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Autore: Alicat_Barbix    14/09/2017    0 recensioni
Nel 2130 il mondo non è più contaminato dalle diversità. Diversità che hanno portato a lotte e guerre sanguinose nel corso dei tempi. La nuova società si impegna ad eliminare tutti gli Incompleti. Il diverso deve essere schiacciato. Ma come in ogni organizzazione, anche in questa c'è una falla.
Sherlock Holmes e John Watson si incontreranno quando meno se l'aspettano, ma saranno dalla stessa parte? Ma se così non fosse, cosa comporterebbe la nascita di qualcosa di forte, qualcosa di pericoloso?
Genere: Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CUORE SUL GRILLETO
Capitolo 4
 


Era raro incappare in una giornata di sole come quella, a Londra. Il cielo terso affogava le solite nubi gonfie di pioggia che incombevano in quel periodo dell’anno.
Camminava velocemente, la mano destra che non faceva che alzare la manica che occultava l’orologio, gli occhi che saettavano attorno per assicurarsi che non vi fosse nessuno. Non era un bel quartiere, quello. E forse era anche per questo che ogni mattina la prima cosa di cui si attrezzava era la sua fedele FN Five-seven.
Il vicoletto che stava percorrendo di buon passo era infelicemente noto per la grande quantità di cadaveri in cui si poteva incappare. Il quartiere di Brixton non aveva una grande fama in generale, ma quella stradina che si srotolava sotto i suoi piedi poteva benissimo essere coperta da corpi di persone decedute a causa di un coma etilico o di overdose.
Per questo le sue gambe erano pronte a scattare e la sua mano a correre alla pistola nella sua tasca. Ad un tratto, un rumore sospetto catturò la sua attenzione. Si voltò, le dita già saldamente chiuse sull’arma, la guardia alta. I suoi occhi osservarono la zona, sospettosi, esaminarono ogni bidone della spazzatura, ogni angolo in cui potesse annidarsi un eventuale pericolo… Cercavano e cercavano senza sosta, atterriti e colmi di adrenalina allo stesso tempo.
Altro rumore. Un gemito.
Premette il corpo contro il muro e attese. Di nuovo, un lamento. Si sporse appena su di una stradina ancora più laterale di quella e, schiacciata ad una parete scrostata, scorse una figura minuta piegata in due. L’odore nauseante di vomito era inconfondibile.
Esaminò la situazione restando dietro alla svolta. L’individuo che stava squadrando si alzò a fatica, mettendosi a quattro zampe. Lunghi capelli biondi sporchi di gesso e di muffa strisciavano a terra e coprivano il viso di colei che stava rimettendo. Finalmente, la figura alzò appena il capo, quel tanto che bastava per vederne le fattezze: il viso di una ragazza, non più in là dei trent’anni, occhi chiari e offuscati dal dolore dei crampi addominali, un’espressione stravolta.
Clara restò immobile, indecisa sul da farsi. Ma più guardava quella giovane donna, più in lei rivedeva la se stessa di anni prima. Si avvicinò con cautela e una volta davanti alla sconosciuta si chinò su di lei.
“Ecco, tieni.” disse porgendole il suo fazzoletto. La ragazza la fissò smarrita, ma infine prese il pezzo di tessuto e ci si pulì le labbra, masticando un grazie impastato dall’alcol.
Clara tuffò la mano nello zainetto che portava sulle spalle, in cerca dell’aspirina che portava sempre con sé per la sua emicrania.
“Questa ti farà passare almeno il mal di testa.”
L’altra si tirò su a fatica, accettando il suo secondo omaggio. Le sembrava che in testa fosse in corso un palio composto da stalloni imbizzarriti. Si portò una mano alla tempia, il volto contorto in un’espressione dolente. Provò a parlare, ma tutto quello che le usciva dalle labbra erano mugugni incomprensibili.
