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Autore: virgily    13/09/2017    2 recensioni
Cacciò un piccolo gridolino aggrappandosi ai propri capelli: cominciava a vedere sfocato e per un attino le parve di non essere più in quella camera di albergo. Respirava a fatica, e se chiudeva gli occhi le sembrava che tutto attorno a lei stesse girando, sebbene non riuscisse a vedere proprio nulla.
Poi, improvvisamente, un flash la colpì con una tale violenza da farla sobbalzare tra le braccia dell'agente speciale della FBI. Durò pochissime frazioni di secondo che, tuttavia, le parvero una eternità. Inesorabilmente, con il cuore in gola e il fiato sospeso, Daphne Collins rivide tutto: la casa era stata messa a soqquadro; sua madre era stesa a terra, immobile e rigida sul pavimento bagnato del suo stesso sangue, mentre un'ombra scura torreggiava immensa sopra di lei. Qualcosa le aveva colpito un piede, e quando ebbe il coraggio di guardare mise bene a fuoco, e distinse nitidamente una mela, rossa e lucida, segnata da un piccolo morso.
Genere: Azione, Sentimentale, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Spencer Reid, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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Cap. 1: Assenza presente o presenza assente? 
 
L’assenza fa svanire le piccole passioni e infiamma le grandi, come il vento spegne una candela e alimenta un incendio.
(François de La Rochefoucauld)
 
Caro Spencer,
So che non mi risponderai mai, e arrivata a questo punto non posso più biasimarti. Ti avevo promesso che sarei tornata, e invece non l’ho fatto, e credo non lo farò per ancora molto tempo.
Sono passati due anni dalla mia partenza, e anche se non ho mai ricevuto tue notizie mi piace sperare che tu e tua madre stiate bene.
Questa è la mia ultima lettera, e ora mi sento pronta a raccontarti tutta la verità, quella che non ho mai avuto il coraggio di raccontarti malgrado il forte legame che una volta ci univa.
Ti raccontai che sin da quando ero ancora una neonata mia madre non aveva fatto altro che trasferirsi di stato in stato a causa della precarietà del suo lavoro e, in parte, questo era vero. Ma la principale ragione di questa continua latitanza era un uomo, un’oscura presenza che non aveva mai smesso di tormentarla con telefonate nel cuore della notte e regali indesiderati.
Pensava che non me ne fossi accorta. Ma io sapevo quello che le stava succedendo.
E non ho detto nulla. A nessuno.
Non volevo metterla in una posizione scomoda. Credevo sinceramente di aiutarla evitando il discorso, e questo evidenzia quanto in realtà fossi stupida ed egoista.
Mia madre ora è morta. Uccisa da quell’uomo perché aveva osato rifiutare le sue attenzioni.
Sono stata incapace di proteggerla e non mi perdonerò mai per questo.
Ma me la caverò. In qualche modo.
Se mai leggerai questa lettera, prima di stracciarla, o buttarla chissà dove, ti prego Spence non permettere a nessuno di farti del male.
Sei tutto ciò che mi resta, e provo per te un sentimento vero e sincero.
Anche se non mi vuoi più nella tua vita, e questo lo comprendo, sappi che non mi perderai mai.
 Tua, Daphne

 
Una nuvola opaca aveva invaso la camera da letto con un odore acre. La luce era soffusa, e una piccola fiammella bruciava rapidamente il tabacco nella cartina arrotolata fra le sue labbra sottili. Non appena aveva posato la penna con uno scatto nervoso delle sue piccole mani, affusolate e pallide, la ragazza si era accesa una sigaretta con ardente bramosia. L’aveva desiderata ad ogni segno, ad ogni parola scritta a quel caro amico che da anni cercava di rintracciare senza alcun risultato. “Amico”, il pensiero in realtà le fece spuntare un risolino beffardo sulla sua bocca rossastra. Era qualcosa di più di un semplice amico: era la sua ancora di salvezza da un mondo sovrappopolato di gente tutta uguale dalla quale non si era mai sentita capita. Era quella persona di cui poteva discutere di tutto senza avere timore di sentirsi giudicata, l’unico che sapeva come gestire quel caratteraccio che spesso e volentieri la metteva nei guai.
