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Autore: Adeia Di Elferas    15/09/2017    3 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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L'inviato pontificio si passò una mano sul petto, facendo scricchiolare la lettera del figlio del papa che aveva ripiegato con cura e nascosto in una tasca interna del giubbone che portava sopra la tonaca per ripararsi dal freddo.

Si versò lentamente un calice di vino bianco, riempiendolo fino all'orlo, annusandone l'odore sapido, e solo dopo si occupò di quel che restava nella caraffa.

La stanza in cui l'avevano fatto accomodare era umida e illuminata male. Arrivare a Napoli non era stato semplice e aveva anche ritardato di un paio di giorni. E adesso non vedeva l'ora di portare a termine la sua missione e poi tornarsene nei giardini vaticani a passeggiare in silenzio, un breviario sotto al braccio e l'espressione pia di chi non ha colpe né agli occhi degli uomini né a quelli di Dio.

Quando sentì dei passi, appena fuori dalla porta di legno mezzo marcio, il messo papale si alzò dallo sgabello che gli avevano dato e si appoggiò al grezzo tavolo che stava nel centro della stanza.

“Ci riesco anche da solo.” disse una voce ruvida e un po' roca, mentre l'uscio si apriva, facendo entrare il prigioniero e una delle guardie.

“Lasciateci pure soli.” disse il religioso, passando con delicatezza una mano sul crocifisso che portava al collo.

Il soldato ubbidì e lasciò Virginio Orsini da solo con l'uomo appena arrivato da Roma.

“Che cosa volete?” chiese il prigioniero, i capelli sporchi, lunghi e arruffati così come la barba.

L'altro notò con piacere che gli occhietti azzurri dell'Orsini erano corsi subito alla brocca, con la voracità di chi non beve neppure un sorso d'acqua almeno da un paio di giorni.

“Vi vedo pallido.” disse l'uomo del papa, prendendo il suo bicchiere e bevendone metà solo per mettere ancor più in difficoltà Virginio: “Non volete un po' di vino?”

L'Orsini distolse lo sguardo e chiese di nuovo: “Che cosa volete?”

Il messo pontificio lo fissò un momento, ammirato per quella fibra. Cesare Borja lo aveva messo in guardia, ma credeva che esagerasse. In fondo, quello che aveva davanti era solo un vecchio con indosso abiti logori e dal tanfo insopportabile. Era sorprendente quanto dignità riuscisse ancora a mostrare, malgrado tutto.

“Sono stato mandato qui – disse allora il religioso, mettendo in scena la farsa che il figlio del papa gli aveva detto in effetti di fare – per darvi ancora una possibilità di salvarvi.”

Virginio gettò gli occhi al cielo, non riuscendo nemmeno più a ridere in segno di scherno. La sua mente era occupata solo dal rumore umido che faceva la gola di quel dannato prete ogni volta che sorbiva un sorso di vino.

“Scrivete a vostra sorella di arrendersi. Voi siete suo fratello, e siete il maggiore. Dovrà ascoltarvi, così è la legge del mondo e di Dio. Convincetela a cedere il castello di Bracciano e sarete entrambi salvi. Non vi sarà fatto alcun male. Potremmo prendere quel castello anche domani, ma vogliamo offrirvi questa opportunità, in nome della pietà cristiana.” continuò il religioso, agitando con noncuranza il calice sotto al naso del prigioniero.

L'Orsini strinse i denti con tanta forza da farsi male e poi sibilò: “Se ad oggi il papa perde ancora tempo a cercare di convincermi a scriverle di arrendersi, significa che Bartolomea sta tenendo le difese in modo eccellente e che senza la mia intercessione voi, quel castello, non lo prenderete mai.”

Il religioso strinse le labbra scure e poi fece per ribattere, ma Virginio aveva ripreso, con ancor maggior vigore, dimostrando di avere risorse quasi infinite, malgrado la lingua così secca da essere piena di piccoli tagli: “Dunque, perché dovrei impedire a mia sorella di uccidervi tutti?”

