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Autore: Adeia Di Elferas    12/09/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Giovanni si svegliò lentamente, la testa un po' confusa e gli occhi che faticavano ad abituarsi alla luce riverberante che entrava dalla finestra.

Doveva essere già piena mattina e probabilmente quel bagliore insolito era dovuto a tutta la neve che era caduta durante la notte e che ora faceva da specchio al sole dicembrino.

Il Popolano si tirò su a fatica, scoprendosi ancora vestito come la sera precedente, e con tutte le articolazioni dolenti per il freddo preso dormendo scoperto.

Mentre cominciava a cambiarsi, Giovanni ricordò di colpo tutto quello che era successo dopo che era uscito dalla sala dei banchetti. Chissà come mai, nei primi momenti dopo il risveglio, non aveva avuto nessuna memoria di quella notte.

Ma adesso ricordava i baci, risentiva le mani calde e precise di Caterina sulla sua pelle, e rivedeva i suoi occhi che lo fissavano alla luce delle torce.

Si prese un momento per riflettere. Aveva agito d'impulso, la notte prima, senza ragionare su cosa sarebbe accaduto dopo.

Cosa avrebbe dovuto fare, di preciso, quando l'avesse rivista? Che cosa si sarebbe aspettata, lei, dopo quello che era successo? Se n'era già pentita, oppure, come lui, desiderava solo averne di più?

Quando ebbe finito di vestirsi, il Medici uscì dalla sua camera e, colto da un'ispirazione improvvisa, provò a bussare alla porta della Tigre.

Non rispose nessuno. Visto che doveva già essere abbastanza tardi, il fiorentino non si impensierì più di tanto e provò a cercarla in giro per la rocca.

Senza badare al fatto che avrebbe potuto suonare troppo sfacciato, quando si imbatté nel castellano Feo – che quella mattina sfoggiava due pesanti occhiaie e continuava a sbadigliare – l'ambasciatore domandò: “Sapete dove posso trovare la Contessa?”

Cesare masticò a vuoto un paio di volte, già pentito di essere rimasto a sentire i musici fino alla fine quella notte, sottraendosi importanti ore di sonno, e rispose: “Sì, è uscita molto presto, poco prima dell'alba.”

“E dov'è andata?” chiese Giovanni, sulle spine, già pronto a saltare in sella e raggiungerla.

“Nei boschi, credo, ma non mi ha detto dove di preciso. Magari nella sua nuova riserva.” fece il castellano, stringendo un po' gli occhi e fissando le iridi chiare del Popolano: “Fossi in voi, comunque, non proverei a raggiungerla.”

Il Medici deglutì rumorosamente, chiedendosi se quella frase nascondesse qualche velata allusione, ma trovò comunque lo spirito di indagare: “Perché mi dite così?”

“Perché oggi la Contessa è di pessimo umore. Non la vedevo così da parecchio.” rispose il castellano, facendosi pensieroso: “Forse non c'entra nulla, ma per come la conosco, può essere che sia perché sono vent'anni oggi che è stato assassinato suo padre, il Duca Sforza...”

Giovanni si morse il labbro, ragionando su quello che gli era appena stato detto e poi provò a chiedere, con poca convinzione: “Sapete quando rientrerà?”

Il castellano, a cui la Contessa aveva detto che forse sarebbe rimasta a Forlimpopoli un paio di giorni, sollevò le spalle e preferì restare sul vago: “E chi può dirlo.”

Il Medici lo ringraziò comunque e poi, con un crampo allo stomaco che si era messo a torturarlo, preda dei suoi dubbi, si congedò e decise che quel giorno, dopo la Messa, si sarebbe dedicato alla corrispondenza.

L'affare del grano era quasi chiuso e voleva farlo andare in porto il prima possibile.

 

“Avanti, muoviti.” sibilò la guardia carceraria, prendendo Virginio di peso per le spalle.

L'uomo, ormai gracile e indebolito dalle infinite giornate passate nel buio della sua cella, tossì un paio di volte, ma poi camminò da solo.

Era, però, un po' intorpidito e anche la sua mente funzionava a fatica. Si era assopito e il risveglio brusco non aveva di certo aiutato.

