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Autore: Kanaeregie    13/09/2017    0 recensioni
Un fulmine rosso squarciò il cielo plumbeo di Neft.
L'aria era carica di elettricità statica e di lì a poco quelle nubi minacciose sarebbero esplose, riversando sull'avida terra il loro denso liquido bruno dal sapore ferroso, simile al sangue.
Quella landa desolata, sferzata da forti venti, era totalmente arida.
Non c'era fine ai confini di quel luogo maledetto da dio, o almeno così sembrava a coloro che ivi dimoravano.
Ne avevano fatto il loro regno, poggiante le sue fragili fondamenta su sculture di sale e sabbia.
Scacciati dal Paradiso perché non ne offuscassero la bellezza, avevano richiesto asilo tra le schiere degli Inferi; e neppure lì li avevano accolti, giacché non si voleva che i dannati avessero qualche motivo di vanto su di loro.
I sette angeli più inadempienti.
Un tempo erano stati Sorveglianti, protettori di quelli che, o per tendenza a distrarsi, o per sfortuna, erano un pericolo per gli altri e sé stessi. Ma ora altro non erano che avanzi di una bellezza che si era lasciata corrompere, assumendo fattezze ignobili e spiacevoli a vedersi e con un cuore siderale e torbido.
Genere: Avventura, Azione, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Un vento spietato pungolava il manto degli alti pinnacoli d'alabastro e granito, che si stagliavano fieri oltre le Remote Pianure contro una volta tinteggiata di lillà, ametista e porpora freschi. Un'empia voce sciabordava nei pressi della Fonte Sacra, snodandosi tra le innumerevoli cavità dei Monti Mezzani e il labirinto verde-grigiastro della Labile Foresta.

Yanopolis imporporò le sue candide guance, lasciandosi lambire e vezzeggiare dalle sottili seduzioni del sole; i suoi caseggiati più esterni, dalla base circolare, si attorcigliavano e contorcevano seguendo il tracciato di un'esile spirale aurea che scandiva l'assetto urbanistico della città, protendendosi verso il firmamento con prudenza, per non incorrere nello sdegno delle Divinità Primordiali.

Josyn scostò le pesanti coperte di velluto dal proprio corpo, segnato dalla fatica e dalle innumerevoli degenze, e si diresse verso la terrazza che si trovava sul lato opposto rispetto alla sua alcova dai tendaggi color caramello; una volta all'esterno, si mise in ascolto.

L'eco di un grido agonizzante la raggiunse, gelandole le interiora e corrugandole la fronte: doveva essere stato versato di nuovo del sangue quella notte. Ma di chi?

Qualcuno bussò nuovamente alla porta.

« Entrate. » Asserì con voce suadente l'anziana reggente.

Sir Aaron Limes avanzò nello spartano vano con fare circospetto.

La salita alle stanze della regina gli era parsa interminabile e sconnessa, come un sentiero di montagna costellato di escrescenze taglienti e fossette di terriccio instabile. Più di una volta aveva contemplato l'idea di tornare sui suoi passi e rimandare al giorno seguente quell'incontro scomodo: ma per quanto ancora avrebbe potuto sottrarsi ai suoi doveri?

« Siete voi...» Disse con malcelata delusione Josyn, mentre il gelo insito in quelle parole strisciò sino al petto del sesto principe di Theopolis.

Era rientrata in tutta fretta nella sua fredda e frugale stanza da notte, ravvivandosi i grigi capelli e pizzicandosi le guance per conferire loro un po' di colore; si era perfino premurata di ungersi con i pregiati oli di Aregio le tempie, il fiero collo, l'interno coscia. Ma tutte quelle attenzioni furono mal riposte, perché nella sua stanza non vi era il marito, bensì una delle figure del regno a lei più sgradite.