Faticava ad ammetterlo a sé stessa, ma amava le sue stranezze e le sue fragilità, e forse al solo ricordo anche il suo cuore cominciava a battere a ritmo irregolare e caotico.
Amava i suoi grandi occhi scuri che la guardavano con dolcezza anche quando era lei ad avere torto, e quel suo sorriso sghembo che sembrava volesse dirle:
Sei una stupida Daphne. Ma ti voglio bene lo stesso”.
Infine, amava le sue labbra, il loro disegno sottile, e il loro sapore.
Il suo viso si era stagliato in una miriade di ricordi, e questo in parte aveva accentuato un fitto dolore alla testa. La giovane fece allora per massaggiarsi le tempie, carezzandosi con cautela per non allentare il bendaggio che le mascherava i suoi folti capelli corvini e una vistosa ferita poco al disopra della fronte. Strinse appena i denti, quasi digrignandoli non appena il rintocco deciso di un paio di nocche contro la sua porta rimbombò come un tuono nella sua testa:
-Permesso?- una voce maschile e ben modulata accompagnò uno spiraglio di luce candido e intenso dal quale emerse un uomo tozzo, non troppo alto ma dalle spalle robuste e i folti capelli castani che ancora indossava la divisa scura della FBI. Quello che vide, non appena fu dentro, era una camera immacolata e ancora intatta, cosa che gli fece fortemente dubitare che la moretta fosse riuscita a dormire, mentre una miriade di mozziconi spenti sostava, avvitato e accartocciato in sé stesso, all’interno di un piccolo posacenere di metallo di scarsa manifattura proprio sopra il suo scrittoio.
-Signor Tomson. Entri pure…- voltandosi appena, la ragazza spense l’ennesima sigaretta frettolosamente, e finse di assumere un atteggiamento sereno e rilassato. Ma nella sua testa, in verità, c’era ancora confusione, frustrazione e rabbia. Moltissima rabbia, e sapeva che non sarebbe riuscita a mascherarla ancora per molto.
L’uomo innanzi a lei si avvicinò con andamento lento e assestato, e con i suoi grandi occhi chiari la scrutò con curiosità e attenzione: se ne stava seduta alla scrivania, le spalle basse, incurvate verso l’interno. Si accarezzava le mani appena macchiate di inchiostro nero, come se stesse cercando di auto confortarsi, e certo non poteva biasimarla. L’aveva trovata lui, la giovane Daphne Collins, pochi giorni prima in un lago di sangue proprio accanto al cadavere della sua povera madre. Da quel che ne sapeva, aveva sedici anni, non aveva un padre e ora si era ritrovata completamente sola.
-Come ti senti?- le domandò sedendosi pesantemente al ciglio del letto, cercando accuratamente di mantenere un tono rassicurante. Di rimando, la moretta abbassò lievemente lo sguardo:
-Non lo so. Mi fa ancora male la testa- sospirò piano, non riuscendo a trattenere una piccola gemma incolore che lentamente andò a colarle solitaria sulla sua guancia pallida.
-Ma mi riprenderò- aggiunse infine schiarendosi la gola, probabilmente per mascherare i singhiozzi che lentamente cominciavano ad arrampicarsi nel suo esofago. Un sorriso forzato crebbe tra le labbra carnose dell’agente, che non poté fare altro che sospirare sommesso, passandosi una mano fra i folti capelli che, notò la giovane, si stavano facendo grigi proprio all’attaccatura delle orecchie.  
-Senti…- esordì improvvisamente –Prenderemo chi ti ha fatto questo…- e alla sua frase, l’uomo non poté non notare che le mani candide della ragazza si erano fuse nuovamente assieme, ma questa volta in una pressa assai più vigorosa:
-Ma se riuscissi a ricordarti qualcosa. Qualsiasi cosa…- ci aveva provato molto anche nei giorni precedenti, andando a trovarla mattina e sera in ospedale. Non sperava in dettagli eclatanti come una descrizione completa e dettagliata del suo S.I, ma confidava anche in un piccolo particolare che potesse dare una svolta alle sue indagini.
