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Autore: LazySoul    16/09/2017    2 recensioni
Trama:
Diana ha 17 anni, è la secondogenita dell'Alpha ed è trattata da tutti come una bambina.
Nel tentativo di dimostrare di essere grande abbastanza per combattere e difendersi da sola, chiederà aiuto alla persona che più la confonde, suscitando in lei sentimenti contrastanti, Xavier O'Bryen.
Tra uno spasimante indesiderato, una migliore amica adorabilmente pazza e un assassino in circolazione, riuscirà Diana ad accettare i sentimenti che prova per Xavier?
Estratto:
«Sei giovane, ancora non hai imparato che spesso gli odori celano delle emozioni», spiegò, appoggiandosi al materasso con le mani e avvicinando il viso pericolosamente al mio: «E sai cosa mi sta urlando il tuo odore in questo preciso istante?», mi chiese, anche se era palese che non si aspettasse una risposta.
«Prendimi», sussurrò ad un soffio dalle mie labbra.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo VI: Nudi

 

Mossi i primi passi senza rendermene effettivamente conto, sospinta da una forza più forte di me.

Poi, dopo essermi fermata, titubante, per pochi secondi, iniziai a correre.

Sfrecciavo tra gli alberi senza peso, veloce e incurante dei rami che mi sferzavano il volto e il corpo. Tutto quello che riuscivo a pensare, anche se non razionalmente, ma con ansia e paura, era che Xavier era a qualche metro da me, forse in pericolo, forse ferito e io dovevo raggiungerlo, dovevo aiutarlo.

Probabilmente un lupo più saggio e con più esperienza si sarebbe tenuto a distanza o, invece di correre verso il pericolo da solo, avrebbe chiamato i rinforzi. Ma io non ero saggia, ero solo una bambina, e pensai a queste possibilità solo quando ormai era troppo tardi.

Di fronte a me due lupi lunghi più di due metri e alti quanto me, si azzuffavano in un groviglio di zanne, arti e code.

Era difficile capire chi dei due stesse avendo la meglio, se quello grigio chiaro tendente al bianco o quello grigio scuro tendente al nero. Certo era che vederli era uno spettacolo da togliere il fiato. Erano entrambi maestosi e forti.

Quando il lupo chiaro puntò il muso nella mia direzione, scrutandomi minaccioso con le zanne scoperte e gli occhi scuri iniettati di sangue, mi resi conto di essere ancora in forma umana, a pochi metri da loro e con molte poche possibilità di sopravvivere.

Io e la mi impulsività avremmo finito col farci uccidere, magari quel giorno stesso.

Senza pensarci due volte mi tolsi gli stivali, decisa a spogliarmi e a trasformarmi.

L’unico pensiero nella mia testa che martellava con decisione e mi spingeva a sbrigarmi era: “Xavier ha bisogno di me”.

Sentii un ringhio basso e furente che mi fece sollevare lo sguardo. Rimasi per qualche secondo inchiodata dagli occhi verde chiaro del lupo nero. Xavier non era contento, non mi voleva lì.

Forse per proteggermi?

Beh, gli avrei dimostrato che non avevo bisogno di protezione, che ero in grado di cavarmela da sola.

Dimentica degli indumenti che avrei dovuto togliere prima di trasformarmi, così da avere qualcosa da indossare dopo essere tornata in forma umana, lasciai che il lupo prendesse il sopravvento.

La pelle mi bruciò intensamente e le ossa mi si spezzarono, per poi ricomporsi dolorosamente. Urlai durante la trasformazione, ma il mio lamento si trasformò ben presto in ululato.

Difficile da descrivere la sensazione di essere sempre se stessi, ma in un corpo diverso; sentire quelle quattro zampe, la coda, le zanne affilate, ogni nervo e cellula parte di sé, come se non avessi appena cambiato forma, ma fossi sempre rimasta la stessa.