« Mia signora, porto notizie dalla Labile Foresta, e non sono quelle che vi aspettavate. »

Josyn agitò una mano con indolenza. Era da molto ormai che dalla Labile Foresta non giungevano che sgradite comunicazioni: essa stessa non arrecava altro che danno a Yanopolis, forse sin dalla sua stessa fondazione. I suoi antenati avevano tentato di limitarla o sradicarla del tutto, ma, senza alcun preavviso e contrariamente alla volontà delle Hiso, essa si rimarginava, si cibava dei suoi cadaveri e tornava al suo antico splendore con la stessa rapidità che era stata impiegata nel divellerla.

« Conosco il malaugurio che rechi teco: gli spiriti dei miei antenati mi hanno raggiunta stanotte. Il loro parlare era concitato e confuso, ma il nocciolo del loro confabulare è approdato nella mia mente con estrema chiarezza. »

Sir Aaron Limes distolse lo sguardo puntandolo oltre le vetrate a bifora della camera, al di là delle alte vette dei Monti Mezzani. Nonostante dovesse fronteggiare lo sdegno della sovrana ogni giorno, non riusciva ancora a restarne del tutto indifferente: c'era un che di disumano nell'odio che quella donna nutriva per lui.

« Gradito sia il loro riposo e possa il loro verbo dispensare consiglio. Tuttavia, vorrei riportare la vostra attenzione, mia signora, su qualcosa di più concreto. — chinò il capo, sfuggendo prontamente gli occhi di Josyn e l'imminente saetta smeraldina che ne sarebbe scaturita — Certo è che qualcosa di sinistro si muove nei meandri della Labile Foresta, qualcosa di sfuggevole. In aggiunta, i Totem presentano un che di insolito, mia signora: non più pietra, ma tessuti molli e derma li costituiscono; alla base protuberanze membranacee, affondando nel terreno come radici, hanno preso a nutrirsi della linfa della foresta. Vi è una moria di fauna e flora: le betulle stanno seccando in alcuni punti, mentre la palude ha preso ad avanzare nell'entroterra. Ormai ne siamo più che certi. I boscaioli inviati ad indagare sulla questione non hanno più fatto ritorno. Alcuni di loro.. »

Sir Aaron Limes tacque, non sapendo se proseguire o porsi un freno, onde evitare di essere ulteriormente detestato.

« Parlate, di grazia! Il vostro silenzio non è di alcun aiuto: solo i morti ne possono fruire e io non seggo fra loro. »

Sir Aaron Limes annuì: non era il caso di stuzzicare il crescente nervosismo della regina, fingendo una timidezza dettata dal riguardo, tanto più se si trattava di una questione così delicata e spinosa.

« Alcuni usignoli, mia signora, hanno asserito con convinzione che qualcuno di quei Totem era plasmato con le membra degli stessi boscaioli che avevamo inviato ad indagare. Un che di raccapricciante, sostengono. Altri affermano di aver visto spettri neri come pece liquida fattasi foschia aggirarsi nei meandri della Labile Foresta e cibarsi di quella polpa che ora ricopre i Totem. »

Josyn annuì con poca convinzione: non erano altro che dicerie dopotutto, non c'era motivo di darsi tanta pena per illazioni di povera gente spaventata, ma doveva esserci un che di veritiero dietro quelle cronache ogni volta sempre più simili e ricorrenti.

La sovrana si volse, accennando un debole cenno del capo verso il suo interlocutore, riconoscendo l'ottimo lavoro svolto da Sir Aaron Limes.

Un figlio germogliato nel suo grembo dal seme di suo marito era ormai del tutto improbabile, soprattutto vista la sua decisione anni prima di assumere la Mirra Bianca, un infuso ottenuto dalla pianta grassa Cecidi, nota per le sue proprietà sterilizzanti; la sua speranza, quindi, era del tutto riposta in Lord Minsan Inari e il suo nugolo di spie, incaricati anzitempo di rimediarle un giovane erede ch'ella potesse adottare, lasciando fuori dalla linea di successione Aaron Limes ed evitando così che la casata dei Runheim salisse al trono di Yanopolis.

« Vi ringrazio, Sir Aaron. Siete stato impeccabile, come sempre del resto. »

Il ragazzo s'inchinò lievemente e si avviò verso la soglia con passo sollecito. Il colloquio si era concluso in maniera piuttosto pacifica, suo malgrado, il che era piuttosto raro, data l'animosità che la sovrana serbava nei suoi confronti.