“Per salvarvi la vita.” rispose il messo pontificio, dimenticandosi perfino di agitare il calice a mo' di invito.

“Io ormai sono vecchio.” fece l'Orsini, mentre i suoi occhi azzurri si posavano una volta di più sulla brocca di vino.

Se il prete stava bevendo, significava che era roba buona e non pericolosa. Altrimenti non l'avrebbe fatto... O almeno così Virginio credeva... La sete gli stava togliendo la capacità di fare ragionamenti troppo difficili.

“Ma siete l'Orsini più...” stava dicendo l'uomo del papa, sperando quasi di convincere il prigioniero a cedere, in modo da non dover andare in fondo al suo piano.

“Un albero non muore, se gli si taglia via un ramo secco!” sbottò Virginio, che non resistette più e si lanciò in avanti verso la brocca, senza trovare la minima resistenza da parte dell'altro.

Il messo pontificio si mise in un angolo della stanza e chiamò a gran voce la guardia: “Aiuto! Il prigioniero s'è agitato! Mi ha aggredito!”

Mentre il soldato accorreva, Virginio tracannava senza sosta il vino bianco che il prete aveva preparato apposta per lui.

Sentiva la gola riarsa bagnarsi, finalmente, dopo tanto tempo, però, più beveva, più il fuoco che avvertiva nel centro del petto si acuiva.

Gli ci volle qualche istante per capire cosa stava succedendo.

Sotto gli occhi orripilati dell'inviato vaticano e quelli increduli della guardia, Virginio si portò una mano al collo, sentendosi soffocare. Lasciò la presa sulla brocca, che cadde in terra infrangendosi in mille pezzi, e poi crollò in ginocchio.

Ebbe solo il tempo di fissare con odio il prete che l'aveva ingannato con tanta semplicità e di sentirlo perfino aggiungere: “L'agitazione eccessiva deve avergli causato un malore... Alla sua età...”

 

Le pareti della stanza di Ludovico Sforza erano state ricoperte da drappi neri, su sua precisa indicazione. Nell'attesa che venisse il momento delle esequie di sua moglie, il Duca si vestì con gli abiti più umili e vecchi che possedeva – un giubbone nero di fustagno e un mantello di panno scuro dal bordo consunto e che toccava terra – e si chiuse in solitudine, senza voler parlare con nessuno.

Il corpo della Duchessa, ripulito e celato agli occhi indiscreti dei presenti in ogni modo possibile, il 3 gennaio venne portato con lentezza esasperante in Santa Maria delle Grazie.

Il funerale fu tra i più solenni mai celebrati in Milano e per tutto il tempo il Moro non fece altro che piangere e tirarsi i capelli con le sue grosse mani, come se volesse strapparseli tutti quanti.

Poco dopo, la Duchessa venne interrata nel coro absidale, dove già riposava Bianca Giovanna.

Ludovico restò a lungo in preghiera davanti a quelle due tombe e quando si riebbe, andò a cercare il suo cancelliere, in mezzo alla chiesa e gli ordinò: “Mia moglie è morta di martedì, dunque da ora in poi ogni martedì a palazzo si digiunerà, in segno di lutto. D'ora in poi, non mi siederò più a tavola, mangerò sempre in piedi. Non sopporterei di sedermi accanto alla sua sedia vuota...” la voce del Duca tremò, mentre gli occhi si riempivano di nuovo di lacrime: “Per una settimana, a partire da oggi, voglio che a Milano venga celebrata una messa in suo suffragio ogni quarto d'ora. Giorno e notte.”

Calco annuì, mentre uno dei suoi segretari, alle sue spalle, prendeva frettolosamente nota con un pezzo di carboncino.

“E questo anello...” sussurrò poi il Moro, fissandosi la mano su cui portava il suo sigillo: “Non lo voglio più. Farò preparare una corniola che la raffiguri. Così potrò vederla ogni volta che...”

