Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Adeia Di Elferas    13/09/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 

“Ovviamente quello che mi state proponendo mi interessa.” disse la Contessa, cercando di fare attenzione alle parole: “Tuttavia, sareste un autentico sciocco a prendervi gioco a questo modo di Firenze. State giocando con il fuoco e sembrate non rendervene nemmeno conto!”

Giovanni, che aveva dovuto aspettare quasi tutto il giorno, per poter parlare da solo con Caterina, si massaggiò il collo e sollevò un sopracciglio: “Quello che ho riferito e che riferirò a Firenze sarà ben diverso da quello che sto facendo in realtà. Con voi parlo chiaro, ma con la Signoria non sono altrettanto sincero. Se lo fossi, mi avrebbero già rimesso in cella, probabilmente.”

“Resta una mossa insensata.” ribadì la Tigre, lasciando la poltrona su cui si era accomodata all'inizio, ed evitando di fare domande su cosa intendesse di preciso il Popolano con quel 'rimesso'.

La sala delle letture era calda e accogliente, con il camino acceso e qualche cosa da mangiare sul tavolino, assieme a una brocca di vino.

Quando il castellano le aveva detto che il Medici la stava aspettando, la Contessa aveva preso tempo, prima di presentarsi, convinta che quell'uomo volesse ancora cercare di convincerla che per loro una speranza c'era. Si era attesa – o forse aveva addirittura sperato – di essere accolta con un altro bacio, simile a quello che si erano scambiati al suo ritorno a Ravaldino.

Invece il Popolano l'aveva salutata in modo molto pacato, partendo subito con l'esposizione del suo piano, parlandole con la stessa franchezza e semplicità che aveva sempre usato, come se tra loro non fosse cambiato assolutamente nulla.

“Seimila corbe di grano non sono uno scherzo. Se Firenze le vuole per sè, dovete lasciargliene almeno una parte.” continuò Caterina, scuotendo lentamente il capo: “Non potete far finta che quel grano sia mio, comprato coi miei soldi, e che voi non siate riuscito a mediare l'acquisto. Se continuerete così, finirà che vi richiameranno a Firenze e che qui manderanno qualcun altro...”

Giovanni si passò le dita sulla fronte. Non poteva negare che il rischio fosse concreto, ma non gli importava. Sapeva come muoversi, sapeva come convincere la gente. Era un Medici, qualcosa voleva pur dire.

Il ginocchio e le caviglie lo stavano tormentando in modo severo da un paio d'ore, ma voleva restare concentrato su qualcosa di completamente diverso. Se avesse lasciato spazio al dolore fisico, non ci sarebbe stato più altro.

Così, pur restando seduto in poltrona, una mano che passava distrattamente sul ginocchio di quando in quando, il fiorentino assicurò: “Partirò il prima possibile per portare a termine la transazione. Quel grano sarà vostro e di nessun altro. Non voglio nulla in cambio. Il vostro Stato ne ha bisogno e nessuno vi farà credito. Se non lo accetterete da me, adesso, come farete a passare l'inverno senza che scoppino dei tumulti per la fame?”

“Ma Firenze vuole il grano tanto quanto lo voglio io. Come giustificherete il fatto che a Forlì sono passate sotto al vostro naso seimila corbe di grano e voi non siete stato in grado di comprarne nemmeno mezza?” fece la Contessa, piantando i pugni sui fianchi e mettendosi a fissarlo.

“Questi sono affari miei.” ribatté l'ambasciatore, quasi perdendo la pazienza: “Voi dovete solo dirmi questo: il grano lo volete oppure no?”

La Tigre fu tentata di dire di no. A quel modo, forse, avrebbe ferito l'orgoglio di Giovanni, che sembrava tanto fiero di aver trovato quell'affare, e così l'avrebbe davvero indotto a consegnare il grano a Firenze, così come la repubblica aveva richiesto.

Invece, vinta dal bisogno urgente sia di sfamare il proprio Stato, sia di ritrovare il favore popolare, abbassò le spalle e cedette: “Lo voglio, quel grano.”