Poco prima di serrare la porta, il principe corvino sostò ancora un poco in quella stanza che aveva avuto modo di aprezzare lungamente da infante, quando non era ancora il favorito del re. Ricordava quel persistente odore di mele caramellate e quelle spezie dall'aroma così pungente, da fargli prudere le narici.

Ricordava anche il volto di Josyn: molto più disteso e caloroso, con quei due frammenti di smeraldo nelle orbite oculari sì fulgidi da rammentargli la quiete ottemperata in un qualche ignoto miraggio desertico.

Josyn apparteneva alla vecchia generazione di Iso, il cui colore degli occhi era sempre stato connotato da molteplici sfumature di verde, mentre gli occhi di Aaron, esponente della nuova leva della Città di Vetro, erano tinteggiati delle più amabili e lievi striature rosee, a causa di un'epidemia che si era abbattuta sulla popolazione diversi decenni prima, durante il regno di Wilfred e Avia.

La canaglia del sud, com'era stata soprannominata la sovrana in gioventù, da tempo immemore non sorrideva, da tempo immemore non lo accoglieva sulle sue ginocchia, narrandogli sottovoce le leggende sull'Irresistibile Ascesa delle Iso; da molto tempo non gli scompigliava i capelli con occhi amorevoli e con mani colme di affetto nei suoi riguardi.

Un paio di anni prima, durante la Festività dei Malamori, quando Aaron aveva vent'anni e il suo corpo aveva lasciato la muta di adolescente per sostituirla con la dura scorza segnata dai combattimenti di un giovane uomo, tutto era mutato.

Caden lo aveva sempre amato come un figlio, cresciuto come sangue del suo sangue, nonostante non fosse, agli occhi dell'Enclave, un comportamento consono ad un sovrano e dopo la scomparsa nella Labile Foresta del suo primogenito Rumiz si era sempre chiesto a chi lasciare il trono una volta fosse stato pronto a farlo; e la scelta era caduta su questo giovane ostaggio di Theopolis, dalla mente affilata come una vivace e dalle maniere raffinate.

Di numeri di rinascite ne aveva parecchi, più di settanta ed era parso il candidato più promettente per colmare il vuoto della sua imminente Dissolvenza.

Durante le celebrazioni, quindi, il re era balzato sulla tavolata reale, tra gli applausi dei presenti, e richiamando a sé l'attenzione dei medesimi, aveva scandito loro il suo annuncio, certo di cogliere tutti di sorpresa. E infatti così fu, ma certamente non si sarebbe mai aspettato la reazione della moglie, la quale inorridita per quanto appreso poc'anzi, aveva lasciato in tutta fretta la ricorrenza, il volto livido e le labbra tremanti.

Da allora Aaron era stato trattato con freddezza dalla regina e, di riflesso, anche dai suoi cortigiani, i quali presero a scansarlo o a simulare la sua inesistenza, ferrei e determinati a seguire le mosse dei reganti per non incorrere nel loro sdegno: la Guillotine era stata abbandonata non appena Caden era salito al trono, succedendo a suo padre Benedict, ma il terrore che aveva impresso nella memoria del popolo era tale da suscitare nel medesimo ancora un senso di incondizionata devozione.

E così Aaron si era ritrovato solo ed odiato da tutti in poco meno di una sera, prigioniero in una fortezza nemica in cui non vi erano volti benevoli al suo passaggio, ma solo parole acuminate e occhiate beffarde.

Aaron si premette con forza una mano sul petto, mentre le crepe si tramutavano in voragini all'avanzare del logorio della sua afflizione. Non si era più sentito integro, ma come un tozzo di pane inzuppato lungamente in troppo latte che finiva poi col sciogliersi e scomparire.

« Aaron? »

Il ragazzo si riscosse dalla trama dei suoi pensieri e fu sorpreso d' essere chiamato ancora una volta per nome: la sovrana aveva dismesso quella nomea nella medesima notte in cui si era consumata la sua rovina.