Non glielo aveva detto, non ne aveva avuto il coraggio, ma oltre a sua madre erano state uccise altre due donne con lo stesso modus operandi: immobilizzate da un paralizzante prima di venire uccise. Polmoni e fegato venivano poi rimossi del tutto e accatastati accanto al corpo.
Compressa in quella seggiola, che per qualche istante parve inghiottirla al suo interno, Daphne cominciò a chiedersi se davvero rammentasse qualcosa. Oramai sua madre non c’era più, e quello era l’unico modo che aveva per cercare giustizia. Ma la testa le faceva troppo male, e il suo cervello pareva essersi bloccato. Era frustrante: chiudeva gli occhi, li serrava più forte che poteva anche solo per la vana speranza di poter ricordare un odore, un rumore, una luce particolare. Ma niente. Soltanto buio. E silenzio.
Si morse piano il labbro inferiore, portandosi istintivamente le mani al volto. Sentiva che stava per scoppiare in un pianto amaro, e non amava farsi vedere ridotta così. Era sempre stata lei quella forte. Quella fredda e inattaccabile. Ma ora si inerme, fragile… sola.
-M-Mi dispiace…- il suo fu un soffio quasi impercettibile, e a quella visione il cuore dell’agente speciale Tomson perse un battito. Si sentì in colpa, ma non poté far altro che scrollarsi le spalle ed esporre un sorriso rasserenante.
-Ehi, ehi tranquilla…- si sollevò appena dal suo comodo poggio per poterle dare una piccola, quanto impacciata, pacca sulla spalla.
-Troveremo un modo. Non ti preoccupare. Ora pensa solo a riposarti, va bene? Al resto ce ne occuperemo noi. Hai ancora una vita davanti Daphne. Concentrati su questo…- e per la prima volta la corvina riuscì a guardarlo dritta negli occhi: ora che ci faceva caso delle spesse rughe gli incorniciavano gli occhi, e la sua espressione pareva molto più genuina rispetto a quello che gli aveva sempre visto fare. Sembrava crederci veramente in quello che le diceva, e anche lei volle dargli fiducia; del resto era stato proprio lui ad averle salvato la vita.
-Grazie, signor Tomson- gli rispose semplicemente, sollevando appena gli angoli delle sue labbra sottili.
-Ringraziami quando avrò preso chi ha ucciso tua madre. Non ho fatto nulla, ancora…- ammise ricomponendosi:
-Posso farti portare qualcosa da mangiare?- domandò successivamente, avviandosi ad ampie falcate verso l’uscio. Si voltò giusto quel tanto che gli bastava per osservarla mentre scuoteva appena la testa.
-E se invece ti facessi portare della frutta? Sul serio devi mangiare qualcosa…-
-La ringrazio ma non riesco proprio a… ah, ahi!- la mora cercò di prenderlo in contropiede ma non riuscì neanche a terminare la frase che una fitta, decisamente più acuta rispetto a quelle a cui si stava abituando, picchiò forte proprio all’altezza della sua ferita. S’incurvò allora su sé stessa, e quasi automaticamente socchiuse gli occhi proteggendosi il capo.
-Ehi? Cos’hai?!- Tomson, con il cuore in gola, fece nuovamente retro front e si accucciò di scatto verso la giovane corvina, cercando di assicurarsi che non le fossero saltati improvvisamente dei punti alla testa. Daphne, di rimando, non riuscì minimamente a parlare. Era come se qualcuno le avesse infilato la punta di un trapano dritta nella fronte, cominciando a ridurle in cranio a brandelli. Cacciò un piccolo gridolino aggrappandosi ai propri capelli: cominciava a vedere sfocato e per un attino le parve di non essere più in quella camera di albergo. Respirava a fatica, e se chiudeva gli occhi le sembrava che tutto attorno a lei stesse girando, sebbene non riuscisse a vedere proprio nulla.