Non ebbe nemmeno la prontezza di dire qualcosa a Paolo, o a suo figlio Gian Giordano, che stavano in un angolo, l'uno contro l'altro, nella speranza di scaldarsi un po' a vicenda.

“Da oggi tu starai qui.” disse il soldato, portando l'Orsini in un altro ambiente, un po' più caldo e un po' più luminoso, per quanto altrettanto squallido e inospitale.

“Perché?” chiese Virginio, la voce arrochita dal lungo disuso, le labbra secche e nascoste dalla folta barba e dai baffi lunghi.

“Perché re Federico ha deciso così.” disse il carceriere, richiudendo le sbarre alle sue spalle.

Il prigioniero si mise seduto contro il muro. La guardia stava ancora armeggiando con il mazzo di chiavi e sembrava indecisa se aggiungere qualcosa o meno.

Come se stesse recitando un copione ben studiato, il soldato a un certo punto si voltò e disse, a voce bassa: “Credo che vogliano farti cambiare idea. Se farai in modo di convincere tua sorella ad arrendersi, ti libereranno.”

Virginio fece una mezza risata, che gli percosse il torace, facendolo tossire di nuovo e a quel punto la guardia fece un sospiro, scosse la testa e si allontanò.

L'Orsini chiuse i suoi occhietti azzurri e cercò di respirare lentamente. Non sapeva nemmeno dire che giorno fosse. L'unica cosa che capiva era che faceva freddo. Forse stava perfino nevicando, là fuori.

Appoggiò con un suono sordo la nuca alla parete e si rannicchiò con le ginocchia contro il petto.

Per un uomo della sua età, quella prigionia era troppo. Il freddo, la fame, il dubbio, anzi, ormai la certezza che non sarebbe più tornato a vedere la luce del sole... Era troppo, anche per uno come lui, che aveva sempre riso davanti alla morte.

Sentì lo squittire lontano di un topo, o forse di un ratto. Si guardò in giro, tanto affamato da pensare che anche la carne cruda di quel roditore sarebbe stata meglio di niente.

Però a Castel dell'Ovo anche i ratti sapevano che era meglio stare alla larga dalle celle, soprattutto in pieno inverno.

Infatti Virginio scorse il guizzo di un coda, ben oltre il confine della sua gabbia, e così non gli restò che chiudere di nuovo gli occhi e sforzarsi di pensare ad altro.

La sua mente lo portò indietro nel tempo, a quando era un uomo ancora nel pieno del vigore, capace di guidare un esercito alla vittoria.

Senza preavviso, mentre rimembrava colubrine fumanti e frecce che piovevano dall'alto, si rivide davanti il volto di Caterina Sforza.

Ripensò a quella donna, che quando avevano combattuto insieme aveva una ventina d'anni. La rivide in tutta la sua bellezza e ferocia e poi si ricordò di come l'aveva trovata cambiata, l'ultima volta che le aveva fatto incontrata, a Forlì non molto tempo prima che le uccidessero il suo giovane amante. Quella volta, era sempre bellissima, ma con un guizzo di vita in meno. Come tutti.

Con un sospiro dolente, Virginio deglutì e schioccò un paio di volta la lingua impaniata. Gli permettevano di bere pochissimo. Erano già quasi due giorni che non vedeva un goccio d'acqua.

Troppo stanco anche per disperarsi, l'Orsini si coricò, raggruppato su se stesso per non disperdere il calore e poi, lentamente, si addormentò. Il sonno, quello era l'unico balsamo per la sua anima, ormai.

 

La notte stava scendendo su Forlimpopoli e Caterina teneva tra le mani un calice di vino caldo speziato, mentre fissava assorta il paesaggio innevato che si stagliava oltre la finestra della rocca.

“Non è stato imprudente, venire fin qui con questo tempo?” chiese Piero Landriani, andandosi a sedere davanti al fuoco, anch'egli portando con sé un bicchiere fumante.

La Tigre lasciò la finestra e si andò a sedere davanti a suo fratello. Era poco più che un ragazzo, ma sia il mento squadrato, sia la voce profonda lo facevano già sembrare un uomo.

La Contessa aveva deciso di passare un po' di tempo con lui principalmente per due motivi.

