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Autore: EffyLou    11/09/2017    0 recensioni
Johann Trollmann è un pugile, beniamino del popolo tedesco negli ultimi anni della Repubblica di Weimar.
Indisciplinato, imprevedibile, borioso. Non sono i suoi difetti più grandi. Johann Rukeli Trollmann appartiene ad un popolo scomodo: è uno zingaro. Conquista le platee di Germania e fa innamorare le donne tedesche.
Nella sofferenza che porterà il Nazismo, il suo unico punto fermo e pilastro incrollabile è Frieda. Johann tocca l'apice e il fondo, assaggia il successo e la disperazione, conosce la serenità e la guerra. La derisione nazista si scontra con l'orgoglio di uno zingaro, che proprio non vuole saperne di abbassare la testa a quelle umiliazioni.
C'è solo un modo per far tacere quell'anima in rivolta: ridurlo ad un numero e darlo in pasto al Porajmos, l'Olocausto del popolo zingaro.
- - - - - -
I veri combattenti non temevano la loro ultima battaglia, e se c'era una cosa che Rukeli aveva sempre fatto, era dimostrare di non temere neppure il Diavolo. Neppure il Nazismo.
Genere: Drammatico, Romantico, Sportivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Novecento/Dittature, Olocausto
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9. Ich spiele nicht


Frieda si era definitivamente trasferita da Johann, subito dopo il ritorno da Hannover.
Johann la mattina si dedicava a Frieda e alle faccende varie, pranzava, e subito dopo pranzo partiva con l’allenamento in palestra. Tornava per l’ora di cena e la sera di nuovo con la fidanzata.
La ragazza, dal canto suo, lavorava al pub, faceva visita a suo padre e si occupava del maneggio; appena aveva un buco di tempo libero, si dedicava alla sistemazione della casa.
Aveva decorato il balconcino con piante, aveva portato lì tutte le cose che teneva quando abitava con il padre ed era riuscita a trovare una poltrona ed una libreria. Era diventata la loro tana, il loro nido, il loro posto nel mondo. Con Johann avevano promesso di trovare del tempo per dipingere le pareti, ma era difficile ritagliarsi una giornata per un lavoro così impegnativo.
Box-Sport, da un po’ di tempo, cominciava a chiamare Trollmann “Heinrich”. Il pugile, che non leggeva la rivista per non essere influenzato dai giudizi quasi sempre negativi della redazione, prese evidentemente visione di quegli articoli che riportavano un nome errato.
Zirzow gli disse che Box-Sport storpiava i nomi di tutti i pugili, persino Schmeling fu deformato in tutti i modi possibili, tra il 1923 e il 1924. Lo zingaro però si era accorto che non si trattava di deformare, in questo caso, ma di modificare radicalmente. Perciò scrisse una lettera di protesta, dove chiedeva di essere chiamato con il suo vero nome.

Box-Sport, edizione del 21 novembre 1932.
Quella di Trollmann è una pretesa ingiustificata: ritiene importante venir chiamato con il suo nome di battesimo, ma non dà peso a tutti i nomignoli che gli vengono affibbiati. Troll, Gipsy, Hurrikan…
Io da qualche parte ho letto che si chiama Heinrich Trollmann, e non Johann.

Le sue prestazioni sono alterne come il suo record. Gli avversari che – diciamolo una buona volta – si sottomettono al suo personale stile di combattimento, non hanno nulla da offrire contro di lui. I pugili che combattono in modo corretto diventano matti quando si trovano in queste esibizioni da circo. Trollmann fa smorfie, gioca, si intrattiene con il pubblico durante i match, bleffa con naturalezza inaudita. Poi, quando l’avversario non si fa abbindolare dai suoi giochetti, sale sul ring un pugile eccellente, completamente diverso, trasformato. Boxa con superiorità, con buona scuola, accetta lo scambio corretto, determina il tempo, dà lezione, dimentica i trucchi, combatte alla grande e con significativo successo.
Lo zingaro con tutti i suoi lati oscuri si è visto contro Russo, per citarne uno. Invece un Trollmann impeccabile lo si è visto contro Seeling, ad esempio.