Poi, improvvisamente, un flash la colpì con una tale violenza da farla sobbalzare tra le braccia dell’agente speciale della FBI. Durò pochissime frazioni di secondo che, tuttavia, le parvero una eternità. Inesorabilmente, con il cuore in gola e il fiato sospeso, Daphne Collins rivide tutto: la casa era stata messa a soqquadro; sua madre era stesa a terra, immobile e rigida sul pavimento bagnato del suo stesso sangue, mentre un’ombra scura torreggiava immensa sopra di lei. Qualcosa le aveva colpito un piede, e quando ebbe il coraggio di guardare e mise bene a fuoco, distinse nitidamente una mela, rossa e lucida, segnata da un piccolo morso.
-Faccio chiamare qualcuno! - aveva esordito Tomson sollevandosi di scatto, ma la moretta immediatamente gli afferrò un braccio inchiodandolo con i suoi grandi occhi verdi lucidati dal pianto:
-U-una mela…- fu tutto quello che riuscì a sussurrare boccheggiando tra i suoi singhiozzi affannosi:
-Una mela?- il bruno rimase letteralmente spiazzato dalla sua affermazione improvvisa, non riuscendo a collocarle alcun significato finché la moretta non aggiunse, tra le lacrime:
-L-Le aveva fatto mordere una mela. Era avvelenata-
 
***
9 anni dopo
 
L’ufficio dell’unità di analisi comportamentale era sempre stato, fin dai suoi albori, una branca caotica, e spesso indecifrabile di quella macchina stacanovista e onnipresente definita come FBI. Entrare nella testa di un’altra persona era un lavoro difficile, specialmente quando si trattava di psicopatici assetati di sangue. Eppure, per quanto fosse complicato, estenuante e devitalizzante, quello era il lavoro che David Rossi aveva sempre voluto fare: proteggere le persone dal male dell’uomo, o almeno gli piaceva provarci. Anche quel mattino, mentre entrava con passo svelto e ben impostato, un sorriso solcava le sue labbra carnose incorniciate da una curata barba brizzolata, e la sua mente già vagava per differenti tangenti, chiedendosi quali scelte avrebbe dovuto prendere e come fare in modo di riportare a casa sane e salve quelle tre povere ragazzine sparite ormai da quasi tre settimane. Fece per togliersi gli occhiali da sole dal viso e riporli con cura nel taschino della sua giacca, e quando sollevò nuovamente lo sguardo dai suoi abiti vide un uomo, più o meno della sua età, tozzo e dalle ampie spalle robuste sostare proprio innanzi all’ingresso vetrato degli uffici del BAU. Mano a mano che si avvicinava, David capì che doveva aver già visto da qualche parte quel viso tondo segnato dal tempo, dai lineamenti gentili e rassicuranti. E fu proprio quando lo guardò nei suoi grandi occhi cristallini che lo riconobbe
-David!- in effetti gli erano cresciuti dei folti baffetti grigiastri che certamente stonavano con la folta chioma bruna lievemente brizzolata all’altezza delle tempie. Tuttavia, oltre a questo minimo particolare, notò che il suo vecchio amico, dopo tutto quel tempo, non era poi cambiato molto.
-Louis Tomson, quanto tempo?! Ti trovo bene!- i due si salutarono con una vigorosa stretta di mano professionale, seguita da un caloroso abbraccio.
-Già… la pensione mi dona! Ma vedo che anche tu non te la passi male- affermò l’ex agente speciale del BAU grattandosi frettolosamente dietro la nuca.  
-Che devo dirti: il lupo perde il pelo ma non il vizio. E qual buon vento ti porta qui?- gli domandò David, lasciandogli una fraterna pacca sulle spalle.
-Tranquillo, nulla di serio. Ho solo sentito che la mia figlioccia è stata affidata al BAU e volevo farle una sorpresa per metterla a disagio- ridacchiò il bruno lanciandogli un indizio non indifferente.