Prima di tutto, il giorno di Santo Stefano le aveva fatto venire un'immensa nostalgia del suo passato e di Milano. Ripensare alla morte di suo padre l'aveva portata a rimuginare anche su quella di Lucrezia e di Bianca e così si era ritrovata a ragionare su come suo fratello Piero non avesse potuto partecipare ai funerali di nessuna delle due.

E, secondariamente, i baci che aveva scambiato con Giovanni le avevano messo addosso una confusione tale che aveva sentito il bisogno di allontanarsi un momento da Ravaldino e ragionarci a mente lucida e senza distrazioni.

Qualche anno prima, non ci avrebbe pensato sopra nemmeno un istante e si sarebbe presa quel che voleva, ma dopo essersi scottata con Giacomo, non voleva più fare un errore simile.

Il Medici poteva anche essere un uomo di valore, gentile e istruito, molto diverso da quello che era stato Giacomo, ma la posta in palio per lei era la stessa.

E non poteva nemmeno sperare che quella con il fiorentino restasse solo un'avventura. Non poteva ignorare la forza di quello che aveva provato, nell'avvicinarsi a lui. Se fosse andata oltre, sarebbe davvero riuscita a darsi un freno e tirarsi indietro, quando necessario?

Conoscendosi, lo dubitava.

A voler proprio essere onesta, almeno con se stessa, poteva dire che la risposta era solo una: no.

“Non nevicava molto. E poi ne ho approfittato per cacciare un po', questa mattina. E poi era da troppo che non venivo qui a Forlimpopoli. Avevo voglia di rivederti e parlare un po'.” rispose Caterina, alzando il calice verso il castellano: “In fondo siamo fratelli.”

Piero sospirò e poi fissò gli occhi sul camino. Quando assumeva quelle espressioni assomigliava in tutto e per tutto a suo padre Gian Piero. La somiglianza con Lucrezia, invece, e quindi anche con Bianca, saltava fuori soprattutto quando rideva.

Da quando la Contessa era arrivata alla rocca di Forlimpopoli, in tarda mattinata, non l'aveva ancora visto ridere, tanto meno sorridere, neppure una volta.

“Mio padre mi ha scritto una lettera molto interessante...” disse a un certo punto Piero, sorbendo un po' di vino speziato e tornando a guardare la sorella: “Dice che quel Simone Ridolfi che s'è sposato con tua cognata ha risolto alcuni problemi che Tommaso aveva nel far quadrare i conti.”

“Davvero?” chiese Caterina, accigliandosi.

Non capiva perché suo cognato non l'avesse avvisata subito. In fin dei conti, Ridolfi non aveva alcun titolo per immischiarsi negli affari di Stato.

“Ha trovato degli ammanchi e insieme a Tommaso è riuscito a sistemare la cosa, a quel che ho capito.” precisò Piero, finendo in un sol sorso il suo calice.

La Tigre lasciò invece il suo sul tavolino accanto alla poltrona: “Potresti scrivere a tuo padre di mandare un resoconto dettagliato anche a me?”

“Nostro cognato Tommaso non ti ha scritto nulla?” chiese Piero, abbastanza interdetto.

Aveva parlato tanto per far conversazione, ma era certo che il Governatore di Imola avesse scritto a Caterina per dirle come aveva risolto il problema.

“Se l'avesse fatto, non te lo chiederei.” fece notare la donna, irritandosi anche con il fratello.

Piero annuì e poi decise di parlare d'altro. Discussero della penuria di grano che affliggeva lo Stato e che, con l'andare dell'inverno, non avrebbe fatto altro che peggiorare.

Solo quando stavano per ritirarsi per la notte Piero trovò il coraggio di fare una domanda che gli grava sul cuore da mesi: “Nostra madre... Ha sofferto?” chiese, in un sussurro, affiancando la sorella, appena prima di lasciare il salottino.

Caterina sapeva che prima o poi o sua madre o sua sorella sarebbero state nominate. Sapeva per sentito dire che Piero era stato furioso, alla notizia della morte di Bianca, tanto che per giorni non aveva nemmeno voluto parlare con nessuno. Quando aveva saputo della morte della madre, invece, aveva reagito come se la cosa non lo toccasse. Forse, aveva pensato la Tigre, il dolore, sommatosi a quello della recente perdita di Bianca, era stato troppo e così Piero non era riuscito a fare altro che andare avanti, come stava cercando di fare lei.