La mia trasformazione durò pochi secondi e distrasse entrambi i lupi che ora non erano più avvinghiati l’uno all’altro, ma si scrutavano a qualche metro di distanza, quello scuro davanti a me a farmi da scudo.

Con un ringhio basso e minaccioso affiancai quello nero, fronteggiando lo straniero con coraggio e la mia solita impulsività.

Percepivo chiaramente il disappunto di Xavier; malgrado non potessimo parlare, eravamo in grado di comunicare grazie ai gesti e movimenti del corpo, che risultavano molto più efficaci delle parole.

La posa di Xavier, la sua tensione, mi urlavano chiaro e tondo: «Vattene», ma io non avevo intenzione di ascoltarlo. Sarei rimasta ad aiutarlo, non mi sarei tirata indietro come una codarda, non io.

Rimanemmo immobili, studiandoci a lungo. Xavier non mi degnava di uno sguardo, intento a scrutare l’assassino di suo padre e a non perderlo di vista per un solo istante. Lo straniero invece lanciava occhiate tutt’intorno, sembrava alla ricerca di una via di fuga, una qualsiasi.

Ad un tratto, con un gesto fulmineo, il lupo bianco fece un passo avanti, nella mia direzione. Ero pronta a farlo indietreggiare, attaccandolo alla giugulare, ma Xavier si mise in mezzo, finendomi addosso nel tentativo di impedire allo straniero di avanzare ancora.

Approfittando del momento propizio, il lupo bianco scomparve nella vegetazione, dirigendosi verso nord.

Xavier corse all’inseguimento, un lampo nero tra la fitta vegetazione e io, dopo essermi un po’ ripresa dalla botta al fianco che mi aveva involontariamente inflitto, cercai di stargli dietro.

Il colpo però era troppo fresco e sentivo il dolore pulsare, impedendomi di correre come avrei dovuto per raggiungerli.

Senza volerlo, fui costretta a rallentare e in fine a fermarmi.

Accasciandomi a terra, mi leccai la zona dolorante, mentre il battito del mio cuore raggiungeva un ritmo più regolare e la pelliccia mi sfrigolava, pronta a essere sostituita dalla pelle.

Lasciai che la trasformazione mi bruciasse nuovamente viva, urlando. A causa del forte dolore al fianco, ci impiegai un minuto buono a tornare alla mia forma umana, ritrovandomi in un bagno di sudore e con il respiro corto che non riusciva a riempirmi abbastanza i polmoni d’ossigeno.

Gli occhi mi si riempirono di lacrime di rabbia, dolore e delusione.

Abbassando lo sguardo sul mio corpo notai con orrore che dalla vita in giù, fino al ginocchio, il mio lato sinistro era ricoperto di macchie rosse e tendenti al viola.

Non era la prima volta che mi succedeva, essendo di piccola statura e con uno scheletro più delicato, era normale che finissi col riempirmi di lividi più facilmente, quindi non ero particolarmente preoccupata. Non mi ero rotta niente, tutto sommato mi era andata bene.

“Se Xavier non si fosse messo in mezzo però, a questo punto non mi troverei con il lato sinistro tumefatto”, pensai, sollevandomi in piedi con difficoltà e appoggiandomi all’albero più vicino per mantenere l’equilibrio.

Con i sensi all’erta cercai di capire dove fossero andati, ma si dovevano essere allontanati di molto, perché mi era impossibile udirli.

Zoppicai poco aggraziatamente verso gli stivali, gli unici indumenti rimastimi, e li indossai con fatica. L’aria fredda di Febbraio sulla pelle nuda era più piacevole di quanto pensassi, soprattutto sui lividi, ma sentivo comunque la mancanza di un paio di pantaloni e un maglione.

Mi portai una mano al fianco sinistro e tastai con attenzione la zona arrossata. Secondo i miei calcoli avrebbe smesso di farmi male nell’arco di un giorno al massimo, il rossore probabilmente sarebbe scomparso anche prima. Sì, tutto sommato mi era andata bene.