« Nulla, mia signora. » E similmente prese infine congedo con un profondo inchino ed si allontanò da quel luogo ormai prigioniero del tempo e della memoria.

✿✿✿

Josyn, al calar delle ombre, si risolse di abbandonare i propri alloggi – la mente ottenebrata da un cattivo presagio. I vecchi Totem della Labile Foresta, le continue sottrazioni e il progressivo aumento delle temperature l'avevano messa sull'attenti. Decise di scendere alla Rupe del Pianto per controllare l'operato dell'Enclave e per prendere visione del Motore Immobile.

In gran segreto, ella aveva raggiunto il ricovero della chiave – la Matrice Univoca – atta a dischiudere la soglia di quell'anfratto quasi ultraterreno e l'aveva prontamente celata entro le pieghe delle proprie vesti, dacchè era conscia che creature ben lungi dall'esser misere canaglie o affabili perditempo ne erano alla costante ricerca, per conto di entità ancor più malvagie, il cui tempo si stava abbreviando.

L'Enclave era un'entità dalle pretese religiose, ma dall'agire piuttosto terreno: costituito da quattro membri, i primi due appartenenti a due potenti casate di Yanopolis, mentre il terzo proveniente da Theopolis e il quarto da Clempolis, quest'ultimo regolamentava la vita pubblica del regno, designando i retti confini tra sacralità e blasfemia in una maniera del tutto peculiare.

Cavatisi gli occhi come segno di rifiuto di ogni desiderio terreno connesso a quel senso, i quattro erano scesi alla Rupe e da lì non si erano più allontanati.

Josyn impiegò svariate ore nella sua discesa verso il punto più remoto della città, dove l'estremità ultima della Città di Vetro si specchiava nell'abisso conducente alla Superficie, realtà sì discosta da quella delle Iso da essersi tramutata nel corso dei secoli, e tramite memorie orali, nella stessa materia di cui sono fatte le leggende.

La Rupe si trovava al di là di una lunga e stretta scalinata di pietra, che il lento incedere di molti passi aveva levigato nel corso dei secoli, scolpendola nella dura roccia del Solco dei Sogni.

Gli ultimi gradini furono i più faticosi da percorrere: composti rispettivamente di ceramica, bronzo, metallo di Clempolis e marmo della Riluttanza, simboleggiavano i quattro stadi di pentimento che l'anima umana doveva percorrere per poter oltrepassare la grande porta d'ottone massiccio, posta a difesa del Motore Immobile.

Umiltà, esame di coscienza, ammissione, riparazione erano presupposti necessari per accostarsi alla Porta dell'Amnistia; nessun individuo che non fosse stato chiarificato nell'intelletto avrebbe potuto superare la soglia, questo intimavano le iscrizioni in oro poste sulla sommità della stessa.

La Matrice Univoca scintillò, percependo il potere di quel luogo sacro. Essa era una pietra lavica nera come il Lago Opalino, ai piedi dei Monti Mezzani, di forma ovoidale, con lievi pallide screziature sulla superficie liscia.

Josyn la appressò alla sua collocazione, ovvero una cavità, posta poco sotto l'equatore della porta, dove si trovava la Lacrima di Mynis, un'antica fenice che alla testa di un nugolo di consorelle diede la vita per proteggere il Motore Immobile, dopo l'Irresistibile Ascesa.

Una volta incastonata, la pietra emanò un bagliore accecante, che corse come linfa sospinta con violenza in stretti capillari lungo le crepe della porta, azionando i suoi pesanti ingranaggi. Josyn osservò il sole precipitare all'orizzonte, in coincidenza con la fusione di milioni di rubini e ametiste che adornavano il firmamento.

L'ultimo raggio di luce, simile ad una folgore stellare, si levò sulla Rupe, colpendo la Lacrima e ordinando così l'apertura della soglia.

Josyn avanzò nella mezzaluna di marmo, dove rune e glifi dorati serpeggiavano in una danza proibita sul candido marmo. Un parapetto ligneo cingeva i fianchi dell'estremità che cadeva a precipizio sulla Superficie: gigantomachie di fenici e lupi sembravano sul punto di stracciare le sottili tele legnacee in cui erano imprigionati e avventarsi su qualunque cosa si fossero trovati di fronte.