“No, se n'è andata nel sonno.” rispose la Contessa, rievocando con fatica il momento in cui Lucrezia era spirata.

Piero prese aria e poi chinò un attimo il capo, per concludere: “Meglio così.”

Caterina, mossa da un improvviso istinto di protezione per quel fratello tanto più giovane di lei, gli appoggiò una mano sulla schiena e poi gli diede una breve pacca sulla spalla, a mo' di incoraggiamento.

Quando si trovò sola nella sua camera, la Contessa sentì la mente invasa da una serie di ricordi confusi. Le ultime parole scambiate con Piero, poi, le avevano dato il colpo finale.

Anche se per tutto il giorno non aveva fatto altro che ripensare alla morte cruenta e improvvisa di suo padre e – altrettanto spesso – a quello che era successo tra lei e Giovanni, quando si trovò sotto le spesse coperte che suo fratello le aveva fatto portare in camera per affrontare quella gelida notte di neve, la Tigre iniziò a ripensare anche a sua madre, sua sorella e suo figlio. E poi, sempre di più, a Giacomo.

Si girò e rigirò nel letto, chiedendosi come uscirne. Più si perdeva nella sua mente, più la solitudine la dilaniava e la faceva sentire indifesa e inutile.

Si mise a sedere sul letto, quasi decisa a cercare compagnia. In fondo c'erano molti uomini anche lì a Forlimpopoli.

Sparlavano già di lei, perché farsi problemi, se avessero sparlato ancora di più?

Poi, però, si ricordò ancora di Giovanni. Si sforzò di concentrarsi su di lui. Lentamente si rimise coricata e, facendo del suo meglio per non cedere di nuovo a se stessa, affondò il viso nel cuscino e si impose di passare quella notte da sola.

 

Beatrice d'Este si sentiva la testa pesante. Non aveva alcuna voglia di festeggiare il nuovo anno.

Il domine magister si aggirava per il palazzo di Porta Giovia come un pazzo e alla Duchessa tutta quella confusione dava solo fastidio.

Leonardo s'era messo in testa di fare una festa, la sera del primo giorno dell'anno, che avrebbe superato in ricchezza e magnificenza perfino la sua famosissima Festa del Paradiso.

“Tutto bene?” chiese Ludovico, guardando la moglie, quando la vide arrivare nella loro camera, quella sera.

Negli ultimi giorni, dando la colpa alla nebbia ghiacciata che assediava Milano, Beatrice si era fatta di pessimo umore e, anche se su stretto dettame medico non si concedeva da tempo al marito, gli aveva chiesto di poter dormire comunque assieme.

'Per sicurezza' aveva specificato, quando il Moro aveva provato a dire che di certo non avrebbe passato le sue notti con la Crivelli, se era quello che la preoccupava.

La verità era che la Duchessa da un po' non si sentiva bene e aveva paura per il figlio che portava in grembo.

Non ne aveva ancora fatto parola con nessuno, ma le sembrava che si muovesse meno e con meno forza. Pur nutrendo per prima delle perplessità, aveva dato la colpa alle grosse dimensioni del bambino e aveva cercato di non pensarci troppo.

Tuttavia, il suo tempo avrebbe dovuto essere già arrivato, anche secondo la levatrice, e quell'attesa la stava allarmando.

“Ho mal di testa.” rispose Beatrice, raggiungendo il letto e coricandovisi, senza nemmeno far cenno al marito di chiamare le dame di compagnia affinché l'aiutassero a cambiarsi: “E mi fanno male anche le gambe. E poi, oggi, quel maledetto Leonardo non ha fatto altro che andare avanti e indietro come un matto... Mi ha fatto venire lui, il mal di testa, te lo posso assicurare.”

Ludovico sospirò e, chiudendo in fretta la lettera che stava leggendo, le si andò a mettere accanto.

La mattina dopo, il Duca lasciò dormire la moglie, che russava lentamente, e andò a cercare il domine magister.

Siccome era presto, pensò che fosse ancora nelle sue stanze. E così era.

Essendo il padrone di casa, però, Ludovico non si lasciò certo fermare da una porta chiusa e così, dopo aver bussato un paio di volta senza ottenere risposta, semplicemente entrò.

