À Demian
Capitolo decimo
Contrasti
Attorno a lui c’era solo
oscurità.
Buio fitto e denso, viscoso. Aveva la sensazione
che gli si fosse
appiccicato addosso, se ne sentiva soffocato. Gli ostruiva la gola, gli
mancava
il fiato e l’aria rarefatta pareva opporsi ad ogni suo
tentativo di inspirare
ancora e ancora, faceva freddo e il sudore gli imperlava la fronte e il
corpo
come un secondo strato di pelle impalpabile.
Avrebbe voluto
agitarsi, scalciare quel dannato piumino che pesava addosso facendolo
sentire
come se ogni movimento gli fosse precluso e fosse legato polsi e
caviglie,
avrebbe voluto cercare una posizione più comoda che gli
desse una qualche
tregua.
Invece restava
fermo, schiacciato ad afferrare un buio annichilente.
Sarah dormiva
ancora stretta a lui, raccolta nel suo abbraccio con il volto angelico,
nascosto dalle ombre della notte, che posava placidamente sul suo
petto. Demian
si chiedeva come riuscisse a riposare quando il suo cuore batteva tanto
forte e
ostinatamente da sembrargli che volesse solo sfondargli la cassa
toracica. D’altronde,
in realtà voleva che sua sorella rimanesse proprio
lì, dove si trovava, dove
era il suo posto.
Non voleva
allontanarsi da lei, non aveva mi sentito tanto la necessità
di tenerla vicino
a sé, al sicuro, come se un suo abbraccio potesse bastare a
combattere un male
che Sarah si portava ingenuamente dentro.
A soffocarlo era
solo la paura di tutto ciò che si erano detti, di quello che
non avevano avuto
il coraggio di dire. Sarah aveva incarnato con poche parole i suoi
incubi più
oscuri, ed ora le ombre avevano mani acuminate ed artigli che si
aggrappavano
al suo corpo e facevano a brandelli la pelle, dilaniavano la carne e il
sangue
e l’ultimo dei suoi respiri, lo spingevano, cadeva in un
baratro di insicurezze
senza fondo.
La cosa peggiore
era il sentimento di sospensione che lo tormentava, quel fondo mancato
che
forse avrebbe fatto male, lo avrebbe frantumato, ma l’avrebbe
anche liberato di
un peso. Un unico, grande dolore, e poi basta.
La fine.
Frantumarsi insieme
a lei e sparire.
Perché lo sentiva nei
loro cuori sincronizzati sullo stesso battito, se mai le
verità di Sarah
fossero diventate realtà, schiantarsi a sua volta, toccare
quel fondale di
amarezze e morirci, per quello schianto, sarebbe stata
l’unica cosa sensata che
gli sarebbe rimasta.
Il corpo della sua
bestiolina si abbassava e si alzava al ritmo con il respiro, ed era
delicato e
labile, una visione destinata a dissolversi con l’alba. Se
avesse acceso la
luce, come nelle migliori storie di spiriti, il suo corpicino cangiante
si
sarebbe disgregato in polvere, ma il suono del suo soffice soffio di
vita non
era sufficiente a fornire conforto, gli sembrava di potersi ingannare
senza la
vista.
Sarah sa.
Conosce la sua
condizione.
E se Sarah sapeva,
se conosceva la natura della propria condizione, se era consapevole
delle poche
garanzie del suo esistere, Demian allora era perso.
Incapace d’azionare
gli ingranaggi del proprio pensiero e di raccogliere le proprie
sensazioni
appannate dall’attanagliante dubbio che lo rendeva inerme.
Nessun esame, nessun
controllo potrà garantire nulla.
Nonostante tutto il
tempo trascorso da quel giorno, non è
cambiato niente.
E almeno non fingere
di poter dormire, non fingere che
vada tutto bene.
Non ci sono sicurezze.
Blandi tentativi di
preservare la sua fragilità e
nient’altro.
Smettila di mentirti,
guardati.
Sei patetico.
Si premette un
pugno sull’occhio, schiacciò fino a farsi male,
per ricacciare l’angoscia e
forse il pianto che minacciava di strabordare dagli occhi lucidi.
Quanto ancora puoi
resistere?
E anche se volessi
cedere, pensi sul serio di averne la
possibilità?
Cosa credi di fare,
come pensi di lasciarti andare?
La tua apatia non ti
salverà.
Scivolò fuori dalle
lenzuola che il sole era ben lontano dal mostrarsi. Erano quasi le
cinque, sul
balcone faceva freddo e la luce spettrale della lampada esterna
tratteggiava le
linee di un giardino lasciato all’incuria del disuso.