Sentii dei passi avvicinarsi, senza pensarci recuperai da terra un bastone e lo sollevai, pronta ad ignorare il dolore e a difendermi da chiunque stesse arrivando.

Dopo qualche secondo mi resi conto che i passi erano umani e che l’odore che solleticava le mie narici era quello di Xavier.

Lasciai andare il bastone, sommersa dal sollievo di saperlo vivo e scrutai la vegetazione, cercandolo. I suoi passi erano sempre più vicini e capii dal loro ritmo, che stava correndo. Per questo motivo quando comparve a quattro metri da me, ci mise meno di un battito di ciglia a raggiungermi, stringendomi le spalle con le mani forti e fissandomi con il volto furioso sospeso a pochi centimetri dal mio.

«Cosa diavolo ti è saltato in mente? Volevi farti ammazzare per caso?», mi ringhiò contro, aumentando la presa sulle mie spalle.

Con una scrollata di spalle mi liberai dalle sue mani, che mi stavano facendo male e, mettendo da parte il sollievo, gli puntai l’indice al petto: «Arrogante, presuntuoso che non sei altro! Volevo aiutarti!»

«Nessuno ha chiesto il tuo aiuto!», urlò, schiaffeggiando la mia mano. Probabilmente il mio indice conficcato nella carne non doveva esser stato piacevole.

«Questa è la mia battaglia, Diana, la mia!» ringhiò, colpendo con forza la corteccia dell’albero alle mie spalle.

«Ingrato, odioso», sputai tra le labbra, cercando di spingerlo lontano, ma fallendo miseramente.

Mi bloccò i polsi con le sue mani, questa volta il suo tocco era delicato e attento: «Saresti potuta morire», mormorò, il tono di voce basso e colmo di dolore che mi fece spuntare nuovamente le lacrime agli occhi.

«Non farlo mai più», continuò, lasciandomi i polsi e facendo un passo indietro.

Solo in quell’istante mi resi pienamente conto della situazione: eravamo nel bel mezzo del bosco, da soli e nudi.

Capii che aveva fatto il mio stesso ragionamento quando i suoi occhi persero il contatto coi miei, scivolando verso il basso. Stranamente non mi sentivo in imbarazzo, non in quel momento, non di fronte a lui.

Lasciando da parte il pudore seguii il suo esempio e abbassai lo sguardo sulle sue labbra socchiuse, sul suo corpo allenato e snello, sui fianchi stretti e sul livido scuro all’altezza delle costole. Allungai la mano, sfiorando la sua ferita. Dal suo gemito di dolore e dalla smorfia apparsa sul suo viso dedussi che si dovesse essere rotto qualcosa.

«Hai bisogni di essere medicato», dissi, preoccupata per la sua salute: «Nonna saprà cosa fare», lo rassicurai, cercando di mettere tra noi qualche passo di sicurezza, ma il dolore al fianco sinistro mi impedì di realizzare il mio desiderio, costringendomi a rimanere dov’ero.

«Mi dispiace, volevo…», iniziò lui, portando la sua mano sul rossore che copriva metà del mio corpo.

«Lo so, volevi proteggermi», terminai al suo posto, sospirando: «La prossima volta però, lascia che mi difenda da sola».

Annuì, gli occhi velati da una patina di tristezza mentre continuava ad accarezzare la mia pelle tumefatta, facendomi rabbrividire per la piacevole sensazione.

«Fa tanto male?», chiese, incrociando il mio sguardo.

«No, è solo la botta», lo rassicurai, sorridendogli debolmente.

Avevo il busto interamente coperto dalla pelle d’oca e il freddo, malgrado stesse contribuendo, non ne era il motivo principale.

«Forse è meglio se rientriamo», proposi, facendo un passetto indietro, nella direzione in cui sapevo essere casa mia.

Un sorriso malizioso comparve sulle labbra di Xavier: «Ti facevo più coraggiosa».