“Oh, non ti sforzare. So come sono i postumi da sbornia.” la rassicurò Clara sorridendo. La ragazza dai capelli biondi cercò di ricambiare il sorriso, ma tutto quello che ottenne fu una smorfia. Se suo fratello l’avesse vista in quelle condizioni sarebbe impallidito e le avrebbe fatto una bella ramanzina.
Già, suo fratello…
“Come ti chiami?”
Si schiarì la gola, sperando di pronunciare qualcosa di chiaro. “Harriet.”
“Io sono Clara.”
Le loro mani si allacciarono in una stretta di presentazione e solo quando la sua manica si alzò appena, rivelando l’orologio, Clara ricordò il suo impegno e il suo ritardo. “Mio Dio, quant’è tardi!” esclamò balzando in piedi. Harriet provò ad alzarsi a sua volta, ma le gambe le cedettero e cadde rovinosamente a terra.
“Cavolo, tutto bene?”
“Sì, sì… Me la cavo… da sola.”
Clara guardò quell’ammasso gracile di ossicine e carne e il senso di colpa si fece spazio in lei. Non poteva lasciarla lì, così. Quante volte si era trovata nella stessa situazione? Quante volte aveva desiderato che qualcuno la aiutasse? La vecchia Clara cominciò a bussare insistentemente alla porta.
Dannazione!
“Dov’è che abiti?”
Harriet sorrise amaramente. “Qui.”
In quel momento, l’altra si rese conto di una stuoia non troppo distante dal punto in cui si trovavano e di un cumulo di stracci bruciacchiati che sembravano essere serviti ad accendere un fuoco. “Qui?” le fece eco con tono rammaricato. “Non hai una casa vera?”
Harry scosse debolmente la testa, i timpani che le fischiavano, lo stomaco che faceva capriole pericolose.
Clara si guardò intorno confusa. Che fare? Quella ragazza era solo un’alcolista. Una sconosciuta. Una barbona. Perché aiutarla? Non la conosceva nemmeno! Poteva essere una ladra, o un’assassina! Doveva andarsene. E in fretta anche. Non era un buon posto, quello. E anche la tipa, Harriet, di certo non era la persona migliore del mondo. La scelta più saggia era abbandonarla.
Ma molte volte, il cuore ha la meglio sul buon senso.
 
***
 
“Sono a casa!”
Harriet le corse incontro appena mise piede in soggiorno. I suoi occhi si accesero di meraviglia e ammirazione quando incontrarono la figura dell’amica. “OMG! Ma sei troppo figa!”
Clara si esibì in un esemplare e modesto inchino, ridendo. “Ti piacciono?”
“Se mi piacciono?! Clara, sono WOW!”
I lunghi capelli castani avevano lasciato posto ad un caschetto ribelle che conferiva alla coinquilina un’aria da gangster mista a una da rock star. Harry rimase a fissarla con il sorriso dipinto in volto. Erano passati due anni da quando Clara l’aveva trovata e si era presa cura di lei. Così tanto tempo… E così tanti segreti…
Il suo cuore le balzò in gola quando Clara si sfilò il giubbetto. Un gesto semplice, innocuo, ma che in lei provocò un uragano di emozioni e desideri ingestibili. Si voltò repentinamente e scappò nella cucina dove la pentola a pressione fischiava insistentemente.
“Vieni a sederti a tavola, è pronto.”
“Arrivo!” rispose urlando Clara dalla sua camera da letto mentre Harriet portava a tavola i piatti col roastbeef. Dopo pochi minuti si sistemarono e cominciarono a mangiare avvolte da un’atmosfera serena e ovattata, chiacchierando del più e del meno, spettegolando come due liceali.
All’improvviso, il cellulare di Clara vibrò. Un sorriso esuberante si formò sulle sue labbra nel leggere il messaggio. “E’ Steve! Mi ha chiesto di vederci questa sera!”
Harriet avvertì una morsa all’altezza dello stomaco. Dolore, dolore, dolore… Ma non doveva permettere ai sentimenti di traboccare. Non doveva permettere loro di rovinare un rapporto sincero e solido come l’amicizia. “Grande...”