Accese una Lucky Strike,
inspirò una profonda boccata di fumo e lo trattenne a lungo,
prima di
rilasciarlo. Le volute opache di grigio si confusero rapidamente con le
nuvole
di ardesia che incorniciavano la luna.
Si accomodò su una
seggiola di vimini sgangherata, retaggio di maman come la compagna,
abbandonata
in un angolo e occupata da un cestone di panni da stendere ormai quasi
del
tutto asciugati. Forse, sua zia si era anche raccomandata
perché se ne
occupasse lui, con qualche post-it o una chiamata, ma non ci aveva
prestato
attenzione. Il tavolino intrecciato era sormontato da una lastra di
vetro opaca
e sporca, i fiori nel vaso si erano seccati, alcuni erano caduti, altri
erano
rimasti tetramente attaccati per un soffio e dondolavano leggermente,
come in
una poesia di Ungaretti.
Il vento muoveva le
ombre degli alberi ridisegnando il confine del suo sguardo, e il rumore
delle
foglie che frusciavano riempiva il vuoto silenzio.
Non distolse mai la
sua attenzione da quell’ondeggiare pacato e metodico,
finì la sigaretta
lentamente, lasciò che una parte si consumasse da
sé mentre i suoi occhi
inseguivano complicati pensieri che s’intrecciavano ai
ricordi.
Ricordi di Sarah a
cinque anni, di quell’anno vissuto in ospedale per la
bambina, quando ancora
maman stava bene.
Ricordi di
Jenevieve con quella piccola bestiolina sulle spalle, per i corridoi di
un
reparto infantile, e la mano aggrappata al treppiede delle flebo che le
seguiva
impietoso.
Schiacciò il
mozzicone in un posacenere già ricolmo. Appoggiò
i gomiti alle ginocchia,
guardò il fiato condensarsi.
Forse avrebbe
piovuto.
Mai una notte gli
era parsa tanto lunga.
Il campanile della chiesa,
ben visibile dalla finestra della cucina, lo ridestò dal suo
torpore rintoccando
le sette. Più stanco della sera precedente, Demian
abbandonò la sua seggiola e
un posacenere ricolmo di mozziconi che il cielo albeggiava, con nuvole
sfiorate
dal rosa e dall’indaco.
Le erbacce del
giardino e il gazebo di legno sfibrato dalle piogge e dal sole
perdevano la
loro poesia alla luce del giorno e lasciavano al loro posto solo un
sentore di
degrado, un’impressione di tristezza simile a quella che
coglie un adulto
quando osserva l’altalena su cui giocava da bambino ormai in
rovina. Si
affacciò alla porta della camera di maman e
ritrovò una Sarah profondamente
addormentata. Non aveva notato la sua assenza, e il suo posto accanto
alla
bambina alla fine era stato preso da Lala, che si era completamente
distesa
supina con le zampe tese al vuoto, rigide come nel rigor mortis.
La parte più
irresponsabile e inadeguata di sé valutò
velocemente se farle o meno saltare
scuola. Pensò al cinema, scandagliò tutte le
locandine di film Disney in
uscita, ricordò che Sarah doveva avergli accennato ad
Atlantis.
Qualunque
sciocchezza morì sul nascere, su quella soglia, infranta sul
visino piccolo e
lentigginoso della sua bestiolina. Si passò una mano fra i
capelli per
ravvivarli, dalla nuca le dita scivolarono sul collo e lì si
ancorarono, in
attesa del passo successivo.
Con un sospiro
amaro liquidò l’idea di passare la giornata con
lei e andò in cucina, a
recuperare le arance che aveva comprato apposta il pomeriggio
precedente per farle
una spremuta.
Stava profondendo
tutta la sua attenzione in quei gesti meccanici e banali, quando la
vocina
impastata di Sarah lo riportò bruscamente sul pianeta terra,
nella sua cucina
intoccata da settimane, in una mattinata di una settimana che voleva
non solo
non vivere, ma nemmeno considerare.
«Fratellone?»
Il pigiama era
largo e sgualcito ed i capelli un groviglio di nodi che avrebbe fatto
concorrenza ad una gorgone. Sua sorella si stropicciò gli
occhi pigramente, con
il dorso della manina. Sembrava avesse una domanda inespressa sul suo
visino da
cucciola.
«Bonjour, bestiole»
La confusione si
acuì, gli occhi della bimba si assottigliarono, lo
studiarono con un sospetto
buffo, poi si spalancarono lentamente, riempiti di consapevolezza, ed
allora le
sue labbra di rosa si schiusero gradualmente in un sorriso soffice e
felice.
«Bonjour, mon
frére!»