Il Duca scoppiò a piangere e così lo accompagnarono fuori dalla chiesa sostenendolo quasi di peso.

Il domine magister Leonardo, che era rimasto indietro, si era fermato un momento e aveva guardato sconsolato le navate della chiesa. Il suo respiro creava ragnatele di condensa, nell'aria immobile e fumosa che appestava Santa Maria delle Grazie.

Asciugandosi l'angolo dell'occhio col dorso della mano, Leonardo concluse la sua silenziosa preghiera e poi si accodò agli altri che stavano tornando, cupi e taciturni, al palazzo di Porta Giovia.

 

“Ci hanno mostrato il suo corpo.” confermò il messaggero, un ginocchio in terra e il capo chino.

Bartolomea Orsini, seduta sullo scranno che un tempo era stato di suo padre Napoleone, si avvolse ancora di più nel mantello di lana con cui si era avvolta e spostò gli occhi resi acquosi dalla febbre da uno all'altro degli uomini che erano appena arrivati da Napoli, cavalcando tanto in fretta da portare i cavalli allo sfinimento.

“Era davvero mio fratello?” chiese in un sussurro la donna, non riuscendo ancora a creder che Virginio fosse realmente morto.

Il messaggero che fino a quel momento era stato zitto sollevò lo sguardo verso la sua signora e annuì: “Era lui, ne sono certo.”

“E com'è morto?” chiese Bartolomea, dopo un colpo di tosse che la scosse tutta.

Anche se Bartolomeo d'Alviano era riuscito a portare lontano il grosso dell'esercito di Juan Borja e Guidobaldo da Montefeltro, il castello era ancora stato colpito da un paio di mezzi attacchi e la neve aveva continuato a cadere. Con ciò, il freddo pungente, che sembrava entrare perfino attraverso le spesse pietre delle mura che proteggevano l'ultima roccaforte degli Orsini, era stato il vero nemico per Bartolomea.

Il cerusico parlava di polmonite o consunzione o 'qualcosa di simile', scusandosi di continuo per la sua scarsa capacità di fare certe diagnosi. La donna non gliene faceva una colpa. Quell'uomo era sempre stato impegnato a ricucire i feriti e riparare ai danni fatti da bombarde e fili di spada. Quella che aveva colpito lei era una malattia da vecchi, qualcosa che in un campo di giovani soldati raramente si vedeva.

“Dicono che sia stato male dopo aver cercato di aggredire un inviato del papa.” rispose il messaggero, tornando a guardare il pavimento.

“Aveva segni di percosse?” indagò la signora di Bracciano, tossendo di nuovo.

“No, direi di no...” fece l'altro messo, accigliandosi: “Ma ho trovato la sua pelle molto scura, quasi bluastra.”

L'Orsini si passò pensierosa il lobo dell'orecchio tra indice e pollice e capì. Ci voleva poco a collegare il tutto. Virginio era stato ucciso dalla longa manus del papa. Nemmeno tra le sbarre della sua cella a Napoli era riuscito a salvarsi dalla vendetta di Rodrigo Borja.

“Avete già mandato qualcuno da mio marito per dirgli cos'è successo?” chiese Bartolomea, cercando di alzarsi e poi rinunciando subito, sentendo una scossa molto spiacevole nelle ossa.

“No, mia signora.” disse il messaggero.

Così la donna fece chiamare il luogotenente e dispose affinché qualcuno partisse subito verso la colonna guidata da Bartolomeo d'Alviano e gli riferisse quello che era successo: “E dite a mio marito – precisò la signora di Bracciano, a voce molto bassa – che il papa deve pagare molto caramente quello che ci ha fatto.”

Dopodiché si rivolse di nuovo ai messaggeri arrivati da Napoli: “Vi hanno detto cosa vogliono in cambio del corpo di mio fratello? Dobbiamo fare di tutto per riavere il suo corpo. Dobbiamo potergli fare un funerale...”