« Maestà. » Una voce metallica, stridente, ma fin troppo untuosa raggiunse le orecchie di Josyn.

Da una piccola scaletta a chiocciola posta sul margine sinistro della piazzetta, fece il suo ingresso Parmenid, seguito a non poca distanza dai suoi confratelli.

Indossavano delle pesanti toghe bianche, i cui bordi erano rifiniti con tocchi di colore secondo il gusto o la casata del possessore. Il frusciare delle vesti cerimoniali, copriva il ciabattare dei calzari di cuoio e sughero, spartani e all'apparenza non molto confortevoli.

Essi avevano una piccola aureola dorata sul capo, di preziosità e raffinatezza, oltre che colore, diversi a seconda del grado di importanza del membro nell'Enclave: sì che Parmenid indossava un'ellisse di platino, con delle lievi incisioni a forma di foglia, in quanto il più anziano del gruppo.

Pitagor ne indossava una dorata, con piccoli cervi scolpiti su di essa, mentre Talet ne recava una d'argento massiccio, con motivi floreali; per ultimo, Epicur, l'ellisse del quale era di bronzo con contaminazioni argentee, un nugolo di usignoli cinguettanti in un immobile silenzio sulla sua superficie.

« A voi, la vampa del tramonto. A voi, signori, l'indulgenza del mattino. Il Motore ha forse dispensato qualche veduta del nostro destino? »

« Affatto, mia signora. - disse con finta noncuranza Pitagor - Aldhor e Aregio non potrebbero essere più rigogliose e bucoliche di così, né maggiormente floride negli introiti.»

I quattro saggi sedettero sui rispettivi scranni, lasciando la sovrana in piedi come di consuetudine.

Pitagor non si aspettava una visita della regina né la desiderava: era certo che Josyn avrebbe complicato le cose in modo irreparabile, interessandosi così intensamente alle vicende del regno.

« Conosco l'attuale situazione del mio regno; se così non fosse, altri sederebbero dove io sono. Pitagor, credevo avessimo stabilito di essere cordiali e sinceri l'uno con l'altra, la penultima volta. Soffrite già di vuoti di memoria? Se è così, temo che saremo costretti a destituirti dal tuo incarico.. – Sebbene non fosse un affondo particolarmente doloroso, Josyn si concesse comunque di apprezzare lo scorcio d'irritazione che solcò il sembiante altrui. – Sono certa che il Motore abbia parlato: la tempistica non erra in proposito."

Parmenid si levò in piedi e si appressò alla sovrana. Nonostante l'evidente cecità dovuta alla mancanza di bulbi oculari, egli poteva ancora ricordare la dolcezza di quella carne saggiata nella prima giovinezza, quando Josyn era poco più che una fanciulla. Rammentava, di conseguenza, assai bene ogni increspatura su quel viso severo; ogni crepa in quell'intrico di carne e derma ch'ella era.

« Non abbiamo nulla da riferirti, Josyn. Mi rendo conto che dopo un viaggio così lungo ed estenuante, tu voglia certamente una qualche compensazione per non aver il sentore di aver faticato inutilmente, ma ahimè.. — Parmenid le disse, cercando variazioni nel suo battito così come nel suo respiro, che gli svelassero la menzogna dell'ostinato silenzio altrui. — Come puoi constatare, noi non disponiamo di tutte le risposte. Il Motore Immobile mostra solo una piccola tessera del puzzle alla volta e noi ci premuriamo di annotarla e sommarla alle altre che sono già state raccolte dai nostri predecessori, ma non può essere forzato a mostrare di più e il suo lascito non è sempre chiaro. Tutti quei codici, quegli stralci di quotidiano, quelle sagome... Non è affatto semplice, mia cara. Non attardatevi, quindi, in mansioni che non vi competono e di cui non conoscete l'insieme: non è decoroso lasciare il popolo incustodito. Potrebbe scoppiare una rivolta.. O magari più d'una. »

Josyn gli rivolse un'occhiata gelida, quanto lapidaria, mentre si allontanava a passo svelto alla volta della Torre d'Avorio, la residenza reale – le labbra distorte in una nuova posa scomposta e iraconda.

