando le altre foto, la stessa coppia, momenti diversi, stessi pungenti occhi celesti di quello biondo che perforavano la foto e stessa dolcezza del moro che si dipanava in morbide onde positive. Osservò con più attenzione, sentendosi trapassare fastidiosamente dal ragazzo biondo, da quel ghigno sadico che non poteva esattamente chiamare sorriso, e dal visino innamorato e imbambolato di quello truccato e ingioiellato come una ragazza. Davano quasi dipendenza, a guardarli così, abbastanza tossici da costringere Tom a osservare con crescente curiosità le fotografie che era stato invitato a non toccare. Fece passare un dito sulla cornice, quando la voce di Bill, così sensuale anche se così inquietante, lo fece sobbalzare
-Ti piacciono?
Lo guardò, gli occhi truccati fattisi improvvisamente lucidi, un sorriso triste e nostalgico sulle belle labbra piene, una di quelle dita lunghe e nobili che accarezzava distrattamente la foto, così delicata eppure così bruciante.
-Sono molto belle.- grugnì Tom, imbarazzato – Posso sapere chi sono?
-Come chi sono?- Bill rise, una risata triste e sola. Che strano suono che aveva, come mille diamanti che si spezzano e crollano al suolo. Tom non era abituato a ridere sinceramente; non sapeva nemmeno come potesse suonare una vera risata divertita, abituato al riso metallico della periferia  – Questo sono io.- indicò il ragazzo coi capelli sparati, inguaiato nel vestito da sposa principesco – Sono molto cambiato da quel giorno, è vero.
Tom annuì, senza sapere bene che cosa dire, limitandosi a sentire il profumo di Bill, che sapeva di vaniglia, mascara e shampoo delicato ed era così buono.
-Lui è Hansi, mio marito.- Bill indicò il ragazzo biondo con l’aria cattiva, e una solitaria lacrima gli percorse la guancia.
-Tuo marito?- Tom lo guardò incredulo, sentendosi in colpa a vederlo versare quella lacrimuccia delicata come un soffio di vento nel deserto – E … se mi è permesso chiedertelo, perché non è qui? Avete divorziato?
-Divorziare? Noi? Ma non dire sciocchezze!- Bill lo guardò come si potrebbe guardare a un bambino stupido, e scosse la testa.
-Non volevo insinuare, è solo che mi pareva strano che ti servisse un coinquilino se sei sposato, solo questo.- commentò Tom sulla difensiva, distogliendo lo sguardo colpevole. C’era una bellissima torta di mele appena sfornata sul tavolo, e pensò che un bicchiere di gin ci sarebbe stato divinamente. Ma lui non doveva bere.
-Giusto, scusa, tu non puoi sapere.- Bill fece un sorriso strano, e lo spinse delicatamente verso il tavolo e la torta di mele dorata e ricoperta di zucchero a velo – Da quando se n’è andato, mi sono reso conto che stare del tutto solo non giova né a me, né ai miei libri, quindi ho deciso di cercarmi qualcuno con cui vivere. Per rallegrarmi le giornate, mica per altro. Per avere qualcuno a cui cucinare la torta di mele, quando ero solo finiva che la dovevo sempre buttare via. Per distrarmi. Vivere completamente soli è pesante, sai? Non parlare mai con nessuno, eccetera. È un anno che ci penso su, finalmente mi sono deciso. Sei un dono del cielo, sai?
Tom non si era mai sentito dare del “dono del cielo” da nessuno. O meglio, dalle sue bottiglie, quello sì, ma non sapeva se valeva.
-Aspetta … quindi, se ho capito, tu sei solo perché Hansi è … - Tom lasciò volutamente la frase in sospeso, mordicchiandosi nervosamente il piercing al labbro che resisteva da quasi quindici anni.
-Esatto.- Bill si strinse nelle spalle, sfregandosi un dito sulla fede luccicante che portava al dito, così semplice in mezzo ai grandi anelli gotici – Hansi è morto l’anno scorso. Io sono la sua vedova.

l***
Ciao ragazze! Eccomi qui con una storia nuova, e, come al solito, orribile ... non ho molto da dire se non che 1) per quelle sante che seguono le altre due ff in corso sui ragazzi, non disperate arrivano gli aggioramenti, 2) welcome to our madness a quelle nuove (cit Seremedy necessaria scusate). Boh. spero che il primo capitolo vi abbia intrigato e che vogliate lasciare qualche recensione! Un bacio a presto! E buon inizio scuola a quelle che come me devono tornare all'inferno :(
Charlie xx
  
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