“Ma gli Orsini sono stati tutti scomunicati...” fece notare il cancelliere, che in quei giorni portava mezza armatura, come un soldato qualunque.

“Se il papa sapesse dove gli caccerei la sua maledetta scomunica..!” disse Bartolomea, alzando la voce e venendo zittita subito da un violento accesso di tosse.

“I portavoce di re Federico dicono che non hanno intenzione di infierire sul suo cadavere e che potete seppellirlo come preferite, ma a Napoli, e previo pagamento.” riferì uno dei messaggeri.

Bartolomea, a quelle parole, disse sbrigativamente che avrebbe mandato delle disposizioni precise a suo marito, in modo che se ne occupasse personalmente.

Dopodiché chiese a tutti quanti di uscire e lasciarla sola. Tanto i messaggeri, quanto il cancelliere e i soldati che erano nella sala delle udienze eseguirono l'ordine senza dire una parola.

Quando sentì la porta chiudersi, Bartolomea sollevò gli occhi al soffitto ed emise un lento e profondo soffio, che per poco non le scatenò di nuovo la tosse. Sentiva il cuore correre, mentre capiva davvero il senso di quello che era appena stato detto e deciso.

Virginio era morto e nulla avrebbe cambiato quella realtà. Aveva lottato fino alla fine e Bartolomea era certa che suo fratello fosse rimasto fedele a se stesso fino all'ultimo respiro. Di certo era stato il papa a volerlo morto una volta per tutte. E solo perché lei aveva messo in ridicolo Juan, il suo figlio prediletto.

Ormai Virginio era vecchio, prima o poi sarebbe morto comunque, ma Bartolomea sapeva che non avrebbe voluto andarsene così: prigioniero, dimenticato quasi da tutti e probabilmente per colpa di un veleno o di qualche sotterfugio simile.

Prima che potesse avvedersene, Bartolomea scoppiò a piangere, singhiozzando con forza. Si mise le mani sul volto e sentì le lacrime roventi scendere lungo le guance e tra le dita.

'Perdonami, fratello – pensò, desiderando sopra ogni cosa avere vicino suo marito, per poter essere consolata dall'unico uomo al mondo, oltre a Virginio, in grado di capirla – perdonami, perdonami...'

 

Caterina aveva ricevuto giusto quel giorno una lettera da suo cognato, con la quale la metteva a parte delle insperate capacità di Simone Ridolfi come contabile.

Il Governatore di Imola, addirittura, si era lanciato in frasi un po' ingarbugliate che miravano a consigliare proprio Simone come suo sostituto. La Contessa aveva capito molto bene che il cognato non aveva voluto esprimere apertamente la sua idea solo per paura che lei la rifiutasse a prescindere e questa cosa non le faceva molto piacere.

Tommaso l'aveva sempre stimata, anzi, l'aveva sempre amata, per suo stesso dire, malgrado tutto, però dall'ultima volta che si erano visti, era stato sempre anche troppo sulla difensiva, nelle sue missive, come se temesse di essere per qualche motivo odiato da Caterina.

La Tigre aveva presieduto le queste per tutto il pomeriggio, eppure aveva ascoltato tutto in modo molto superficiale, assai più interessata a quello che il cognato le aveva scritto in merito a Ridolfi e quasi tentata di chiamare a Forlì Simone per discutere con lui un'eventuale candidatura.

Così, quando lasciò il palazzo per tornare alla rocca, era ancora tanto distratta che Cesare Feo dovette chiamarla tre volte, prima di indurla a fermarsi.

“Dovrebbe essere una notizia abbastanza certa, ma non sono sicuro che io debba riferirvela.” disse il castellano, stringendo gli occhi e guardando la sua signora nella luce della sera.

Nella rocca c'era ancora vita, ma la neve che aveva ripreso a cadere leggera e il buio che era calato presto rendeva quel tardo pomeriggio un primo assaggio della notte.