“Oh, per Dio! Rivestitevi!” esclamò, rivolgendosi a un ragazzo che stava vagando nudo per la stanza.

Mentre il giovane, il viso paonazzo, si infilava in fretta e furia i suoi abiti, il Moro lo guardò meglio e lo riconobbe come uno dei nuovi paggi che erano arrivati a corte poco prima delle feste.

Il domine magister arrivò con calma, dalla saletta adiacente, e fece appena in tempo a vedere il ragazzo che scappava fuori veloce come il vento.

“L'avete spaventato.” disse, rivolgendosi al Duca e indicando la porta con un cenno del capo: “Si può sapere che motivo avevate per farlo?”

Ludovico sbuffò: “Sapete benissimo che questo è un reato! In casa mia queste cose non dovrebbero accadere! Se le tollero è solo perché stimo la vostra arte, ma sappiate che sono a tanto così – disse, avvicinando pollice e indice – dall'essere stufo di chiudere un occhio, se non due!”

L'artista sollevò le sopracciglia, indolente e, sistemandosi il camicione bianco dentro le brache, guardò di sottecchi il suo mecenate: “Dunque? Che c'era di tanto urgente per irrompere nella mia stanza a quest'ora, spaventando quel povero ragazzo?”

Il Moro dovette fare un paio di profonde espirazioni, prima di ritrovare la calma. Sapeva che se avesse preso di petto quel lunatico maestro, avrebbe potuto aspettarsi qualsiasi reazione e tutto voleva fuorché indisporre un genio come Leonardo a un paio di giorni scarsi dalla festa che avrebbe dovuto rilanciare la corte milanese agli occhi di tutti.

“Mia moglie si sente poco bene – disse il Duca, trattenendo a stento la voce – dunque oggi vi pregherei di curare i preparativi del ricevimento facendo un po' meno rumore e cercando di darle il minor incomodo possibile.”

Leonardo stava per ribattere con acidità, ma in fondo provava per Beatrice una sincera stima, per cui rispose solo: “Per la Duchessa, questo e altro.”

Ludovico sperò che il domine magister non lo stesse solo dileggiando e, con un'ultima esasperata allargata di braccia, il Duca lo lasciò libero di finire di prepararsi per quella lunga giornata.

 

Era il penultimo giorno dell'anno, quando Caterina ritornò alla rocca di Ravaldino, dopo il breve soggiorno a Forlimpopoli.

Giovanni, che per tutto il tempo non aveva fatto altro che aspettare e curare, finalmente, gli affari fiorentini tramite lettere rivolte a mezza Romagna, fu tra i primi ad accorgersi del suo arrivo.

Il Popolano, dalle merlature prima e dalle finestre che davano sul cortile poi, la seguì con lo sguardo fino a che non le vide lasciare il cavallo nelle stalle. Dopodiché, abbastanza certo che la Contessa sarebbe salita in camera per cambiarsi l'abito infangato e umido messo durante il viaggio, l'attese davanti alla sua porta.

Quando la Tigre arrivò, per un momento restò immobile, in fondo al corridoio, a fissarlo.

Sapeva che, una volta tornata, avrebbe dovuto affrontarlo, ma non credeva di doverlo fare subito.

Con una vaga ritrosia, riprese a camminare, fino a raggiungerlo.

La giornata era pallida e nevicava lentamente. Dalle finestre arrivava una luce fredda e lattiginosa che illuminava gli occhi chiari del fiorentino in un modo così particolare che per qualche istante Caterina non riuscì a far altro che fissarli.

Non c'era nessuno, in corridoio e, anche se qualcuno ci fosse stato, Giovanni sapeva che non sarebbe riuscito a trattenersi comunque.

Fece un paio di passi verso la Contessa, la strinse a sé per un lungo istante e poi la baciò, senza aspettare né un cenno né una parola.

Sentì il sapore del vento e dell'inverno sulle sue labbra e annusò l'odore umido del suo mantello, che si era impregnato di neve lungo il tragitto che da Forlimpopoli l'aveva riportata a lui.

La Leonessa, incapace di resistere, si lasciò catturare da quel gesto, che le parve tanto naturale da non riuscire a pensare che prima di allora Giovanni non l'avesse mai salutata a quel modo, dopo qualche giorno di lontananza.