-Oh è vero- disse sbattendo più volte le palpebre, come se si fosse appena risvegliato da un sogno profondo o, più semplicemente, fosse stato colto di sorpresa:
-L’agente speciale Collins comincia oggi… Mi hanno detto che è un tipetto tosto. Non sapevo che fosse la tua “figlioccia”, ma conoscendoti non mi stupisce. Devi essere molto orgoglioso di lei- aggiunse esponendogli un grande sorriso:
-Altroché se lo sono. Tale padre, tale figlia…- con lo sguardo visivamente lucido per l’emozione, Tomson ricambiò con un altro sorriso.
Anche se non era veramente figlia sua, da quell’infausto giorno Louis aveva giurato a sé stesso che non avrebbe permesso più a nessuno di farle del male. Un po’ per il suo fortissimo istinto paterno mai realizzato, un po’ perché sentiva che, infondo, quella ragazza meritava una seconda occasione dalla vita.
Improvvisamente il campanello dell’ascensore trillò alto, annunciando all’intero piano che qualcuno era arrivato. Le spesse porte di acciaio si aprirono piano con uno scatto ritmico e meccanico, rivelando ai due amici di vecchia data una giovane donna dai folti capelli corvini appuntati proprio ai lati della testa. Camminò verso di loro esponendo un piccolo sorriso tra le sue labbra rossastre. Seppur coperti da i lunghi pantaloni del suo completo scuro, i suoi tacchi risuonarono per l’intero ambiente, rintoccando i secondi che la separava da loro. Aveva uno sguardo serio, emozionato ma estremamente vigoroso. Era come se, guardandola attentamente, Rossi riuscisse a percepire una certa aura difficile da decifrare attorno a lei.
-E parlando del diavolo! Benvenuta agente Collins, David Rossi- affermò senza perdere altro tempo, porgendole immediatamente la mano. Strinse le sue dita sottili, e non si stupì che fossero fredde e tese come le piccole corde di un violino.
-Piacere mio, signore… oh, ehm… Buongiorno Louis- le sue grandi iridi verdi si erano immediatamente posate sull’ex agente del BAU, e un lieve rossore non esitò a colorarle appena le pallide gote. 
-Rilassati tesoro non è venuto a spiarti. Non ancora- affermò Rossi con un vispo occhiolino, cercando immediatamente di mettere la sua nuova recluta a suo agio. Del resto, l’unità presto sarebbe diventata la sua nuova “famiglia”, per così dire.
-No infatti. Volevo solo augurarti buona fortuna. Te lo meriti- l’uomo posò le sue mani grandi e ancora callose sulla spalla della giovane. I due allora si scrutarono con una serietà sconcertante che colpì molto l’agente Rossi. Se si soffermava ad analizzarli, anche solo per poco, poteva scorgervi rispetto e gratitudine nei loro sguardi. E, del resto, era proprio così: Daphne ringraziava Tomson per non averla abbandonata nel momento del bisogno; lui, di rimando, le era grato per essere stata per lui la figlia che non aveva mai avuto.
-Grazie…- fu tutto quello che la moretta riuscì a dire, sebbene il suo sguardo fosse stato decisamente più eloquente della sua bocca.
-Bene, ora paparino se non ti dispiace mi approprio della mia nuova recluta… Vieni cara, ti presento il team- Rossi, con fare del tutto giocoso e paterno, le scrollò appena le spalle anche nel tentativo di alleviarle la tensione prima di trascinarla all’interno del suo nuovo ufficio. Il non-padre e la non-figlia si lanciarono solamente un ultimo sguardo impacciato prima che la moretta sparisse al di la delle porte del BAU. E per la prima volta, dopo molto, moltissimo tempo, Daphne aveva ripreso a credere in sé stessa. Dalla morte di sua madre aveva seriamente cominciato a dubitare delle sue capacità, della sua forza. Non essere stata in grado di proteggerla era un’onta che l’accompagnava come un’ombra pesante che macchiava ogni suo passo. Eppure non si era mai arresa. Non aveva smesso di studiare, di allenarsi per essere una persona migliore e un agente impeccabile. Voleva essere più forte. Voleva fare ammenda per tutti i suoi sbagli commessi in gioventù, e adesso era determinata più che mai a fare quello per cui si era sempre sentita pronta: proteggere le persone.  