“Per favore, dite quel che dovete e poi lasciatemi in pace.” lo incitò Caterina, insofferente.

Cesare occhieggiò un momento alle spalle della donna, come cercando le parole migliori, poi soggiunse: “Ecco, dicono che la moglie di vostro zio, Beatrice Este, sia morta di parto, la notte del secondo giorno dell'anno.”

La Contessa si fece molto seria e si morse un labbro. Non conosceva la moglie del Moro, non poteva dire di essere dispiaciuta per lei. Anche se sapeva che era giovane e anche se la morte per parto era una cosa che trovava orribile, in quel momento il suo unico pensiero andò ai risvolti politici di quello sventurato evento.

“E poi ci sarebbe un'altra cosa – continuò il castellano, facendosi ancora più guardingo, come se, al confronto, la notizia della morte della Duchessa non fosse nulla – si tratta di quel vostro vecchio amico, Virginio Orsini.”

La Tigre smise all'istante di ragionare sulle future mosse di Ludovico e piantò gli occhi in quelli di Cesare Feo: “Che gli è successo?”

“Dicono che sia morto in cella. I sostenitori degli Orsini vanno in giro dicendo che sia stato avvelenato dal papa.” disse in fretta il castellano, come se spillare rapidamente le parole potesse mitigarne l'effetto.

“Ucciso...” sussurrò Caterina, sentendo un nodo stringersi all'altezza della gola.

Il castellano intravide gli occhi della sua signora velarsi di lacrime e fu sul punto di fare qualcosa per confortarla, come posarle una mano sulla spalla o prodigarsi in parole di solidarietà, ma la Tigre non gliene diede il tempo.

A marce forzate, la Contessa lasciò la rocca e si diresse senza esitazioni alla bottega di Bernardi.

Quando arrivò, disse al barbiere di chiudere i battenti appena possibile e il Novacula si affrettò a finire di sbarbare il cliente già sotto torchio, cacciando fuori i due ancora in attesa.

“Cos'è successo?” domandò l'uomo, guardando preoccupato la sua signora, che restava nel suo angolo, il volto pallido e le mani strette l'una nell'altra.

“Ho appena saputo che un mio carissimo amico è stato assassinato.” rispose Caterina, in un sussurro.

Bernardi, mosso come sempre dalla curiosità che lo contraddistingueva, fu tentato di chiedere di chi si trattasse e chi l'avesse ucciso e perché. Tuttavia, quando vide sul volto della Contessa un dolore profondo, che scavava tra le pieghe della sua pelle, non ebbe più il cuore di fare certe insensibili domande e si limitò ad abbracciarla.

La Tigre si lasciò consolare dal barbiere come avrebbe fatto con un padre. La stretta del Novacula era sincera e le parve davvero che potesse in qualche modo calmarla.

Non vedeva Virginio da moltissimo tempo, ormai, dall'ultima volta che era passato in città e si era fermato una notte alla rocca, quando Giacomo era ancora vivo, però per lei era sempre rimasto un punto fermo della sua esistenza. Era stato uno dei primi a credere davvero in lei. Avevano combattuto insieme, avevano fronteggiato la morte uno accanto all'altra. E adesso il papa lo aveva ucciso. Perché era stato di certo lui, le chiacchiere non avevano esagerato nel pensarlo.

Dopo un po', Bernardi la invitò a mangiare qualcosa e così Caterina cercò di darsi un tono e accettò il piatto di minestra che il barbiere aveva da offrirle.

Avrebbe voluto parlare di quando lei e Virginio si erano conosciuti e di come avevano provato subito l'uno per l'altra un forte rispetto, ma ogni volta che provava a cominciare il discorso, la voce le si spegneva nella gola e doveva lasciar perdere.

Parlarono allora del più e del meno e il barbiere provò anche a chiedere qualcosa sul Medici, ma la Tigre liquidò l'argomento dicendo solo: “In questi giorni è fuori Forlì per alcuni affari che sta curando per conto di Firenze...”