-Punch


Tra la fine di novembre e gli inizi di dicembre, Johann aveva disputato due incontri con un colosso sette chili più pesante, ad Amburgo. La ragazza non era andata con lui. Si era un po’ preoccupata, il suo avversario era Adolf Witt e dicevano fosse un picchiatore, una specie di torre irremovibile.
Ma lei sapeva che il suo campione, seppur più leggero, era alto e maestoso.
Capitava che perdeva, anche se da quando si erano fidanzati non era successo, ma anche nella sconfitta il ragazzo non si perdeva d’animo anzi. Era un tipo sportivo, si complimentava sempre con l’avversario a prescindere dall’esito e ci scambiava volentieri due parole in veste di uomo, non di avversario.

Johann non dimenticò il primo incontro con lui, del 27 novembre 1932, al Teatro Flora di Amburgo.
Percorse i metri che lo separavano dal ring a modo suo: testa bassa, cappuccio sugli occhi.
Saltò le corde del ring come un acrobata e arrivato al suo angolo si tolse l’accappatoio. La sua tipica entrata in scena, teatrale. La folla era già in delirio, soprattutto grida di donne. Qualcuno stava persino piangendo. Johann salutò il pubblico con un gesto della mano e un sorriso da divo da cinema americano. A qualcuna piaceva quell’aspetto selvatico e tenebroso, unito ad una buona dose di ironia e solarità.
Però c’erano le camice brune in cima agli spalti, come all’incontro con Seeling. Come ad ogni altro incontro dello zingaro.
Witt grugnì con il suo allenatore. «Questo stronzo crede di essere il migliore. Pensa che nessuno lo possa colpire.»
Johann lo sentì, ammiccò nella sua direzione. Ma sì, in fondo… perché prendersi sul serio? Era sport, bisognava divertirsi innanzitutto.
Suonò il gong. Cominciò l’incontro.
Rukeli schivava con facilità tutti i colpi dell’avversario, rotazioni minime, rapidi movimenti di gambe e di busto. Gli girava un po’ intorno, lo faceva stancare, e poi lo colpiva che neanche lo vedevi. Colpi qua e là, per infastidirlo e innervosirlo, fargli sprecare energie.
Mentre lo zingaro si limitava a non accanirsi troppo, anche se i suoi colpi erano rapidi e duri, Witt si muoveva con ferocia. In ogni colpo c’era una forza bestiale, violenta e piena d’odio.
Alla sesta ripresa, l’incontro si concluse. Parità.
Johann sorrise all’avversario. «Bell’incontro comunque! Complimenti.»
L’altro non ricambiò né il sorriso, né ringraziò, si limitò a guardarlo con disprezzo, e il ragazzo non osò avvicinarsi per scambiare le consuete chiacchiere che tanto amava fare. Non se la prese, comunque.
Non posso mica piacere a tutti.
Poi, nello spogliatoio, Leyendecker prese a togliergli le bende dalle braccia. Gli occhi preoccupati.
«Non prendertela per Witt. Non puoi capire.» gli mormorò.
Il ragazzo alzò un sopracciglio, quasi offeso. Con la mano libera afferrò una mela e la morse.
«E cosa dovrei capire? Che gli ho tenuto testa pur pesando sette chili di meno?» replicò, aspro. Si passò la lingua sui denti. A Leyendecker quel gesto sembrò la minaccia di un predatore a caccia.
«Quelli non giocano, Johann.»
Gli occhi del lupo fulminarono l’allenatore. «Nemmeno io.»
«Sono filo-nazisti.»
Rukeli sospirò dal naso. Improvvisamente, la mela non gli andava più. «Non ha niente a che fare con noi, è solo politica e noi facciamo sport.»
«Promettimi che quando sarà il momento te ne andrai dalla Germania.»
«Perché?»
«Perché sei uno zingaro.»

L’incontro dell’11 dicembre 1932, sempre contro Adolf Witt al Teatro Flora di Amburgo, fu perso da Rukeli ai punti, al decimo round. Anche in quell’occasione c’erano le camice brune che scrutavano dall’alto come avvoltoi.
La verità era che Johann quell’incontro non doveva disputarlo. Era stato chiamato all’ultimo momento perché Kaspar, il reale avversario di Witt, si era fatto male e non poteva combattere. Era toccato a Trollmann sostituirlo, come aveva sostituito molti altri colleghi nel corso di quell’anno.
Fatto sta che non era preparato, non gli andava neanche quella sera, e perse l’incontro ai punti.
Witt era carico di una rinnovata energia, rinnovata sicurezza. Johann sospettò che fosse per via delle camice brune e del fatto che lo zingaro non era affatto pronto per quella serata.
Box-Sport non aveva perso occasione per schierarsi dalla parte del vincitore, sottolineando il temperamento di Trollmann: “T. ha buone capacità e fa belle prestazioni, ma è un pugile instabile e imprevedibile, troppo influenzato dal suo stato d’animo. Contro Witt si è dimostrato un grande sconfitto, senza venir sminuito dai trucchi e le piccolezze che fanno parte di “Gipsy”.”
 