Il Popolano fece un sorriso e si alzò, puntellandosi sui braccioli della poltrona: “Molto bene. Non mi resta che chiudere l'acquisto, allora. Partirò appena dopo Capodanno.”

L'uomo si fermò davanti a Caterina e squadrò il suo viso. Parve sul punto di provare a baciarla, ma poi, con un soffio che sapeva di risata strozzata, incrinò le labbra e rinunciò.

La Contessa lo guardò uscire, vedendo il modo abbastanza vistoso in cui zoppicava. Avrebbe voluto fermarlo, dirgli di non partire, soprattutto se non stava bene.

Però, per lei era una sensazione così nuova, quella di sentirsi sostenuta e aiutata in modo tanto disinteressato e puro, che non ebbe il coraggio di fare altro, se non rimettersi seduta a fissare il camino e bere un calice di vino, evitando in ogni modo di fermare lo slancio altruista di quello strano fiorentino.

 

Il 1497 era iniziato da poche ore e Beatrice le aveva trascorse quasi tutte in preghiera, sulla tomba della sua adorata amica, Bianca Giovanna.

La chiesa di Santa Maria delle Grazie era avvolta nel gelo e il vago sentore di incenso, rimasto dalle celebrazioni della notte appena passata, faceva pizzicare il naso della Duchessa, che doveva trattenersi di continuo dallo sternutire.

La fredda pietra tombale che copriva i resti di Bianca Giovanna riluceva immobile sotto le candele che Beatrice aveva personalmente acceso. Tra il freddo e il silenzio, era come se da quell'avello la voce della morte cercasse di parlare con la giovane moglie del Moro per rivelarle qualche segreto inconfessabile.

Le ginocchia premute contro il pavimento algido cominciavano a farle male, eppure la Duchessa non accennava a lasciare il suo posto. Teneva le piccole mani grassocce congiunte in preghiera e invocava silenziosamente l'intercessione della sua amica, affinché tutto andasse per il meglio.

Dal giorno prima non sentiva più muovere il bambino che portava in grembo e aveva una costante sensazione di ansia che non la lasciava nemmeno riposare. Neppure la preghiera le stava dando conforto.

“Mia signora...” la voce di una delle sue dame di compagnia fece voltare Beatrice di scatto.

Erano arrivate in quattro, a cercare di portarla indietro, al palazzo. Quando Ludovico si era accorto che la moglie non era a casa e aveva saputo che uno dei cocchieri l'aveva accompagnata a Santa Maria delle Grazie, per poi lasciarla lì come da espresso ordine della donna, aveva dapprima atteso e poi, visto che ormai si stava per entrare nel pomeriggio, aveva mandato delle ancelle a cercarla.

“Con il freddo che fa..!” aveva esclamato, scuotendo il capo e avviluppandosi ancora di più nel suo mantello imbottito di pelo: “Portatela al palazzo con la forza, se necessario! Non fa bene né a lei né a nostro figlio, stare in una chiesa a deprimersi! Con questa umidità, poi!”

“Dobbiamo rientrare, mia signora...” fece una delle dame di compagnia, affiancandola e cercando di rimetterla in piedi.

Beatrice si muoveva a fatica, sfiancata dal pancione ormai troppo grande per il suo fisico tozzo.

“No.” provò a opporsi la Duchessa, stringendo le mani al petto con maggior forza: “Devo pregare, non posso... Non posso...”

Le ancelle si guardarono un momento l'una con l'altra e alla fine decisero che andava fatto ciò che il Duca aveva paventato.

Senza badare alle proteste – sempre più fievoli – di Beatrice, le dame di compagnia la presero di peso e la strapparono via dalla tomba di Bianca Giovanna, cercando di rabbonirla con chiacchiere riguardanti la festa che si sarebbe tenuta quella sera.

“Il maestro Leonardo s'è impegnato tanto...” diceva una, tenendo sottobraccio la sua padrona.