“So bene che questo non è il momento migliore per dirvelo, ma dovete saperlo comunque, a mio avviso.” fece il Novacula, quando ebbero finito di mangiare.

La Contessa fece un gesto con la mano, per permettergli di continuare, mentre sperava con tutta se stessa che non si trattasse dell'ennesima catastrofe.

“La scorsa notte è scoppiata una rissa in uno dei lupanari vicino alle mura della città.” iniziò a dire Bernardi: “Sono volati pugni e un paio di coltellate, ma non ci sono stati morti. Pare che il motivo di tutto questo sia stato il dubbio che ci fossero dei casi di mal francese nel suddetto bordello.”

Caterina si appoggiò allo schienale della sedia e allargò le mani sul tavolo: “Ed è così?”

Fino a quel momento, malgrado tutto, complice una fortuna sfacciata, Forlì era rimasta abbastanza immune da quella piaga. Però, se la malattia si fosse sparsa tra la popolazione come stava accadendo in altre città, sarebbe stato un vero problema.

“Io non ve l'avrei detto, ma visto che vostro figlio e che anche v...” il Novacula di fermò un momento, poi proseguì, schiarendosi la voce: “Ecco, volevo solo mettervi in guardia.”

La Contessa stava annuendo lentamente: “Fate venire alla rocca il solito ragazzo. Voglio sapere da lui qualcosa di più. Di sicuro saprà dirmi cosa c'è di vero in tutta questa storia.”

“Certo.” fece il barbiere, e dopo pochi minuti lui e la sua signora si congedarono.

 

La morte di Elisabetta Aldovrandini era arrivata improvvisamente, dopo giorni in cui la donna era parsa quasi sul punto di riprendersi.

Con un paio di respiri irregolari, cogliendo il figlio del tutto impreparato, aveva lasciato la vita dopo quella lunga e strana agonia.

Il funerale si era tenuto subito e Violante Bentivoglio aveva sorretto il marito per tutto il tempo, dato che Pandolfo sembrava completamente incapace di reagire a quello che era successo. Non riusciva neppure ad aprir bocca.

Tornati al palazzo, quella sera, Violante aveva provato a farlo mangiare. Il Pandolfaccio era diventato uno scheletro, nella lunga assistenza alla madre, e i suoi occhi erano circondati da pesanti solchi scuri che lo facevano sembrare uno spettro.

“Mangia qualche cosa.” insistette la giovane, mettendo il piatto davanti al naso lungo del marito.

Con una mano tra i lunghi capelli unti e neri, Pandolfo guardò prima la pietanza che gli era stata offerta e poi la moglie. La fissava senza espressione, come se non la vedesse.

“Pensi di restare così per sempre?!” scattò Violante, dopo un po', ancor più terrorizzata dalla versione apatica del marito che non da quella violenta: “Cosa credi che ti faranno, quando si accorgeranno che sei solo un fantoccio?! Adesso che tua madre è morta, non ci metteranno un momento a...”

La donna non riuscì a chiudere la frase, perché il Pandolfaccio aveva rovesciato il piatto in aria e poi anche il tavolino a cui si erano seduti.

“Dovevi morire tu! Non lei! A cosa servi, tu?!” inveì il ventunenne, colpendo la moglie in pieno viso con tanta forza da farla cadere in terra.

“Dove stai andando?!” urlò, in lacrime, Violante, quando lo vide correre fuori dalla sala.

Pandolfo non le rispose e continuò a correre, le lunghe gambe secche che macinavano metri senza sapere dove portarlo di preciso.

Uscì dal palazzo e cominciò ad attraversare Rimini, immerso nel buio della sera di gennaio. Ogni strada gli sembrava uguale. La poca neve per terra, ormai mezza sciolta, lo faceva scivolare di continuo e tutto quello che l'uomo recepiva era il freddo che gli entrava nelle narici, fino a raggiungergli il centro del suo petto.