Clara le rifilò un’occhiata stizzita. “Potresti anche mostrarti un po’ più contenta.”
Harry si alzò da tavola facendo strisciare rumorosamente le gambe della sedia sul pavimento. “Prometto che quando mi racconterai i giochetti erotici che ti farà fare saltellerò di gioia.”
“Ma che ti prende, Harry?” insorse l’altra sulla difensiva.
“Niente, Clara, niente. Va tutto bene! Torna pure nel tuo mondo fatato fatto di Steve.” ribatté acida Harriet mentre rimetteva la sua carne in pentola.
“Mi spieghi che hai?”
Nulla. Non aveva proprio nulla. Non era così che si comportava un’amica.
Stupida, stupida, stupida! pensò Harriet senza però riuscire a contenere l’ondata di sensazioni discordanti che la stavano facendo annaspare.
“Davvero non capisci che cos’ho!? Solo un cieco non lo capirebbe!”
Clara scattò in piedi, facendo rovesciare la sedia. “Dimmelo, Harriet! Dimmi che cosa dovrei capire!”
Harry la fissò per qualche istante. Aveva voglia di piangere, di urlare, di fuggire. Ma non c’era nessuno che le avrebbe offerto una spalla su cui versare le sue lacrime, che avrebbe ascoltato il suo sfogo, che l’avrebbe stretta a sé e consolata. Una volta c’era… Ma ora, non più. E allora doveva avere le palle per restare. Doveva avere le palle per affrontare la verità.
Bastò un passo per arrivare ad un soffio da Clara e catturare le sue labbra in un bacio tracimante di passione. Aveva un sapore buono, quella bocca. L’avrebbe assaggiata per tutto il giorno. Ma non poteva. Perché Clara non era come lei. Anzi, lei non era come Clara. Lei era diversa. Incompleta.
Si sottrasse al contatto con il viso in fiamme e gli occhi ardenti. Corse alla porta d’ingresso, consapevole che quel bacio era stata la sua rovina, la goccia che aveva fatto traboccare il vaso.
Nessuno poteva capirla.
Non i suoi genitori.
Non suo fratello.
Non Clara.
Nessuno.
Scese la tromba di scale del condominio velocemente, non avendo il coraggio di guardarsi indietro. Basta. Era stanca. Mortalmente stanca. Voleva solo… Trovare pace.
Nei baci di una puttana? Nell’alcol? Nella morte?
Non lo sapeva. L’unica cosa certa era che doveva andarsene di lì o sarebbe crollata. Ma qualcosa la fermò. Incontrò gli occhi indecifrabili di Clara. Erano carichi di rabbia – o di amore? –, di paura – o di sollievo? –. Quant’erano belli quegli occhi. Pozze infinite in cui affondare e perdersi completamente.
“Mi dispiace.” sussurrò quella rafforzando la presa sul suo polso. “Io… avevo paura. Paura che tu non provassi lo stesso e… paura di amarti.” La mano libera strinse quella dell’altra con dolcezza infinita. “Perdonami, Harriet. Per averti fatta soffrire. Per essere stata peggio di un cieco.”
Harry affondò il viso nel petto di Clara e pianse. Pianse tutte le ragioni che, sebbene le procurassero un tale dolore, la tenevano in vita: John, Clara, la speranza.
Pianse perché era felice. Perché lo era sempre stata, dopotutto. John le aveva donato un’infanzia meravigliosa nonostante i loro bisticci. Le aveva asciugato lacrime di cui non conosceva la ragione. L’aveva abbracciata con un vigore e un amore che solo Clara riusciva ad equiparare. Non poteva biasimarlo per il suo rifiuto. Non poteva. Era il suo fratellino. L’unica cosa che contava. L’unica assieme a Clara.
 
***

 
La pioggia aveva placato la sua sete di caos e ora il cielo era ormai solo una patina scura e nuvolosa. Clara aveva le gote ferite. Due profonde cicatrici. Due lacrime.