L'ostinazione dell'Enclave nel cercare di deviare la sua curiosità, aveva sortito l'esatto opposto: c'era qualcosa che quei vecchi saggi non le stavano dicendo e Josyn era certa che il tempo delle risposte non si sarebbe fatto attendere a lungo.

Sulla via del ritorno, incontrò un'informatore di Lord Minsan Inari, che le riferiva di aver trovato i due fanciulli richiestigli; li aveva nascosti nelle segrete, lontano da occhi indiscreti, in attesa di un suo parere affermativo e del suo compenso per il lavoro svolto.

« Fate strada, Nightingale." proferì con voce infiacchita dalla fatica della risalita, seguendolo a breve distanza.

✿✿✿

Un miasma cinereo si innalzava in ingenti volute grigie oltre i grandi portoni della città, mentre brandelli di costruzioni di pietra rovinavano a terra con tonfi sordi e il crepitio delle fiamme, che divoravano il legno degli infissi in un insaziabile ricerca di nuova sostanza da dilaniare, si diffondeva da ogni cantone, in un crescendo di suoni agghiaccianti.

L'antica città, dopo migliaia di anni di storia si piegava sotto i colpi di un nemico astuto e ben equipaggiato.

Un forte boato squarciò la grande spirale dorata, facendo sussultare gli edifici del centro città in una danza macabra e fatale.

La Torre d'Avorio, pietra della pietra, che con un sinuoso avvitamento intorno al torsolo della costruzione stessa si protendeva verso il cielo soprastante in una silente preghiera, era caduta, distruggendo gran parte degli stabili che la attorniavano, – gran parte dei quali erani adibiti all'esercizio del potere del popolo e dei patrizi dell'isola.

All'orizzonte banchi di nebbia carichi di insidie si addensavano e strisciavano celermente lungo le Remote Pianure, dirigendosi verso Yanopolis, antichissimo presidio riconvertito a capitale del microcosmo delle Hiso; esse non avevano nulla di naturale, essendo distante la stagione del loro consueto sopraggiungere, e presagivano che qualcosa di terribile si celava al loro interno.

Nei vicoli dilagava il panico.

Gli abitanti della città correvano alla cieca, le braccia protese in avanti per scostare quanti intralciassero loro la fuga, incuranti di travolgere conoscenti o persino amici. Le urla dei feriti saturavano l'etere, ignorate dalla calca che, atterrita, li calpestava senza alcun riguardo, spinta dalla brama di vivere che affligge le entità mortali. Ma ormai era tutto inutile.

Dong. Dong. Dong.

Feroci colpi, come un pesante metallo che batte su legno, aprendo nella sua corazza elastica crepe più o meno visibili dall'esterno.

Gli ultimi atti di una tragedia che aveva avuto origine diversi anni prima da un piccolo ingranaggio diffettoso in quell'organismo perfett; la venuta del lampo, prima dell'incedere del tuono.

Infine, un boato.

La terra si arrese a quella calamità e parte di essa rovinò qualche kilometro più in basso, portando con sé una buona parte delle Hiso.

Il flagello prese finalmente corpo, palesando alle sue vittime il sembiante umanoide che le tenebre avevano celato sì lungamente e con estrema perizia.

Questi si avventarono sulla folla, falcidiando uomini e donne, anziani e bambini, senza distinzione alcuna né pietà. Il sangue stillava dalle profonde ferite e defluiva lungo i canali di scolo, tingendo la via principale di Yanopolis in un tripudio di tramonto e inferno soluti assieme.

I corpi si accatastavano gli uni sugli altri, nei volti si scorgeva solo il terrore, – gli icchi vitrei, eterni spettatori di quel massacro senza precedenti; alcune bocche dischiuse nel loro ultimo grido. Le creature ostili proseguirono la loro irresistibile avanzata, frugando ogni via secondaria, ogni nascondiglio, alla ricerca di eventuali superstiti da mietere.