“Vedrete, sarà una cosa memorabile!” esclamava la seconda, facendole strada sul portale della chiesa.

“Tutta Milano ne parlerà per un anno almeno!” rincarava la terza, tenendo aperto lo sportello del calessino.

“Della festa del domine magister e della vostra bellezza, sia chiaro!” soggiunse la quarta, aiutando Beatrice a salire in carrozza.

 

A Forlì il nuovo anno venne festeggiato in modo molto diverso da com'era stato celebrato il Natale.

Alla rocca non si erano tenuti particolari banchetti e anche in città solo un paio di famiglie avevano indetto dei ricevimenti, ma sempre molto contenuti.

A Ravaldino era stato concesso, per la notte tra l'ultimo e il primo giorno dell'anno, che venissero i musici e si ballasse per un paio d'ore. Tuttavia, non essendoci invitati illustri, in breve la festa si era trasformata in un ballo popolare, a cui avevano preso parte, per volere della Contessa, anche i servi e i soldati.

La Tigre, tuttavia, si era ritirata presto, dicendo che lasciava le danze ai più giovani e poco dopo anche Giovanni aveva lasciato la sala dei banchetti.

Il fiorentino aveva seguito la Contessa standole a una certa distanza fino a che non erano stati vicini alle loro camere.

In virtù del taglio popolare che era stato dato a quella specie di ricevimento, la rocca era invasa da gente che rideva, scherzava e cercava un posto tranquillo dove appartarsi. In un certo senso, quella ricordava un po' la controllata confusione che si era scatenata la notte in cui i graduati dell'esercito francese avevano cenato al desco di Caterina prima di ripartire.

“Non è il momento.” disse la Contessa, quando Giovanni la fermò, mentre ella aveva già una mano sulla maniglia della porta della sua stanza.

Il Popolano si guardò attorno e si rese conto che in effetti in giro c'era molta gente ancora e che un paio di armigeri stavano anche occhieggiando verso di loro, incuriositi e resi ridanciani dal troppo vino.

“Potremmo parlare un po'... Solo questo. Domani parto e...” provò a dire il Medici, senza troppa convinzione.

Caterina non disse nulla e aprì la porta, voltandosi poi di nuovo verso di lui per congedarsi in qualche modo.

Giovanni mosse il mento a destra e a sinistra e poi puntò gli occhi nelle iridi verdi della Tigre e, appoggiandole per un istante il palmo della mano sulla guancia, le augurò la buonanotte soggiungendo: “Tanto io non mi arrendo.”

La Contessa fece un cenno con la testa, che poteva stare a significare sia che le stava bene, sia che aveva capito e non gliene importava.

Quando la porta si fu richiusa dentro di lei, l'ambasciatore di Firenze represse un gemito di disappunto e andò a riposare.

Nel frattempo, nella sala dei banchetti i festeggiamenti andavano avanti come nulla fosse.

I figli maggiori della Contessa – Ottaviano e Cesare – si erano ritirati molto presto, perfino prima della madre, mentre i tre più piccoli ne avevano approfittato per giocare liberamente con i bambini dei servi.

Bianca, invece, si era abbandonata alle danze, fino a restare senza fiato. Anche se gran parte dei giovani, e pure le sue amiche della cucina, stavano ancora saltando in mezzo alla pista, la figlia della Contessa aveva deciso di fermarsi e si era andata a sedere su una delle panche che costeggiavano la parete.

Aveva cercato un calice di vino e poi si era messa a guardare gli altri, tenendo il ritmo con il piede.

Mentre era immersa nella sua osservazione, quasi rimproverandosi di non avere la resistenza fisica di certe serve, che erano più vecchie di lei, ma molto più allenate, Bianca vide un giovane soldato avvicinarsi per poi sederlesi accanto.

La ragazzina lo guardò un momento e lo riconobbe come uno di quelli con cui a volte aveva giocato ai dadi. Era giovane, doveva avere più o meno l'età di Ottaviano, e aveva davvero un bel viso, messo in risalto da folti capelli chiari e da due occhi vispi che stavano vagando per la sala, puntandosi ogni tanto anche su di lei.