Di ritorno a Berlino, Leyendecker impose a Trollmann estenuanti addestramenti di vuoto. Come se lo volesse punire di una sua mancanza. Ma in realtà Leyendecker ogni tanto lo faceva con tutti, perché un pugile spesso aveva bisogno di ricostruirsi, di tornare sui propri passi e ricominciare dalle basi. E per Rukeli, la base della sua boxe era il vuoto.
Era un maestro nel combattere con le ombre, ovvero “fare il vuoto”. Lo faceva da sempre. Era uno degli allenamenti base di un pugile, aiutava a rendere più rapido e preciso il movimento, e a ricordare che l’avversario più importante da abbattere era sé stesso e le proprie paure.
Passò i giorni che seguirono ad allenarsi duramente. Un giorno portò con sé Ivan Bilda, facendogli provare l’addestramento da professionista e usandolo come sparring partner.
Fu ottimo allenarsi con il colosso cosacco. Gli ricordava Witt nello stile di combattimento e faceva sempre bene allenarsi con avversari del genere. Sia Leyendecker che Zirzow furono felici di avere Ivan alla palestra per gli allenamenti, lo usavano come sparring partner un po’ con tutti ma, per la maggiore, con Johann.
Sperando che gli mettesse a posto quella testa dura.

 
* * *
 
 
Quando aprì gli occhi, le tende erano aperte e il sole baciava la camera. Sulla soglia della porta c’era Frieda, con la sua camicia da notte color perla e un vassoio della colazione in mano.
Johann mugugnò qualcosa e prima che potesse alzarsi, Frieda gli piazzò sulle gambe la colazione.
Gli schioccò un bacio sulle labbra.
«Buongiorno, campione. Ti sei riposato?»
Il giorno prima l’aveva passato in palestra, l’aveva vista solo la sera. Si era stancato parecchio, e si era addormentato subito accoccolato a lei.
Non riusciva a staccarle gli occhi di dosso: gli sembrava bella più che mai, illuminata così dai raggi del sole i capelli le brillavano come oro; poi amava come le calzava quella camicia da notte, riusciva a intravedere l’incavo tra i seni, il punto vita.
Si morse il labbro. «Sì.»
«Bene, perché non voglio sentire scuse. Oggi pitturiamo le pareti.» incrociò le braccia al petto, decisa.
«Niente cavalli?» domandò distratto, mentre spostava il vassoio sul comodino.
Lei scosse il capo, facendo oscillare la chioma. Le mani dietro la schiena come una bambina, il sorriso di chi aveva appena fatto una marachella.
«Ho già preso la pittura, i teli e i pennelli. Consolati. – si avvicinò come una pantera, a carponi sulle lenzuola, fino a sfiorargli le labbra con le sue. – Domani non ci sono, lavoro quasi tutto il giorno, hai la giornata libera per fare lo scapolo a zonzo.»
«Fantastico, almeno non ti ho tra i piedi.» mugugnò ironico, e si leccò il labbro inferiore con un sorrisetto. Lei non fece in tempo a replicare che Johann le saltò addosso, bloccandola sotto di sé.
Frieda scoppiò a ridere e lui le sorrise, furbescamente.