Vagò per un tempo infinito, forse, fino a che si trovò senza fiato. Si accasciò contro un muro, in un vicolo abbastanza solitario, e gli ci volle parecchio, prima di accorgersi che due occhi lo stavano fissando.

Sollevò lo sguardo e vide una giovane donna, avvolta in un mantello che ne denunciava l'estrazione abbastanza agiata, che lo guardava in silenzio, dall'altra parte del vicolo.

La bellezza di quella sconosciuta era evidente, anche sotto tutti quei vestiti e con quella luce debole, e il suo sguardo innocente catturò la fantasia di Pandolfaccio come mai gli era successo.

L'uomo si rimise in piedi in fretta e, la testa impantanata nella confusione che lo aveva travolto alla morte di sua madre, decise che non sarebbe stato un grosso peccato, dar sfogo immediatamente ai suoi istinti.

Si avventò sulla donna, che però riuscì a scansarlo all'ultimo minuto, cominciando a correre a perdifiato.

Il Pandolfaccio la inseguì, non badando alla gente che provava a fermarlo o in cui inciampava e alla fine, benché lei fosse riuscita quasi a seminarlo, la vide entrare in una casa.

Il signore di Rimini fissò quell'abitazione con occhi di brace per parecchio tempo e alla fine si ricordò chi ne era il proprietario: Castracane Castracani.

 

Il ragazzo del postribolo si presentò alla rocca con i suoi abiti sgargianti quando ormai era piena notte.

Caterina lo stava aspettando con ansia e quando sentì bussare alla porta della sua camera, lo fece entrare immediatamente.

Il giovane le sorrise in modo affabile e poi attese di ricevere istruzioni o anche solo un tacito permesso. Aveva i capelli biondi un po' più lunghi dell'ultima volta, ma gli olii profumati in cui si era immerso erano sempre gli stessi.

Dato che la Contessa se ne stava vicino al camino acceso senza fare o dire nulla, il giovane provò a proporsi spontaneamente, credendo che fosse quello che la sua cliente cercava quella notte.

Restò interdetto, quando lei sollevò una mano e lo fermò, tenendolo a distanza: “No, questa volta non sei qui per quello, ma per un altro motivo.”

Il sorriso del ragazzo si spense e i suoi occhi chiari assunsero una sfumatura profonda che per qualche istante stupì molto la Leonessa che, tuttavia, cominciò a spiegargli senza reticenze quello che il Novacula le aveva riferito e gli chiese quanto ci fosse di vero e se ci fossero sospetti simili anche nel lupanare in cui viveva lui.

Il giovane assicurò che la sua padrona avrebbe cacciato con un calcio nel fondoschiena qualunque tra le sue ragazze o tra i suoi ragazzi, se avesse anche solo sospettato di avere dei casi di mal francese in casa, e che comunque anche gli altri lupanari erano in regola, per quanto ne sapeva lui.

“Spero che sia vero.” soffiò la Contessa, un po' rincuorata da quella dichiarazione.

Dopodiché, la donna provò a chiedere se per caso Ottaviano fosse stato di nuovo con una delle ragazze di quel postribolo e a quel punto il giovane si fece restio.

“Sapete che non posso parlare dei clienti...” disse, allacciandosi le mani dietro la schiena e allargando un po' le spalle, a disagio.

“Sei stato pagato, per venire qui a darmi informazioni. E poi, ricordati con chi stai parlando.” lo redarguì lei, rintuzzando le braci nel camino.

“Sì, l'ho visto spesso.” fece allora lui, pensando che non valeva la pena di rischiare il collo per una cosa del genere: “Ma ultimamente dicono che non abbia creato grossi problemi. Solo qualche piccola cosa, ma vediamo di peggio.”

La Leonessa non commentò e restò in silenzio. Il ragazzo non poteva saperlo, ma in quel momento Caterina era immersa nei ricordi. Parlare delle violenze che Ottaviano infliggeva, pressoché impunito, alle ragazze che pagava le aveva fatto tornare in mente gli anni in cui lei doveva subire quelle di Girolamo.