Al sicuro in una bastiglia sita sui Colli Euganei, sorgenti al di là delle Remote Pianure, nei pressi di Lago Opalino, Josyn aveva veduto la venuta della fosca marea, la caduta del lato ovest, la desolazione delle strade.

Inspiegabilmente sorrise. Un sorriso amaro, ma vittorioso. Sapeva cosa stavano cercando. E che non lo avrebbero mai trovato.

L'anziana regina rientrò nelle sue stanze, accomodandosi con eleganza su un enorme letto a baldacchino, di natura e fattezza ancor più spartana rispetto a quello in cui era solita riposare nella Torre d'Avorio: d'altronde, si trovava in una roccaforte di uso militare, dove civili come lei non erano ammessi di norma; e dove l'agiatezza lasciava spazio al rigore e alla moderazione.

Percepì, ancora prima di vederla, la presenza che si era imposta nella sua camera e che poi le si stagliò di fronte, con arroganza e trionfo.

« Ed eccoci qui, madre. Mi dilungherei volentieri in convenevoli, ma temo che il tuo tempo sia inevitabilmente giunto al termine. »

« I convenevoli non sono mai stati il tuo forte, figliolo, ed era questo che mi piaceva di te. Scorza dura, animo onesto.. La gente del sud ha sempre saputo il fatto suo. » ribatté la donna, alzando gli occhi sull'imponente creatura davanti a lei. Eccolo lì, Rumiz, o quello che ne restava. Il suo amato primogenito scomparso nella Labile Foresta era tornato in una veste inquietante e ripugnante alla vista. Ed ella provò ribrezzo per quello che era diventato. Immortale certo, ma a che prezzo? I suoi contorni erano indefiniti, sfumavano da qualcosa molto simile alla carne al nulla. Non era più niente di definibile, tenuto ancorato alla vita solo da un vincolo perverso stretto con maligni ancor più corrotti nelle spoglie. A ogni passo pareva essere sul punto di andare in pezzi e poi dissolversi. Era uno riflesso di ciò che era stato; un semplice burattino di coloro che l'aveva reso tale.

« La gente del sud di cui parlate, madre, non esiste più, se non nelle vostre nenie d'infanzia. Ma non abbiate timore: presto li raggiungerete, come da copione. » replicò lui di rimando, con la sua voce beffarda striata di disprezzo.

« Quindi siamo ad una recita? – E sebbene la frase in sè avesse una certa dose di ilarità, Josyn mantenne il suo cipiglio severo, inflessibile anche dinnanzi al rifiuto del figlio. – E che parte ti è stata assegnata, se posso chiedere? In fin dei conti, non sei mai stato un buon attore, ma nessuno te ne ha mai fatto una colpa: ad ognuno i propri talenti, no? »

« Non starete cercando di ritardare il momento della tua morte non è vero, madre? »

« No, figlio mio, quello l'hai fatto tu. » sospirò la donna, rassegnata.

Una smorfia iraconda deformò il volto scavato di Rumiz, sul quale le ombre si addensarono prontamente, celando allo sguardo le membra liquefatte che si frammentavano e ricomponevano in un ciclo perpetuo; egli calò poi la mano destra sulla figura materna, aprendo una sottile fenditoria nella sua gola, da cui zampillò un cospiquo fiotto di sostanza vermiglia. 

La sovrana ricadde sul materasso retrostante, senza un lamento, mentre una rosa di sangue andava spandendosi intorno al suo collo robusto, via via più candido all'avvanzare del gelo mortale.

Rumiz si chinò a pochi centimetri dal volto di sua madre, per prendere atto della sua effettiva dipartita dalla vita e, al contempo medesimo, dalla reggenza della città, la quale sarebbe caduta inesorabilmente sotto il giogo dei conquistatori – impazienti di scendere alla Rupe per appropriarsi del Motore Immobile.