In più, Bianca lo notò arrossendo violentemente, il ragazzo aveva spalle larghe e un profilo molto slanciato.

Non capiva come mai, ma non se n'era mai accorta, prima di quella sera. Forse in quel momento era solo più vulnerabile a quel genere di cose. Forse era colpa del ballo, o del vino, a cui, in fondo, non riusciva ad abituarsi. O forse era il clima conviviale e rilassato che la presenza dei servi e dei soldati aveva dato a quel ricevimento improvvisato.

Il giovane soldato cominciò a parlarle del più e del meno, dicendole che non ricordava un Capodanno migliore di quello in tutta la sua vita. Per farsi sentire, il ragazzo si era dovuto piegare verso di lei, alzare la voce e avvicinare le labbra al suo orecchio.

“Sono tornato da poco – spiegò a un certo punto il soldato – ero a Civitella, al seguito del Capitano Tiberti.”

Bianca si scostò appena da lui, per guardarlo meglio. In effetti da un po' non lo vedeva più alla rocca, ma non aveva immaginato che fosse stato in guerra.

L'attrazione che aveva provato per lui in un primo momento, si era amplificata ancora di più e improvvisamente i balli scatenati che venivano messi in pratica a pochi metri da lei non le interessavano più.

Il ragazzo continuò a parlarle, dimostrando una capacità dialettica notevole, soprattutto per la sua giovane età e quando la quindicenne tradì il suo interesse con un paio di commenti anche troppo audaci, il soldato provò a affondare il colpo: “Vi ho sempre trovata molto bella.” disse, indagando la reazione di Bianca con discrezione: “Mi piacerebbe conoscervi meglio.”

La giovane strinse il calice, ormai quasi vuoto, con entrambe le mani e, prima di riuscire a dire qualcosa di sensato, si trovò a pensare ad Astorre Manfredi. Tanto bastò.

“E in che modo vorreste conoscermi meglio?” chiese la ragazzina, non osando sollevare gli occhi blu verso il soldato.

I musici stavano ormai indugiando su ballate molto lente e stanche e la sala era piombata in un'atmosfera intima, ma anche un po' malinconica.

Il soldato deglutì e poi, avvicinandosi ancora di più a Bianca, le sussurrò nell'orecchio, appena udibile: “Potrei raggiungervi nelle vostre stanze, più tardi, se volete.”

La figlia della Contessa restò in silenzio per molto tempo, tanto che il giovane pensò di aver commesso un errore fatale, a parlare tanto apertamente.

Però, in quei minuti di chiusura, Bianca stava solo rivalutando la propria posizione.

Ormai le era abbastanza chiaro che, anche se non fosse stato Astorre suo marito, alla fine avrebbe dovuto comunque unirsi a qualcuno che non aveva scelto lei. Così andava il mondo, per le donne che nascevano in una famiglia nobile. Poteva davvero accettare di conoscere solo un uomo, nella sua vita, per di più non scelto da lei?

Il suo sguardo corse al naso dritto e al fisico asciutto del ragazzo e poi, vergognandosi come una ladra, annuì in modo secco e si alzò di scatto dalla panca: “Ma dovrete aspettare che la festa sia finita.” ingiunse.

Senza badare alla reazione del soldato, Bianca lasciò la sala con un'agitazione impossibile da frenare. Avrebbe voluto andare subito nella sua camera, per sfuggire agli sguardi degli abitanti della rocca, che sembravano quasi sapere quello che aveva appena accettato di fare, ma era così tesa da rendersi conto che non sarebbe riuscita ad attendere chiusa tra quattro mura.

Non sapeva nemmeno lei perché aveva accettato.

Lo spettro di Astorre gravava su di lei come una condanna e forse, inconsciamente, non attendeva altro se non un'occasione per ribellarsi, anche se in segreto, a quell'imposizione che, un giorno o l'altro, sarebbe diventata reale e impossibile da evitare.