Sapevo perfettamente a cosa si riferiva. Lo sentivo anche io il legame, la forte attrazione, che ci univa; il desiderio di fare un passo avanti e di lasciarmi avvolgere dal calore del suo corpo e dall’inebriante odore della sua pelle.

E sapevo che probabilmente sarebbe stato inutile opporsi, ma non ero pronta.

Abbassai lo sguardo sulla sua mano che continuava a sfiorare la mia pelle e, per quanto fosse piacevole, mi costrinsi a fare un passo indietro, interrompendo il contatto.

«Andiamo», dissi semplicemente, voltandogli le spalle e incamminandomi, con passi incerti e doloranti.

Percorremmo qualche metro in assoluto silenzio.

Avrei voluto chiedergli dell’assassino di suo padre e del perché fosse tornato indietro invece di inseguirlo e attaccarlo nuovamente, ma temevo di farlo nuovamente arrabbiare così decisi di tacere.

«Pensavo che il tuo manto sarebbe stato scuro come i tuoi capelli», disse con un tono di casualità, come se stessimo commentando il tempo.

Alzai lo sguardo su di lui con un sopracciglio sollevato; non riuscivo a capire cosa intendesse.

«Hai il manto argentato», continuò, guardando la foresta di fronte a sé: «Sei uno spettacolo trasformata, i tuoi occhi poi…»

Abbassò lo sguardo, incontrando il mio.

«Stai davvero cercando di fare una “normale” conversazione?», chiesi, muovendo le dita per mimare le virgolette, fermando il nostro avanzare, così da poterlo guardare comodamente in faccia: «Ti rendi conto che ci conosciamo da un giorno scarso e siamo nel bel mezzo del bosco, nudi?»

Le sue labbra di aprirono in un caldo sorriso.

«Non mi stai neanche simpatico», aggiunsi confusa, scuotendo la testa.

Le mie parole lo fecero scoppiare a ridere: «Non sono io quello insopportabile».

Oltraggiata, con la bocca aperta e uno sguardo di puro odio, lo colpii al petto con il palmo aperto: «Parla l’arrogante che…»

«Diana!»

L’urlò di mio fratello giungeva da qualche metro più a sud e solo in quel momento, prestando attenzione ai suoni che ci circondavano, mi resi conto che ci stava correndo incontro. Molto probabilmente aveva sentito il mio ululato poco prima, durante la trasformazione o…

Xavier mi superò, facendomi scudo col suo corpo.

«Cosa stai facendo?», domandai, stupita, mentre mi ostinavo a tenere lo sguardo alto e a non abbassarlo sul suo lato B.

In quel momento Kyle sbucò all’orizzonte, accompagnato da una figura che, sfortunatamente riconobbi all’istante: il signor Picard.

«Non ci posso credere», sussurrai, coprendomi il volto arrossato dalla vergogna con le mani, per qualche secondo.

«Siamo a corto di vestiti», constatò l’ovvio Xavier, con un tono di voce allegro e nient’affatto imbarazzato.

«Cos’è successo?», chiese mio fratello, togliendosi la giacca e superando il mio scudo umano per porgermelo, mentre il signor Picard manteneva una certa distanza e osservava con fin troppa attenzione gli alberi che ci circondavano.

Indossai quell’indumento con gioia e, una volta tanto, ringraziai il metro ottanta di mio fratello; avrei potuto tranquillamente indossare quella giacca come vestito e nessuno si sarebbe reso conto che non avevo niente sotto.

Stavo per chiedere a mio fratello perché fosse arrivato con la scorta, quando udii chiaramente altri passi in avvicinamento e, annusando l’aria, riconobbi all’istante quella delicata fragranza di rosa e margherite di campo. Senza perdere tempo sorpassai Xavier e mi parai davanti a lui, coprendo la sua nudità giusto in tempo per impedire a Francine di vedere qualcosa.

«Oh», disse la nuova arrivata, sorridendo: «Mi sono persa qualcosa?».