Gli corse incontro
e Demian fece appena in tempo a gettare la scorza vuota
dell’arancia per
afferrarla al volo. Si esaminarono ancora, e Dami lesse in lei il suo
medesimo
stupore, il medesimo sconcerto nel vivere quell’istante come
un frammento di
ricordo cristallizzato e ormai perduto. Poi, Sarah gli
schioccò un bacio veloce
sulla guancia e ridacchiò soddisfatta.
«Tu fais quoi?»
«Un jus d'orange»
«Adore le jus!»
batté le manine con entusiasmo.
Stirò un sorriso
compassato, per non farle pesare il suo malumore «Pendant va'
te préparer pour
l'école»
La rimise a terra,
Sarah sfoderò un ghigno malandrino e si drizzò
come un soldatino ubbidiente
esibendosi in un pomposo saluto militare. Infine si voltò e
corse verso il
bagno, i piedini nudi che scivolavano sulle piastrelle.
«Et mets-toi les pantoufles, avant que tu
tombes malade!»
E mettiti le
pantofole, prima che ti ammali!
«Oui, maman!»
Sarah scomparve nella
camera da letto della mamma lasciando come strascico solo
l’eco della sua
risata. Averla in casa, sveglia e normale, gli riassestò un
poco l’umore
guastato dal sonno, dall’angoscia e dal troppo fumo che gli
aveva scorticato la
gola. Finì di prepararle la colazione, sistemò la
tavola con una tovaglietta di
Topolino, ricordo di una gita a Disneyland con Beau e Tristan, e
tagliò una
fetta di torta al cioccolato comprata solo per lei.
Non era certo che
la bimba avesse conservato intatte le sue abitudini mattutine, ma nel
dubbio si
era attenuto alla colazione che abitualmente consumava con lui tempo
prima.
Personalmente non aveva fame, lo stomaco si era contorto e ristretto e
se
provava a immaginarlo, non doveva essere più grande di una
noce per le
contrazioni e la nausea che gli causava, perciò mise sul
fuoco la moka del caffè,
giusto per darsi una spinta a restare sveglio.
Lalami aveva fatto
in tempo a mangiare ed il caffè a risalire con un gorgoglio
di protesta, ma
Sarah non si era più mostrata. Bussò alla porta
del bagno con una leggera
apprensione, che si smorzò non appena riconobbe i lamenti
mugugnati della
sorella che inveiva, poco elegantemente, in francese. La
musicalità del suo
accento mascherava le barbarie che bofonchiava, ma Dem si
appuntò comunque
mentalmente di non imprecare più nemmeno per errore davanti
a lei.
«Qu'est-ce que tu
fais?»
Entrò senza
consenso, e Sarah si volse a guardarlo con un broncio frustrato e le
guanciotte
rosse di sforzo «Je ne peux pas!»
piagnucolò la propria indignazione pestando
un piede.
Davanti a tutto
quel fervore solo perché non le riusciva di sciogliere i
nodi, Demian si
concesse il primo ghigno sincero.
«Tu es vraiment un
désastre!»
Le sfilò la
spazzola di mano e Sarah emise uno sbuffo contrariato, l’aria
avvilita di un
cucciolo maltrattato «Di solito me li pettina la
zia»
Potevi chiederlo a me
La vita sarebbe
stata più semplice, se certe verità gliele avesse
mai dette a voce. Invece si
limitò come sempre a pensarle, a pensare che lo voleva
davvero, che sua sorella
dipendesse un poco da lui, ma alla fine andava bene come le veniva
spontaneo ed
era meglio se non avesse ricercato nulla. Concentrato sui filamenti
dorati che
scivolavano tra i denti della spazzola, non si accorse subito che la
maglietta
della bimba, con lo scollo a barca, lasciava intravvedere una spessa
cicatrice
a lisca di pesce, testimonianza dell’importante operazione di
quasi cinque anni
prima.
Per un po’
s’incantò sul quello sfregio, bianco perla su
bianco latte, e quando notò che
Sarah lo studiava dallo specchio con le sopracciglia corrucciate, il
malumore
gli ripiombò addosso.
«Habille-toi, mets-toi
un sweat»
Vestiti, mettiti una
felpa
la rimproverò
istintivamente.
Finì di legarle con
un elastico le ciocche laterali, poi le diede le spalle e si
allontanò, per non
doverla guardare in viso. Per non vedere lo sguardo che le aveva
lasciato,
perché non vedesse l’espressione di disappunto e
rigetto che temeva di avere,
quasi di ribrezzo.
Perché Sarah era
piccola, non poteva capire che il suo malessere era paura per lei e nient’altro, e lui
non era in grado di trasmetterlo in
maniera sana, normale.