L’ufficio centrale era enorme, proprio come Tomson le aveva raccontato nei suoi numerosi racconti. Tutte le scrivanie erano sovraccariche di scartoffie burocratiche da compilare ma questo non la sorprese affatto. A farlo furono piuttosto tutte le occhiate che ricevette non appena entrò nella sala assieme a Rossi:  
-Signore, signori un attimo di attenzione. Vi presento la nostra nuova recluta, l’agente speciale Daphne Collins che da oggi lavorerà con noi…- dopo qualche attimo di silenzio, i volti di tutte quelle persone che aveva davanti cominciarono a farsi meno serie, assumendo dei lineamenti più fluidi e rassicuranti. Non fece neanche in tempo a presentarsi che un uomo dai folti capelli bruni venne ad accoglierla con un mezzo sorriso sulle labbra: aveva il volto affilato, serio… eppure leggeva nel suo sguardo una sicurezza che, per qualche istante, la fece sentire al sicuro, abbattendo ogni sua piccola insicurezza:
-Aaron Hotchner, benvenuta- le strinse la mano con una presa salda e vigorosa,
-Grazie, signore- rispose senza rendersi conto che, subito dietro di lui, una donna molto alta e sottile, dai folti capelli neri e lo sguardo eloquente si era fatta avanti per porgerle la mano:
-Ciao io sono Emily- aveva un sorriso radioso, e questo l’aveva colta alla sprovvista. Il suo non era un lavoro semplice e si era preparata a dover frequentare in un ambiente ad alto rischio di stress e pressione. Eppure, in quell’inaspettato giro di waltzer, Daphne si sentì rincuorata.
-Piacere di conoscerti- le sorrise a sua volta, spostando lo sguardo su di un uomo che, all’apparenza, le sembrò tanto attraente quanto furbo: pelle ambrata, fisico tonico e scolpito e uno sguardo che, probabilmente, avrebbe potuto ferire l’orgoglio di ogni donna.
-Derek Morgan. A tua completa disposizione- aveva una voce vellutata e suadente, ma questo non la mise per nulla a disagio. Si sentì lusingata, ma solo per qualche frazione di secondo.
-Rammenterò- ridacchiò appena volgendo uno sguardo David che, quasi leggendole la mente, si schiarì la gola accennandole di seguirlo. Una bionda formosa dai sottili occhiali da vista e un abito sgargiante era entrata all’improvviso e aveva immediatamente colto la loro attenzione:
-Ahh ecco qui Garcia! Lei è l’agente speciale Collins-
-Ohh benvenuta tesoro! Ma sei bellissima! Sento che ci divertiremo già lo so!- la sua voce era squillante e gioiosa e, con un gesto del tutto imprevisto, la mora si ritrovò avvolta in un abbraccio talmente caloroso che, sentava a crederci, quasi la fece sciogliere.
-L-Lo spero- rispose sospirando di sollievo al pensiero di aver finito le presentazioni. Aveva sempre avuto dei problemi con gli inizi. Presentarsi a uno sconosciuto per lei non era mai stato facile. Tra un trasferimento e l’altro, conoscere gente nuova l’aveva sempre fatta sentire a disagio. Eppure, proprio quando pensava di aver ormai archiviato questa prassi assai scomoda, la domanda che fuoriuscì dalle labbra carnose di Hotchner la fece quasi voltare di scatto:
-Dov’è il dottor Reid?-
-Reid?- la nuova recluta ebbe quasi un sussulto, sbiancando vistosamente senza rendersi conto che, con quella stessa affermazione, aveva nuovamente attirato tutta l’attenzione su di sé. Eppure, in quell’esatto frangente non gli interessò più di tanto. Ora il suo cervello si era fissato su di un unico cognome, Reid, e su di un viso familiare che, nel giro di pochi istanti, trasformò un ricordo in carne viva: un giovane uomo entrò frettolosamente lasciando dondolare la sua folta chioma dorata mentre si trascinava una pesante tracolla di cuoio. Era diventato altissimo, almeno venti centimetri più rispetto a lei, ma quel viso era rimasto perfettamente identico, se non per la mancanza degli occhiali da vista con cui lo aveva conosciuto da ragazzina. Era diventato un bellissimo ragazzo, tanto da farle sentire una strana morsa allo stomaco, ma questo non lo avrebbe confessato ad anima viva.