Tuttavia, dopo alcuni secondi, la donna lo allontanò, con delicatezza, ma anche con decisione, e bisbigliò: “Ma non vedete com'è difficile? Non capite che cosa significa? Non vi rendete conto di cosa potrebbe succedere?”

Il Popolano sapeva benissimo cosa intendeva dire Caterina, ma rispose subito, con una sincerità disarmante: “Non mi interessa.”

La Tigre sentì una della mani di Giovanni cercare la sua, e non gliela negò. Abbassò lo sguardo a fissare le loro dita intrecciate e, come sempre, restò colpita dalla bellezza di quelle del fiorentino.

Gran parte del fascino di quell'uomo, secondo Caterina, stava proprio nell'inconsapevolezza di Giovanni nei confronti della propria bellezza. Il Medici sembrava non capire quanto il suo corpo, pressoché in ogni dettaglio, fosse capace di calamitare l'attenzione di una donna.

Di certo non si considerava brutto, lo si capiva, ma la Tigre sarebbe stata pronta a giurare che il Popolano non fosse in grado di cogliere la forza del proprio aspetto. La sua non era una bellezza prorompente, com'era stata quella di Giacomo, ma leggera e dolce, di quelle che, una volta notate, non smettono mai più di rapire lo sguardo e il pensiero.

“A me interessa, sì, invece.” ribatté Caterina, spostando gli occhi verso terra, in modo da non essere più distratta da altri pensieri.

“A me no.” insistette Giovanni, mentre la sua mano stringeva quella della Contessa con più forza.

“Lo vedete?” soffiò la Tigre, con un debole sorriso: “Alla fine avevo ragione: siete molto più coraggioso di me.”

L'ambasciatore stava per ribattere, ma dei passi in fondo al corridoio indussero Caterina a ritrarsi in modo definitivo ed entrare veloce nella propria camera.

Rimasto là dov'era, il fiorentino allacciò le mani dietro la schiena e accolse con uno sguardo vitreo i due soldati che stavano arrivando dalle scale e che, con il loro passo pesante, avevano fatto scappare la Tigre selvatica.

Stringendo le labbra carnose, Giovanni si mise a camminare. Non aveva una meta precisa, voleva solo liberare un po' la mente.

Checché la Contessa ne dicesse e ne pensasse, ormai il fiorentino era certo che anche lei non potesse più far finta di niente. Però ci voleva pazienza, con lei, una pazienza infinita.

“Tanto posso aspettare. Che altro si dovrebbe fare, se no?” borbottò tra sé l'uomo, attirandosi le occhiate curiose dei due soldati che lo stavano per affiancare.

“Lettera per voi.” disse il castellano, quando lo incrociò, al piano di sotto.

Giovanni la prese e lo ringraziò. Ormai si era abituato alla scomoda prassi di vedersi aprire tutte le lettere da Cesare Feo o da Cardella, ma ogni volta era sempre una cosa spiacevole.

Vedendo che arrivava dai venditori di grano a cui aveva scritto il giorno prima, il Popolano non perse tempo e cominciò a leggerla, non badando agli occhi curiosi del castellano.

“Ottimo.” sussurrò il Popolano, mentre un sorriso abbastanza entusiasta gli si dipingeva in volto.

“Buone notizie, immagino.” disse Cesare Feo, che pur aveva letto la lettera prima del fiorentino, senza però capirci molto.

“Direi proprio di sì.” confermò il Medici: “Quando la Contessa uscirà dalle sue stanze, se la incontrerete prima di me, potreste dirle che la sto cercando e che può trovarmi nella sala delle letture?”

Il castellano aggrottò la fronte, chiedendosi il perché di quella richiesta, visto che l'ambasciatore alloggiava proprio accanto alla sua signora e dunque avrebbe potuto semplicemente bussare alla sua porta.

Tuttavia, avvezzo alle stranezze degli abitanti di Ravaldino, l'uomo fece un mezzo inchino e assicurò: “Senza dubbio.”

Giovanni gli dedicò un sorriso e un ringraziamento e poi, trascinando appena le gambe, raggiunse la sala delle letture, dove si immerse in uno dei tomi lasciati fuori posto da uno dei figli di Caterina, in attesa che la Tigre uscisse dalla sua tana spontaneamente.

 
   
 
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