E poi i ricordi si snodavano, incrociandosi con quelli legati al suo amico morto da poco.

Si trattava per lo più dei giorni passati al campo degli Orsini, quando suo marito sfuggiva alle battaglie, nascondendosi come un bambino, mentre lei, incinta e di vent'anni più giovane di lui, si metteva in armatura e andava alla carica assieme a Virginio.

“Devo... Devo andarmene, adesso?” chiese il giovane, risvegliando all'improvviso la Contessa dalle sue congetture.

Caterina stava già per dire di sì, quando i suoi occhi scivolarono sulla figura giovane e fresca di quel ragazzo. Doveva ammettere che Bernardi aveva avuto buongusto, quando l'aveva scelto per lei la prima volta.

Ripensò a tutte le volte in cui aveva dovuto sottostare a Girolamo, detestando ogni singolo istante passato con lui, e poi ripensò a Giacomo, a come avesse passati anni preda del desiderio che la consumava tanto da farle perdere di vista tutto il resto.

Cercò di evocare l'immagine di Giovanni, per scacciare quella del suo secondo marito e il cordoglio che portava sempre con sé, ma quella volta non ci riuscì.

Sentendo il vuoto lasciato da Giacomo crescere dentro di lei ancora una volta e con una forza impossibile da contrastare, disse: “No, resta. Già che sei qui e che sei stato pagato, tanto vale...”

Il ragazzo trovò un po' strano quel tono dimesso, ma quando la Tigre gli si avvicinò e cominciò a svestirlo, con gesti quasi rabbiosi, come se lei per prima si odiasse per quello che stava facendo, preferì non fare commenti.

Dopo poco, quando al giovane non restò addosso altro che le vistose brache di velluto azzurro, la donna lo buttò sul letto, mettendosi sopra di lui.

Non capendo la stizza che la Leonessa di Romagna stava mettendo in ogni più piccolo movimento, il ragazzo provò a bloccarla un momento, afferrandole le braccia e facendola fermare.

Caterina mal interpretò quest'iniziativa e disse: “Ti pagherò la differenza, se è questo il problema.”

“Non è questo che volevo dire. E comunque, non sarebbe certo il caso. Per me il tempo con voi è solo un piacere.” rispose egli, leggendo nelle iridi verdi della donna che stava sopra di lui una confusione tanto profonda da essere insondabile.

La Tigre si accorse dello sguardo penetrante e indagatore del giovane e ne restò molto spazientita e pure imbarazzata: “E allora, che volevi dire?” chiese, liberandosi dalla sua presa e cominciando a sciogliergli il nodo del laccio delle brache.

A quel punto, egli non ebbe più la forza né di fare domande, né di cercare di capire. Sentendo su di sé le mani esigenti della Contessa, lasciò che lo svestisse del tutto e poi, con una movenza rapida e fluida, invertì le loro posizioni e iniziò a sollevarle le gonne.

“Volevo solo dirvi – sussurrò – che siete la donna più bella e più strana che io abbia mai conosciuto.”

“Bravo. E adesso taci e fai quello che devi.” lo zittì Caterina, aiutandolo a sfilarle l'abito.

Tuttavia, mentre sentiva su di se il peso di quel ragazzo e le sue narici si riempivano del profumo degli olii in cui lui si era bagnato prima di arrivare a Ravaldino, la Tigre si rese conto come sempre che quell'espediente non sarebbe servito a nulla.

Stretta tra le braccia dell'uomo che non era stata capace di rifiutare, la Contessa provò a ripensare a Giacomo, ma senza riuscirci.

Mentre chiudeva gli occhi, forzando l'immaginazione per trovare il sollievo che cercava, non poteva fare altro che pensare a quanto avrebbe preferito che su di lei, quella notte, ci fosse Giovanni e non un ragazzo cresciuto in un bordello e di cui ancora ignorava il nome.

 
   
 
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