-Scusate il ritardo ho avuto un contrattem…- il giovane dottore non ebbe neanche il tempo di concludere le sue spiegazioni che, quasi perdendo il fiato per la sorpresa, i suoi occhi si puntarono su quelli verdi e dilatati della moretta innanzi a lui:
-Daphne?- l’aveva chiamata senza neanche pensarci, disegnando sulle sue labbra una strana smorfia che vagamente rassomigliava ad un sorriso. Eppure, proprio nella sua testa era appena cominciata una caotica rissa fatta di ricordi dolceamari che gli fece venire i brividi al di sotto della sua camicia sottile.
-Spencer…- nel sentire la sua voce, ora più profonda e adulta, si sentì percuotere tutta. E questo la spaventò. Impulsivamente si chiese se avesse mai letto le sue lettere, ma lo stesso pensiero le faceva paura. Questa, in tutta la preparazione che anticipava il suo arruolamento per la BAU, era una variabile che non aveva affatto considerato, e capì immediatamente che sarebbe stato un bel problema:
-Oh-oh questo sì che un risvolto interessante- sussurrò immediatamente Garcia a denti stretti, cercando di destare pochi sospetti mentre dava una lieve gomitata a Derek proprio all’altezza della cintola. In realtà lo avevano notato tutti, ma a destare il vero scalpore fu l’atteggiamento di Reid: impacciato, eppure fermo e serioso. Anche troppo per uno come lui.  
-Bene, vedo con piacere che non dobbiamo passare ad ulteriori presentazioni- Affermò Rossi ridacchiando mentre paccava anche le spalle del ragazzo.  
-Ehm, insomma… si- tartagliò appena il giovane dottore lanciandole un ultimo sguardo. E in quel breve lasso di tempo, per quanto Daphne cercasse di decifrarlo, non riuscì minimamente a comprendere le sue emozioni, almeno finché il ragazzo non ritrovò nuovamente il fiato necessario per parlare:
-Siamo stati vicini di casa per un po’…-  aveva aggiunto, come per voler archiviare la questione alla svelta. E fu lì che Daphne riuscì finalmente a intravedere un suo sbilanciamento, ma non in positivo. Tutt’altro.
-… Sì- aggiunse sospirando sommessa, senza controbattere: -…Vicini di casa…- aveva infine ripetuto. Non tanto per dare corda a Reid. Quanto più per convincere sé stessa. Era deluso. Questo era facile da percepire e, dopotutto, come poteva biasimarlo?  
-Bene, ora bando ai convenevoli, JJ ha trovato qualcosa per noi sul nostro S.I di Sacramento- Hotchner riportò finalmente tutto ai ranghi e Spencer non esitò ad azzerare il loro contatto visivo, allontanandosi da lei il più possibile con ampie e frettolose falcate. La mora sapeva che non era né il tempo, né il luogo per le spiegazioni, ma il suo cuore aveva inevitabilmente perso un battito.
Per uno strano scherzo del destino si erano finalmente ritrovati, ma la ragazza sentì immediatamente la sua presenza farsi inconsistente, assente.
A suo malgrado, Daphne capì che forse era ormai troppo tardi.  

*Angolino di Virgy*
Questa è una storia che mi ronzava per la testa da molto, moltissimo tempo. osì una sera ho deciso di cominciare a buttare giù qualche idea ed eccola qui. Spero che sia di vostro gradimento, o che quantomeno abbia attirato la vostra attenzione. Confesso che è ancora un work in progress e onestamente non so come si evolverà l'intera storia (non voglio farmi troppi piani ma seguire il flusso caotico dei miei pensieri). Spero di aggiornare presto, anche se chi mi conosce avrà già un facepalm pronto. 
Detto questo, vi ringrazio per la lettura!
Buona serata a tutti!
-V-
  
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