Johann ricoprì tutti i mobili con i teli, mentre Frieda sistemò i fogli di giornale sul pavimento per non sporcare tutto. Riuscirono a rimediare una scala dai vicini per arrivare ai punti più alti.
Dopo un’ora e mezza passata con i preparativi, finalmente aprirono i barattoli di vernice.
Il sinti lanciò un’occhiata critica ai colori scelti dalla ragazza, che sembrava piuttosto fiera delle sue compere.
Aveva scelto un verde brillante per le pareti della cucina, un giallo canarino per il salotto, un azzurro cielo per il bagno. La camera da letto voleva lasciarla bianca.
«La carta da parati non ti piaceva?» le domandò, alzando un sopracciglio.
«Non mi piace quella roba, si scrosta. E dipingere è divertente.» replicò impegnandosi per aprire il primo barattolo di vernice senza troppo successo.
Johann le scoccò un’occhiata divertita. «Ti serve un piede di porco per aprire quell’affare?»
«Cosa fai lo spiritoso? Dammi una mano invece di stare lì a gongolare, accidenti a te!»
Si spartirono i lavori: Frieda la cucina, Johann il salotto. La scala l’aveva lui, perciò quando la ragazza terminò la sua zona di lavoro, Rukeli dovette andare fino in cucina per pitturare la parte alta delle pareti dove lei non era riuscita ad arrivare.
Si beccò anche gli sfottò per questo.
«Certo.. – cominciò, dipingendo con il pennello a rullo. – Che sei davvero una gnoma.»
La schizzò con la vernice verde del pennello e scoppiò a ridere. Frieda stava appostata sotto la scala, le mani piazzate sui fianchi e la faccia contrariata… e sporca di vernice.
Lei mosse leggermente la scala, facendolo traballare.
«Fai la brava.»
«Hai cominciato tu!»
«Gne gne gne.»
Toccò a lei sporcarlo con il pennello sporco di giallo. A causa dell’altezza di lui, sulla scala, il massimo che riuscì a sporcare fu all’altezza delle cosce e fondoschiena. Johann sbuffò dal naso, come un toro.
«Sei un concentrato di malvagità.»
«Zitto, Trollmann, lavora!» gli gridò, dileguandosi verso il bagno per cominciare a dipingerlo.

Finirono nel tardo pomeriggio. Sporchi dalla punta dei capelli alla suola delle scarpe di polvere e colori. Tra il lavoro vero e proprio, si erano anche messi a giocare a schizzarsi con la vernice e si erano sporcati tutti. Erano macchiati di colori brillanti.
I teli sui mobili e i fogli di giornale erano rimasti vittime della loro guerra colorata. Il divano e il tavolo si erano trasformati in trincee per un momento del loro gioco.
Frieda si strofinò il naso con il dorso della mano, perché aveva le dita tutte sporche d’azzurro.
«Ma guarda che hai combinato.»
«Io?! ─ esclamò Johann, si indicò le natiche sporche di giallo. – Sembra che mi sia seduto su un canarino!»
In realtà aveva anche un segno azzurro su una delle natiche, perché Frieda non aveva resistito e gli aveva dato un pizzicotto con le mani sporche.
Lei scoppiò a ridere e lo pungolò sulla guancia, sporcando la sua pelle nocciola di celeste.
«Poteva andarti peggio, potevi sederti su un folletto.»
E stavolta fu lei ad indicarsi il fondoschiena, dove tra i segni di vernice spiccava una manata gialla, dove lui le aveva dato una palpatina di rimando al pizzicotto. Johann sorrise, divertito.
«Diamoci una ripulita. Poi andiamo a mangiare fuori, ti va?»