«Diana, ti avevo detto di non allontanarti!», esclamò Kyle, mentre si sfilava i pantaloni e li lanciava a Xavier, rimanendo in mutande.

«Lo so, ma…», iniziai, venendo però interrotta: «Ma niente! Perché ti è così difficile ascoltare e fare quello che ti si dice?», urlò mio fratello, prima di spostare lo sguardo alle mie spalle: «Cos’è successo?»

Non avevo mai sentito quel tono di voce, colmo di risoluzione e rabbia, uscire dalle labbra di mio fratello e il fatto che lo stesse usando contro di me mi ferì più di quanto ero disposta ad ammettere.

«Mi sono scontrato con l’assassino di mio padre. Stavamo combattendo, quando è arrivata Diana e…», anche Xavier venne interrotto, gli occhi di Kyle tornarono su di me, ancora più furiosi: «E ha pensato bene di trasformarsi e mettersi in mezzo, invece di chiamare qualcuno più competente e starne fuori!»

Avevo la vista offuscata dalle lacrime; non mi ero mai sentita così umiliata in vita mia.

Lo sapevo di non aver agito come ci si sarebbe aspettati da una ragazzina di diciassette anni debole e indifesa, ma solo perché non ero né debole né indifesa! Perché nessuno lo voleva capire?!

La mano di Xavier si appoggiò sulla mia spalla, infondendomi, malgrado tutto, un senso di fiducia che mi diede la forza necessaria per ribattere: «E avrei dovuto lasciarlo a combattere da solo? Venendo a chiamare voi avrei solo perso tempo!»

«Tu sei ancora troppo piccola!», urlò mio fratello ad un palmo dal mio naso.

Una lacrima sfuggì al mio autocontrollo e mi scivolò lungo la guancia sinistra: «Eppure non sei mai riuscito a battermi», mi impuntai, decisa a non lasciargli vincere quello scontro verbale.

«Pensi che combattere per gioco con tuo fratello sia la stessa cosa che scontrarsi con un assassino?»

«Non potrò mai saperlo se continuerete a trattarmi come una poppante!»

«Basta!», tuonò la voce ferma e autoritaria di mio padre.

Alzai lo sguardo e mi resi conto di aver dato spettacolo davanti a metà del branco; oltre Francine, il signor Picard e mio fratello, si erano aggiunti la signora Drake, la signora Jackson e mio padre.

«A casa, tutti quanti. Tranne tu, Xavier, ho bisogno di parlarti», continuò il capo branco.

Ignorando il forte dolore al fianco, scansai la mano calda che ancora si trovava sulla mia spalla e iniziai a correre verso casa.

L’ultima cosa che sentii fu Xavier sospirare alle mie spalle, poi lasciai che fosse l’ululare del vento ad invadere le mie orecchie, il rumore dei rami spezzati e il crepitio delle foglie secche.

Feci una breve tappa nella radura dove avevo studiato per recuperare lo zaino e il libro abbandonato a terra, poi mi diressi verso casa.

Mamma era in cucina a preparare cena, mentre nonna aiutava Edith con i compiti.

«Cos’è successo?», chiese subito mia madre, pulendosi le mani sporche di pomodoro sul grembiule.

«Perché piangi?», domandò la vocina di mia sorella.

Nonna non fece domande, si limitò ad osservare il mio abbigliamento e ad annuire con fare pensieroso.

«Io non mangio», comunicai, ignorando i tre paia di occhi che mi fissavano.

«Ma tesoro…», iniziò mia mamma, allontanandosi dai fornelli per venirmi incontro.

«Non ho fame», dissi semplicemente, schivando il suo tentativo di abbracciarmi e dirigendomi con passo malfermo verso il corridoio, dove mi spogliai della giacca di mio fratello e dello zaino, che lasciai a terra, e mi chiusi in bagno.

Rimasi in mezzo alla stanza per qualche secondo, nel tentativo di regolarizzare il respiro, ma il dolore al fianco continuava a mozzarmi il fiato, impedendomi di riempire i polmoni di ossigeno.