“…così abbiamo capito che i nostri sentimenti non potevano più essere repressi.” concluse con un sospiro.
“Sai, per caso,” s’intromise John timidamente. “quanto tempo era passato dalla sua fuga di casa quando vi siete incontrate?”
“Cinque anni.” rispose Clara. “A volte mi parlava del suo passato. Di te.”
Lui lasciò che un mesto sorriso gli ferisse il volto come le lacrime facevano su quello della donna. “Ti ha detto che sono stato la causa di tutto il suo dolore?”
“Niente affatto. Ti amava così tanto… Eri il suo fratellino, non poteva portarti rancore.” I suoi occhi si annebbiarono nuovamente di lacrime. “Dopo che ci siamo messe insieme, ti abbiamo cercato in lungo e in largo. Ci sono voluti anni per riuscire a capire qualcosa. Anni e anni di ricerche a vuoto. E proprio quando abbiamo cominciato a raccogliere informazioni importanti…”
John voleva estraniarsi. Tapparsi le orecchie. Impedire alla voce di quella donna di distruggerlo. Ma ormai voleva sapere. Ne aveva il diritto.
“Che cos’è successo?”
Clara ingoiò un groppo di lacrime. “Non lo sapevamo… ma ci stavano alle calcagna da tempo. Brixton pullulava di agenti dell’Inquisizione sotto copertura. Un giorno… stavamo camminando per il mercato quando… un uomo ci ha avvicinato e ha mostrato il distintivo… Allora, Harry mi ha preso per mano e mi ha trascinato via. Lo abbiamo seminato, ma ha chiamato rinforzi e allora Harry…”
S’interruppe, il viso che affondava nelle ginocchia. “Harry cosa?” la incalzò John trattenendo il dolore, la rabbia, la speranza perduta.
“…Harry mi ha detto che dovevamo separarci. Che divise ce l’avremmo fatta, ma prima di andare ha aggiunto… Qualunque cosa accada, trova mio fratello.”
Una lama invisibile si conficcò nel petto di Watson, là dove la foto di sua sorella stava sfumando lentamente, perdendo il sorriso radioso, gli occhi lucenti… Dove Harriet stava scomparendo.
“Io… non sapevo cosa fare e così sono scappata nella direzione opposta alla sua e poi… Uno sparo.” Tacque come se la detonazione le rimbombasse ancora nelle orecchie. “Ho seguito quel rumore, le chiacchiere della gente, e sono arrivata al vicolo… dove ci siamo incontrate per la prima volta, e lei… lei era lì. Per terra. Con un foro alla tempia e una pistola in mano.”
Il nulla avvolse la stanza. Un’agonia impalpabile prese a dilaniare le anime dei due. John non si stupì di quel gesto: sua sorella era così. Ribelle. Libera. Inafferrabile. Anche nella morte: non avrebbe mai sopportato di andarsene per mano di quei puritani del cazzo come li chiamava.
John scoppiò a ridere. Una risata isterica e stonata. Una risata che si sarebbe trasformata in singhiozzo se non fosse stato John Watson. Perché John Watson non mostrava la sua debolezza a nessuno. Nessuno.
Clara gli prese la mano e gliela strinse forte. “Mi dispiace, John… Mi dispiace così tanto… Ho passato un anno intero nascosta, in continuo movimento, solo per trovare te. Per esaudire l’ultimo desiderio di Harry… E ora…”
“Non dirlo.” la stoppò John. “Sapeva che sarebbe morta. E sapeva che tu ce l’avresti fatta. Perché credi che si sia sparata un colpo in testa se non per consentirti di scappare, di vivere? Siamo così egoisti… Così dannatamente egoisti.” Clara si portò una mano alla bocca per soffocare un gemito di dolore. John tirò fuori la foto da cui sua sorella se ne era appena andata… Ma invece l’immagine di Harriet era ancora lì. Bellissima. Nitida. Sarebbe svanita, un giorno. Ma non quello. Non finché c’era John. Harriet non sarebbe mai morta veramente, perché era lì, su quel foglio lucido. Sorridente. Inscalfibile. Porse la fotografia a Clara. “Lei è ancora qui, vedi? Non possiamo tornare indietro, dobbiamo trovare la nostra strada. Se ce ne andassimo, lei rimarrebbe sola. Basta fare gli egoisti. Dobbiamo andare avanti anche per lei. Possiamo farcela, Clara.”