Così, con la testa immersa in paure e aspettative, la giovane Riario lasciò che l'ansia dei suoi quindici anni di vita la portasse a vagare per la rocca come un'anima in pena.

Quando, tendendo l'orecchio, capì che la musica stava per finire, iniziò a tornare verso la sua camera.

“Ma vi dico che è così...” sentì dire da una voce, che quella sera aveva sentito nelle sue orecchie più spesso che non la musica.

Bianca si fermò appena prima di voltare l'angolo. Il soldato stava chiacchierando con qualcuno, probabilmente dei commilitoni, e il suo tono era spavaldo, completamente diverso da quello che aveva usato fino a poco prima nel rivolgersi a lei.

“Spero che si somiglino, sotto quel punto vista, sapete.” proseguì la voce del ragazzo: “E poi scommetto che sarò il primo, in questa rocca, a poter dire di aver montato prima la Tigre e poi sua figlia...”

“Prima la cavalla di razza – ridacchiò uno degli altri – e poi la puledra!”

Bianca non volle sentire altro e prese a passo svelto una strada alternativa per raggiungere la propria camera. Dovette attendere solo pochi minuti, prima di sentir bussare alla porta.

Il soldato si esibì in un sorriso accattivante e fece per entrare nella stanza ancor prima che la ragazzina gli desse esplicitamente il permesso di farlo.

La figlia della Tigre aveva già deciso che fare. Così lo lasciò passare, senza dar mostra di essere infastidita dalla sua presenza, come invece era, e gli permise anche di guardarsi attorno per qualche istante.

Quando il giovane tornò a concentrarsi su di lei, le labbra socchiuse e le sopracciglia un po' alzate di chi sta per fare qualche vago commento sull'arredamento, la figlia della Contessa afferrò con forza lo stiletto che aveva preparato sulla scrivania e glielo puntò alla gola.

Il gesto fu così repentino e preciso che non solo il giovane, ma anche la stessa Bianca si spaventò per la propria audacia.

Tuttavia, quando parlò, la figlia della Tigre cercò di farlo con voce ferma: “Ho sentito quello che dicevi ai tuoi amici e mi spiace deluderti. Prova a dire a qualcuno che stanotte è successo qualcosa tra noi e ti farò condannare a morte. Mia madre non è una donna clemente e se io le chiederò di farti uccidere, non esiterà a farlo.”

Il ragazzo deglutì a fatica, la punta sottile dello stiletto che incideva silenziosamente la sua pelle, facendone stillare una goccia di sangue.

“Adesso sparisci.” disse piano Bianca, senza abbassare né l'arma né le iridi blu: “E chiedi il trasferimento a Imola entro domani, o ti faccio sbattere in cella.”

Il soldato la fissava con gli occhi sgranati, pensando che quella che aveva preso per una giovinetta indifesa e anche un po' insulsa fosse in realtà molto più simile alla Tigre di quello che tutti pensavano.

Dopo un cenno imperioso di Bianca, il ragazzo corse alla porta e uscì in tutta fretta, come se stesse scappando dal diavolo in persona.

Rimasta sola, la ragazzina lasciò cadere lo stiletto in terra e poi, tremando come una foglia, si sedette sul letto, sperando con tutta se stessa che quel soldato avesse creduto alle sue minacce.

Perché, anche volendo, non avrebbe mai potuto metterle in atto. Sua madre non avrebbe mai accettato un'accusa vaga e di certo Bianca non si sarebbe messa a raccontarle tutto. Come avrebbe potuto?

Con un sospiro pesante, la ragazzina cercò di calmarsi e poi, dopo una breve esitazione, si mise all'inginocchiatoio e provò a pregare, per trovare il coraggio. Per quanto lo volesse, sapeva che non sarebbe mai stata come sua madre, però poteva almeno chiedere a Dio di darle quel briciolo di spirito sufficiente a sopravvivere a quel mondo di belve feroci e fameliche.

 

“Dove l'hai preso quel vino?” chiese Ludovico, guardando di traverso Beatrice, che era appena tornata a sedersi, dopo due giri di danza.