 
* * *


Si era fatto Natale, infine. Era ancora il 1932.
Avevano occupato il casale nella campagna di Frieda a Schönower Heide. Fuori c’era la neve che copriva i fiori di lavanda e i tetti delle stalle e del fienile.
L’interno del casale era spazioso, quasi totalmente privo di mobilia. C’era una grande sala con solo un tavolo lungo, un vecchio pianoforte e una libreria. Poi c’erano altre quattro stanze molto piccole: la cucina, il bagno, un magazzino, e una stanza con la rete di un letto appoggiata al muro.
Nei giorni precedenti, la famiglia Bilda aiutata talvolta da Johann, avevano sgomberato e ripulito il casale. Il ragazzo avrebbe combattuto il 20 gennaio, poteva stare un mese tranquillo.
D’altronde quell’anno aveva disputato diciotto incontri classificandosi come il pugile più indaffarato di Germania. Nessun boxeur aveva combattuto così tanti incontri in un solo anno. Effettivamente, Johann sentiva un po’ la fatica e i ritmi serrati cominciavano a pesargli sulle spalle, ma da una parte gli piacevano anche. Si sentiva importante.
Nello scenario pugilistico di quegli ultimi anni, e in particolare del ’32, Rukeli era diventato l’atleta più temuto dei pesi medi e mediomassimi. Gli altri pugili cercavano di girargli alla larga, ma non potevano evitarlo. E lui conquistava il ring.
Quella sera della vigilia di Natale, al casale c’erano Frieda, Johann, Edmund e Ivan Bilda, Hildi e il suo nuovo fidanzato Bruno, Kaspar e Gilda, Hans e la sua fidanzata Margarete, Ferdinand e Mausi, Julius e Franziska. Erano tutti vestiti eleganti e se la stavano spassando.
La cena, la birra in abbondanza, i dolci che aveva portato Hildi.
«Fortuna che non li ha fatti Frieda.» commentò Ivan, sperando di non farsi sentire dalla cugina.
In tutta risposta, la ragazza alzò il dito medio nella sua direzione dall’altra parte del tavolo provocando le risate generali.
Hildi era davvero brava a fare i dolci. Inoltre sembrava innamorata e felice con Bruno. Era la prima volta che Frieda la vedeva così presa da qualcuno. Era raggiante.
Si erano conosciuti nella gioielleria gestita dalla famiglia di Bruno, si erano innamorati subito. Lui era ebreo. Aveva i capelli neri, corti sulla testa, gli occhi azzurri e le labbra sottili, il naso un po’ aquilino. Ma aveva un bel sorriso, Hildi era perduta.
Kaspar tirò fuori da una busta di cartone alcuni giochi da tavola e delle carte.
«Strip poker?» propose.
«C’è una sala di là, se ci tieni tanto.» lo rimbeccò Johann, indicando la stanza, stringendo gelosamente il braccio intorno al corpo di Frieda.
Vestiva con un completo bianco e una cravatta rossa per “mostrare il suo spirito natalizio”. Era seduto a capotavola, le gambe divaricate e la schiena appoggiata allo schiena della sedia. Seduta in braccio a lui c’era Frieda, avvolta nel suo abito lungo e aderente, rosso, con lo scollo a barca.
«Io conosco un gioco più carino.» cominciò Mausi.
«Il gioco del silenzio. Preghiamo il santo Natale e Santa Klaus e pure Gesù appena nato.» Johann non perse occasione di fare la sua battuta, rivolgendo i palmi delle mani al cielo e guardando il soffitto come illuminato dall’ispirazione divina. Tutti scoppiarono a ridere.
«Tecnicamente deve ancora nascere.» precisò Franziska, accomodante.
«Insomma, ‘sto gioco?» Lolo incalzò Mausi accarezzandole l’orecchio.
«Ognuno di noi scrive su un foglietto qualcosa. Un personaggio di film, un personaggio famoso, un oggetto, qualsiasi parola. Ci scambiamo i foglietti e ce li mettiamo sulla testa. Chi ha il foglio sulla testa non deve sapere cosa c’è scritto, gli altri devono farglielo indovinare.»
«Bellissimo questo gioco!» esclamò Hildi, improvvisamente su di giri.
Fecero come aveva indicato Mausi e alla fine ognuno di loro si ritrovò brillo e con un foglio appiccicato sulla fronte.
Johann aveva il biglietto di Ivan, con su scritto “Mercurio”. Aveva indovinato subito, quasi non c’era gusto a giocare con lui.
A Frieda era toccato il biglietto di Kaspar, che aveva scritto “Johann Trollmann”. Era stato deciso che se si scriveva il nome di qualcuno presente in sala, non bisognava indicarlo ma cercare di fare indovinare il malcapitato attraverso gesti o indizi confusi. Per complicare la cosa.
«È una scimmia.» aveva tentato Hans.
«Un cespuglio!» fece Kaspar.
«Beh no, non proprio…» cercò di difendersi Johann appoggiando il mento sul pugno chiuso.
«Gambe!»
«Ha un sinistro micidiale.»
«Non sta fermo un secondo.»
«Rompe le palle in modo spropositato.» aggiunse Mauso, dall’altro capo del tavolo.
«Non si è mai spaccato il naso in quasi vent’anni di atti brutali.» le suggerì Johann, lo sguardo eloquente.
«Johann!» indovinò Frieda con un sorriso fino alle orecchie.
«Ah, ce l’hai fatta. – le tolse il foglio dalla fronte. – Stavo per offendermi.»
«Avevo capito quando Hans ha detto “scimmia”, ma volevo divertirmi.»
«Sei un concentrato di malvagità.»


 
 

 
   
 
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