Mi sporsi verso il rubinetto della vasca e aprii l’acqua calda, così da coprire con il suo scrosciare i singhiozzi che mi scuotevano il corpo e i gemiti di dolore.

Qualcuno bussò alla porta, facendomi sussultare.

«Diana?», era la voce della nonna, attutita dal legno che ci separava: «Ti ho preso un po’ di unguento per i lividi, te lo lascio qua fuori».

Udii chiaramente i suoi passi allontanarsi e, solo quando la sentii tornare in sala da Edith, mi decisi ad aprire la porta, prendendo la ciotola che aveva posato a terra.

Era lo stesso unguento di sempre, quello che la nonna mi spalmava sui lividi da quando avevo due anni: arnica e artiglio del diavolo.

Lo appoggiai sul bordo del lavandino, intenzionata a farmi prima un lungo bagno rilassante.

Appena l’acqua raggiunse la giusta altezza chiusi il rubinetto e mi immersi nella vasca, godendo della sensazione paradisiaca che l’alta temperatura riusciva diffondere sulla mia pelle.

Chiusi gli occhi, nel tentativo di rilassarmi ulteriormente, ma dietro alla mie palpebre serrate non potei fare a meno di rivivere il litigio con mio fratello e ogni altro evento che aveva caratterizzato quella giornata.

Non ero più una bambina, perché si ostinavano a trattarmi al pari di Edith? Non era giusto.

“Vuoi saltare cena perché speri di far sentire in colpa tuo padre e tuo fratello. Ti sembra un comportamento maturo?”

Zittii la vocina nella mia mente, affondando completamente la testa sotto il pelo dell’acqua e godendomi il silenzio assoluto.

“Io voglio solo che la gente smetta di trattarmi come una dodicenne”.

Quando riemersi, decisi che mi sarei rivolta all’unica persona che mi trattava come una persona matura: mia nonna. Lei di sicuro sarebbe riuscita a consigliarmi qualcosa, dall’alto del suo quasi secolo e mezzo di età.

Una volta finito il bagno, mi avvolsi nel mio accappatoio color rosa antico e, portando con me l’unguento, mi diressi verso camera mia.

«Signora, è molto gentile, ma non ho bisogno di…»

Mi fermai nel mezzo del corridoio e tornai indietro di qualche passo, così da poter sbirciare la scena in salotto dove Xavier, con ancora addosso i pantaloni di mio fratello e nient’altro, stava cercando di convincere nonna Diana che non voleva essere medicato.

«Se vuoi guarire prima ti conviene sederti e lasciarmi fare», lo rimbeccò lei, spostandogli la sedia e indicandogliela con un cipiglio serio.

«Non…», iniziò lui, poi si bloccò e, voltandosi di scatto verso destra, finì coll’individuarmi fuori dalla porta del salotto. I nostri sguardi rimasero allacciati per qualche secondo.

«Stai bene?», mi chiese, facendo un passo verso di me.

Io indietreggiai: «Un po’ di unguento e sarò come nuova», risposi, anche se sapevo perfettamente che la sua domanda non si riferiva ai miei lividi, non soltanto almeno: «Ascolta nonna Diana, ne sa una più del diavolo».

Mi voltai e mi diressi verso camera mia, a piedi scalzi, lasciando dietro di me una scia di impronte umide sulle piastrelle color ambra.

Ebbi la fortuna di non incontrare nessuno, tranne la piccola Edith, che mi chiese se volevo giocare con lei.

«Mi dispiace, devo studiare», dissi, recuperando da terra il mio zaino.

Sul volto paffuto di mia sorella comparve una smorfia triste, ma stranamente non insistette e se ne andò verso il salotto, dove udivo mia nonna borbottare qualcosa di indistinto.

Una volta in camera mi sfilai l’accappatoio e mi diressi verso la cassettiera.