« Dove si trova la Matrice Univoca, madre? Siate clemente e risparmiate ai superstiti il salasso di una spedizione punitiva volta a scovare l'atefatto da voi nascosto.. »

Josyn annuì, sebbene a fatica, e si discostò leggermente dalla superficie del letto con il torso. Rumiz dovette credere ch'ella volesse rivelargli quanto gli premeva conoscere, ma Josyn aveva un ultimo dono per il figlio, ben diverso da quello che si attendeva: facendogli cenno di appropinquarsi così da potergli sussurrare all'orecchio la sua destinazione ultima, quand'egli si fece più prossimo al suo volto, ignaro delle sue intenzioni, la sovrana lo prese tra le sue braccia in un apparnte gesto affettivo, la cui valenza, però, era puamente costrittiva.

Le sue labbra screpolate e rugose si sigillarono su quelle del figlio, malgrado la sua smodata riluttanza, inalando la sua anima dentro di sè secondo un'antica formula donata alle Hiso dalle Albine, fenici dal piumaggio candido come le saliere di Aldhor, vissute sui Monti Mezzani secoli prima, secondo cui, solo per personale tutela, coloro che condividevano lo stesso sangue potevano incapsulare ed infine annientare un porzione o l'interezza dell'anima di un parente, esaurendone le unità di rinascita. 

Josyn si contorse e tremò in maniera febbrile. Era in atto al suo interno una lotta intestina tra la sua anima e quella di Rumiz, il quale premeva contro la cortina spessa del derma di lei per trovare una via di fuga – acceccato dall'odio per quella donna e che, nuovamente, era stata capace di raggirarlo e umilarlo con astuzia. 

Filamenti foschi tentarono di fuggire dalle sue orbite oculari, dalle orecchie, dalla bocca e da qualunque altro anfratto che lo consentisse, ma Josyn lo impedì, con quanto le restava di quel potenziale fisico che l'aveva sempre contraddistinta; ed ottenne l'annientamento del figlio, il cui decesso fu annunciato al mondo circostante da bagliori improvvisi e repentini, facilmente dinstinguibili in quella città dove le tenebre si spartivano i quartieri meglio illuminati. 

La canaglia del sud si arrese alla sua Dissolvenza con il sorriso sulle labbra: l'Enclave era stato furbo, ma lei ancor più.

 

✿✿✿

 

L'oscurità aveva ormai abbandonato da ore Yanopolis, lasciando dietro di sé solo un cumulo di macerie e cadaveri. 

Una bambina trascinava per mano il fratello assonnato sulla via principale. Era scalza, il sangue che stillava dai tagli sui piedi si mescolava a quello che già imbrattava la strada. Ma il dolore causato dai vetri rotti non era nemmeno lontanamente paragonabile a quello che avvertiva al suo interno: aveva gli occhi sbarrati, troppa era la morte che aveva visto in quelle ore terrificanti. Nella mano destra stringeva spasmodicamente una pietra nera, emanante una debole stilla di luce – unico conforto in quell'etere saturo di perdizione e sfacelo. 

Non poteva sapere quanto fosse prezioso quel manufatto sì singolare; sapeva solo che la regina in persona gliela aveva affidata, con un nota dai toni gravi: "Proteggi sempre la Matrice Univoca. Proteggi sempre il nostro avvenire.", prima di nasconderla in un rudere, sito nel fitto dei giardini reali, e distogliere l'attenzione dei Carestidi da lei.

L'ultima atto d'amore di quella figura legendaria era stato di una gentilezza immane e rivolto nei suoi riguardi, senza ch'ella avesse fatto nulla per meritarlo. 

Un'unica lacrima le solcò la guancia e poi, internamente, qualcosa si spezzò.

Le gambe le cedettero e si ritrovò a terra, inginocchiata nei calcinacci e nel sangue, mentre le sue palpebre si socchiudevano per la fatica.

« Elef! Elef! » strillava in lacrime Aethalas, scuotendola lievemente, cercando la mano della sorella a più riprese e la quiete che solo la stretta di quest'ultima avrebbe potuto offrirgli in cambio della sua vicinanza.

Elefthalia stringeva ancora al petto la Matrice, penultimo dono di Josyn. L'ultimo era stato la vita.
 

   
 
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