Lei accarezzò la foto sorridendo. La sua Harry… Quanto l’aveva amata. E quanto l’avrebbe amata ancora. John aveva ragione: non doveva arrendersi. Per Harriet. Per se stessa. Per il loro amore. “Grazie, John. Grazie di tutto.”
Watson si sforzò di sorridere, ma subito dopo si alzò in piedi. “Ora riposa. Io vado… vado a fare un giro.”
Non attese risposta. Scese le scalette velocemente, i suoi passi – tonfi sonori sul pavimento – che somigliavano al suo dolore – tonfo sonoro sul petto dove non c’era più nessuna Harriet –. Attraversò la fattoria di corsa, e uscì fuori, sotto un cielo plumbeo, e proseguì ancora alla cieca, sulla collina, verso un boschetto fatto di scheletri di alberi, lungo un torrente.
Via, via, via! Lontano. Correre. Sentire il fiato corto. Il cuore galoppare. I muscoli stridere come le ruote di un treno. Mettere in moto il corpo per non pensare. Fare di tutto per non pensare. Il vento urlava il suo nome. Lo pregava di fermarsi.
No.
Non il vento.
Una voce nel vento.
Sherlock lo afferrò con un salto in avanti e lo tenne stretto, nonostante le sue resistenze.
“Lasciami!”
“Non se prima non ti calmi.”
Watson sferrò una brutale gomitata allo sterno di Holmes che a questo punto fu costretto ad arretrare, massaggiandosi il torace.
John sarebbe dovuto partire di nuovo, ma le sue gambe non rispondevano ai comandi. Il suo cuore non rispondeva ai comandi. Restò immobile, gli occhi fissi su Sherlock. Improvvisamente, la rivelazione di Clara prese forma. La forma di una chimera. Era nel buio. E i suoi occhi abituati a cercare continuavano a cercare. A cercare una ragione per continuare a credere che un giorno sarebbe riuscito a rivedere la luce.
Harriet. Morta.
Non si era mai sentito così. Così dilaniato. Così debole. Così esposto.
“Harriet è morta.” mormorò solo. Sherlock rimase in silenzio, senza però distogliere lo sguardo.
Passarono alcuni, interminabili istanti. La mano di John agì senza controllo. Coprì il suo volto, lo tenne al riparo, lo mascherò. Un suono straziante echeggiò attorno a loro. Un singhiozzo, due, tre… John Watson, l’impavido John Watson, il caparbio John Watson… Piangeva. E non avrebbe pianto se Sherlock non fosse stato lì. Ne era certo. Quell’uomo ammantato di nero gli faceva venir voglia di abbandonarsi persino alle sue debolezze, quello stesso uomo che prese a camminare verso di lui piano e circondò il suo corpo rigido con le sue braccia forti. Era bello, pensò John, stare immobile, col viso affondato nel petto di Holmes. Era bello. Troppo bello.
“Va tutto bene.” mormorò Sherlock stringendolo ancora più forte. Le sue mani non stavano più toccando una schiena. Ma un’anima. L’anima di John. Un’anima ferita e piangente.
“Non va tutto bene.”
“No.” rispose poggiando il mento sulla nuca dell’altro. Doveva proteggerlo. Da tutto. Da tutti. Da se stesso. Dalla morte di Harriet. Non andava tutto bene, no. Ma lui era lì. E ci sarebbe sempre stato. Perché lui… “Ma è quel che è.”
 
   
 
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