La festa di Capodanno di Leonardo stava dando grandi soddisfazioni tanto al suo ideatore, quanto agli invitati, tuttavia il Moro sembrava collerico. Sua moglie non si era sottratta alle danze, come invece anche il medico di corte e il mago avevano insistentemente consigliato di fare e adesso, malgrado fosse già accaldata e rossa in volto, la Duchessa stava pure bevendo del vino caldo che il Duca non ricordava di aver fatto preparare.

La donna agitò la manina grassa in aria e gli disse di tacere.

Il marito non ribatté, tuttavia, quando a tarda serata Beatrice avvertì delle fitte all'addome, non riuscì dal trattenersi e sibilò: “Te l'avevo detto!”

“Devo solo partorire!” lo zittì la Duchessa, che venne subito accompagnata da un paio di serve in una camera da letto, in attesa che arrivassero le levatrici migliori di Milano.

Il Moro fece attendere tutti gli ospiti in una delle sale migliori del palazzo di Porta Giovia, mentre lui si ritirò con Calco e pochi altri in uno dei suoi salottini privati.

“Bramante ha fatto delle arcate floreali meravigliose...” provò a dire uno dei Consiglieri del Duca, riferendosi ad alcuni addobbi usati dal domine magister per abbellire la sala del ricevimento.

“Le decorazioni di Caradosso, poi – fece un altro – erano davvero impeccabili...”

“Statevene un po' zitti!” li riprese il Moro, che sentiva crescere dentro di sé un senso di paura che non riusciva a spiegarsi.

Passarono un paio d'ore e non si sentiva altro, dal rifugio del Moro, se non le grida di dolore di Beatrice, che si erano fatte sempre più intense.

Dopo quella che parve un'eternità, una delle serve arrivò dagli uomini in attesa e andò dritta dal Duca. Abbassò la testa e si mise a piangere in silenzio.

Ludovico la scosse, prendendola per le spalle: “Che c'è? Per Dio, parla!”

“Il bimbo, mio signore...” disse la donna, singhiozzando: “Il bimbo è nato morto.”

“E mia moglie? Come sta mia moglie?!” chiese il Duca, mentre gli altri presenti ammutolivano e si scambiavano sguardi nervosi.

“Non bene, mio signore...” ammise la serva.

Il Moro la scansò di peso e, incurante di quello che le levatrici gli gridarono dietro, entrò di prepotenza nella camera di Beatrice.

La trovò immersa in un bagno di sangue, gli occhi riversi e il corpo scosso da fremiti incontrollabili.

“Dite al Ciambellano – fece il Duca, senza fiato, rivolgendosi a una a caso tra le serve – di andare dai nostri ospiti. Che dica che la Duchessa ha avuto un malore. Che facciano silenzio. Se sentirò anche solo una risata o un accenno di musica, le loro teste finiranno su una picca prima di mattina.”

La domestica annuì febbrilmente, terrorizzata dal tono piatto usato dal suo padrone.

Le urla di Beatrice, di colpo, ripresero e Ludovico le arrivò accanto, gettandosi in ginocchio e cercando di tenerla ferma.

“Non lasciarmi... Ti amo, Beatrice... Non lasciarmi...” le disse il Moro, affondando il volto tra i sui capelli fradici di sudore e avvertendo nelle narici il tanfo prepotente del sangue, mentre tutt'attorno a loro le serve e le levatrici facevano una gran confusione, riconcorrendosi nella speranza di riuscire a far qualcosa, almeno bloccare l'emorragia.

Quando le campane delle chiese di Milano batterono le sei del mattino, il Ciambellano ricomparve per la seconda volta davanti agli ospiti degli Sforza.

Batté il bastone dal pomo dorato in terra per tre volte e poi proclamò, con gravità: “Sono addolorato nell'annunciarvi che la Duchessa Beatrice, moglie del Duca Ludovico Sforza, è spirata pochi minuti fa.”

 
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Adeia Di Elferas