Il dolore causato dai lividi era diminuito considerevolmente, tanto da permettermi di tornare a camminare normalmente. Subito dopo aver indossato un semplice paio di mutante di cotone nere e una maglietta grigia a cui feci il nodo per tener scoperta la pancia, decisi di spalmare comunque un po’ dell’unguento di nonna Diana sulla pelle tumefatta, facendo attenzione a non metterne troppo.

Recuperato il libro di letteratura inglese, mi coricai sul letto, in modo da non poggiare sul fianco dolorante e sfogliai le pagine, cercando quella che stavo leggendo prima di…

Sospirai: “…Prima di andare a cacciarmi nei guai come mio solito”.

L’odore di Xavier era ancora lì, constatai annusando a fondo il copriletto, ma non mi sarei lasciata distrarre, dovevo assolutamente studiare.

Leggendo ad alta voce le parti più importanti cercai di memorizzare gli eventi più importanti che caratterizzavano la vita di Virginia Woolf e quella di James Joyce. Poi passai alle loro tecniche narrative e all’elenco infinito di opere che avevano pubblicato e che dovevo sapere a memoria.

Per fortuna il test sarebbe stato quasi tutto a crocette, tranne una domanda aperta finale, dove avrei dovuto parlare del libro “letto durante le vacanze invernali”.

Mi sentivo un po’ in colpa per non aver scelto nessuno dei libri che la professoressa ci aveva chiesto di leggere, optando per autori che non rientravano nel programma di quell’anno, ma che avevano attirato la mia attenzione e che non avevo potuto fare a meno di leggere; “Espiazione” di Ian McEwan e “L’uomo che non poteva morire” di Findley.

Sporgendomi verso lo zaino, che avevo abbandonato ai piedi del letto, recuperai il mio lettore mp3 e le cuffie, selezionando “What I’ve done” dei Linkin Park.

Di solito non amavo studiare con la musica, tendevo sempre a lasciarmi distrarre dalle parole del testo e finivo col cantare e ignorare i libri di scuola, ma in quel caso avevo bisogno del suo potere terapeutico.

Quando pensai di aver memorizzato abbastanza nozioni, decidendo di essere decentemente pronta per superare con la sufficienza il compito del giorno successivo, chiusi il libro e controllai i lividi dove la pelle rossa di poco prima era ora di un rosa acceso. Mi alzai in piedi, il lettore mp3 in una mano e il dolore al fianco completamente scomparso, dirigendomi nuovamente verso la cassettiera, per recuperare dei pantaloni.

La porta della mia camera si aprì di poco, lasciando entrare la testa della mia migliore amica.

Mi tolsi di scatto gli auricolari alle orecchie e sbarrai gli occhi: «Sab?»

Isabel entrò in camera mia, chiudendosi la porta alle spalle: «Mamma mi ha detto cosa è successo e l’ho convinta a lasciarmi venire qua per vedere come stavi», disse, prima di puntarmi contro il dito e fare una smorfia di disappunto: «Anche perché qualcuno stava palesemente ignorando il cellulare e le mie chiamate».

Voltai lo sguardo verso lo zaino, avevo abbandonato al suo interno il telefono prima di andare nel bosco e non l’avevo più controllato.

«Mi dispiace», ammisi, tornando a guardare la mia amica, che si era seduta sulla sedia girevole davanti alla mia scrivania: «Ce l’ho in modalità silenzioso».

Sab annuì, giocando con il mio Funko Pop di Jon Snow, accarezzandogli il capo: «Raccontami tutto, Diana. M sento un po’ come lui in questo momento», disse, indicando il pupazzetto che stringeva nella mano destra: «Non so niente».

Lo sguardo della mia migliore amica mi studiò dalla testa ai piedi, fino a bloccarsi all’altezza dei miei lividi: «Potresti iniziare il racconto dicendomi chi è stato».

Annuii e mi coricai sul letto a pancia in su, fissando lo sguardo sul soffitto: «Quando mi è passato il mal di pancia sono andata a studiare in una radura qua vicino, avevo bisogno di prendere un po’ d’aria e…»

«Perché», iniziò a dire Sab, prima di annusare a fondo l’aria, avvicinandosi al mio letto: «Sento l’odore di Xavier sulle tue coperte?»

Arrossii.

«Ecco», mormorai, coprendomi brevemente il viso con le mani: «Diciamo che è venuto a farmi visita per vedere come stessi. Sai, il mal di pancia», spiegai, con un tono impacciato che non era da me.

“Diana, riprenditi. Sei ancora sconvolta per quello che ti ha detto a proposito degli odori, ok. E la tua vita non è più la stessa da quando lo hai visto nudo, comprensibile. Ma non puoi lasciarti condizionare in questo modo da quello sbruffone”.

La mia vocina interiore mi diede la spinta necessaria per cancellare quell’espressione colpevole dal mio volto: non avevo fatto nulla di male e Sab doveva sapere ciò che era successo, basta cincischiare.

«Ma non è questo il punto», continuai, con un tono più fermo e controllato: «Mentre ero nel bosco ho sentito Xavier e il lupo solitario scontrarsi, allora senza pensarci sono intervenuta per aiutarlo. Nel tentativo di proteggermi, Xavier mi ha colpito al fianco e l’altro lupo è scappato. Non so perché l’abbia lasciato andare, forse ha perso le sue tracce».

«Mia mamma ha detto che hai litigato con tuo fratello», disse Sab, fissandomi con uno sguardo colmo di comprensione.

Strinsi forte le mani a pugno: «Kyle pensa di sapere tutto solo perché ha 14 mesi in più di me».

Isabel sospirò, coricandosi accanto a me.

Rimanemmo in silenzio per qualche secondo, perse nei nostri pensieri. Fu Sab a parlare per prima: «Vediamo il lato positivo».

Mi sollevai su un gomito, scrutando la mia amica con uno sguardo confuso: «E quale sarebbe?»

«Hai visto Xavier O’Bryen nudo».

Arrossii all’istante, lasciandomi nuovamente cadere di schiena sul letto, contemplando il muro bianco sopra di noi: «E lui ha visto me».

«Com’è stato?»

«Cosa?», chiesi, fingendo di non aver capito dove volesse andare a parare.

«Come cosa?! Stare nuda di fronte a lui. Vederlo nudo…»

Aprii bocca, ma poi la richiusi.

Cadde di nuovo il silenzio, questa volta fui io a spezzarlo: «Terrificante».

Isabel si sollevò su un gomito, guardandomi dritto in faccia: «Si è comportato male?»

Il suo sguardo serio e teso mi fece quasi commuovere, era bello sapere che lei per me ci sarebbe sempre stata: «No, non si è comportato male».

Un leggero bussare alla porta ci interruppe.

Sulla soglia comparve la nonna: «Isabel, ti fermi per cena?»

La mia amica mi lanciò prima un’occhiata veloce, poi tornò a guardare la nuova: «Non voglio disturbare…»

«Sì, nonna, si ferma a cena», interruppi la mia amica: «Avete bisogno di una mano per apparecchiare o preparare qualcosa?»

«Edith avrebbe bisogno di due giovani fanciulle come voi», disse nonna con uno strano sorriso sulle labbra: «Non le piace disegnare da sola».



******

Ciao a tutti!
Eccovi il nuovo capitolo, spero che vi piaccia e che abbiate voglia di lasciarmi una recensione per farmi sapere che ne pensate!
Mi dispiace se la scena con Xavier e Diana da soli e nudi non è stata come ve la sareste aspettata, ma dovete pensare che si conoscono da appena un giorno, inoltre Diana è ostinata a voler resistere all'attrazione che prova per Xavier, quindi sarebbe stato poco realistico se fosse successo qualcosa di "romantico" tra i due.
Il prossimo capitolo arriverà sabato 23 Settembre!
Un bacio,
LazySoul

 

  
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