«Il fait trop froid
puor toi ici» aggiunse, per smorzare la crudeltà
delle proprie parole, ma il
tono freddo confuse solo sua sorella. La vide annuire e vestirsi
subito, come
in imbarazzo. E quel silenzio inquieto e colmo di disagio si protrasse
per
tutta la durata della colazione. Sorseggiava il caffè a
fatica e guardava Sarah
di sottecchi mentre mangiava e dondolava le gambine sotto il tavolo,
gli occhi
fissi nel vuoto davanti a sé, per non sbagliare nemmeno per
errore ad
incrociare i suoi.
Demian, il peso di
quel silenzio, lo sentì come un macigno di vergogna sotto il
quale avrebbe
voluto finire schiacciato, come punizione per le sue mancanze.
Sua sorella non si
espresse più, lo seguì ad occhi bassi, si fece
aiutare ad indossare il casco e si
sedette davanti a lui nel tragitto fino a scuola, aggrappandosi alle
sue
braccia. Compì ogni gesto con la timidezza di una paura
latente, Demian non
sapeva se per le parole che le aveva rivolto o per il tono aggressivo
che
l’aveva spaventata. Quando si fermò nel parcheggio
e la vide posare i piedi a
terra, provò una fitta allo stomaco. Sarah gli porse il
casco, poi alzò gli
occhi su di lui, con timore.
Abbozzò un sorriso.
«Au revoir,
fratellone»
Si mise sulle
punte, per poter arrivare a lasciargli un bacio sulla guancia, e Demian
assecondò quel gesto candido che riusciva solo a rivelargli
la sua costante
inadeguatezza verso qualcosa di bello. Maman gli aveva insegnato ad
amare il
bello, non gli aveva insegnato come proteggerlo però, ed
allora per tenere stretto
ciò che amava Demian finiva con l’aggrapparvisi
con troppa forza, distruggendo
tutto.
«Au revoir, mon trésor,
tiens-toi bien»
Arrivederci mio
Tesoro, fai la brava
La sua bestiolina
sorrise con più tranquillità, annuì e
gli diede la schiena per raggiugere i compagni
di classe raccolti in capannelli davanti al cancello della scuola.
«Et ne pas courir!»
aggiunse, dopo un breve momento di riflessione. Questa volta Sarah lo
guardò da
sopra la spalla e scoppiò a ridere «Oui
maman!»
***
La casa di zia
Claire s’inseriva in un complesso di villette a schiera dai
muri intonacati di
rosa e finta pietra agli angoli. Demian era seduto da dieci minuti
buoni sul
suo sgangherato motorino, a studiare oltre le siepi basse,
perfettamente
potate, che avvolgevano la ringhiera, il piccolo rettangolo di prato
altrettanto perfettamente curato, un piccolo giardino in miniatura
decorato di
fiori come una bomboniera.
Una perfetta casa
borghese insomma, con un sentierino che conduceva al portico,
lastricato di
grosse pietre e ombreggiato da un acero rosso. Le imposte delle porte a
vetri
erano spalancate e dalla soglia schiusa della cucina usciva una musica
leggera,
ovattata dalle pareti eppure sufficientemente nota perché
dal minimo suono
Demian potesse riconoscerne il brano.
L’ombre et
la lumiere aveva
quel
ritmo pacato e sonnacchioso che ricalcava la personalità
della zia nei suoi
momenti oziosi da animale pigro. Momenti così rari, che se
ci pensava forse
poteva contarli sulle dita di una sola mano.
Sorrise, al
pensiero di Claire che probabilmente ci stava ballando su quella
musica, come
faceva maman ascoltando Elton John quando era bambino e lei doveva fare
le
pulizie. Con uno slancio delle mani si staccò dal sellino,
attraversò la strada
e sostò di fronte al cancello marrone come irrigidito, prima
di decidersi a
suonare. La testa della zia fece capolino quasi immediatamente dalla
porta
della cucina e, appena lo riconobbe, fece subito scattare il cancellino
che si
aprì spontaneamente, senza emettere il minimo cigolio.
Qualsiasi
serramento di casa sua cantava appena lo si sfiorava, ma lì,
in quella casa
perfetta, tutto era impeccabile e funzionale, oliato come fosse nuovo.
E in
quel semplice quanto banale confronto Demian ci leggeva i dettagli che
mettevano in risalto quanto il suo mondo fosse sempre stato in bilico
sul
disastro, sul punto di andare in pezzi perfino su inezie come quelle.
«Ciao, tesoro!» la
zia lo accolse con un grande sorriso.
Aveva labbra
sottili e chiare che nel tendersi quasi scomparivano lasciando solo un
accenno
di contorno. Quell’espressione amorevole si oscurò
in un attimo «Hai portato
Sarah a scuola, vero?»
Gli strappò un
sorriso quell’accusa permeata da un senso di minaccia latente.
Annuì, ma non
aggiunse nulla.
Era fermo sulla
soglia di una casa in cui cercava sempre di non entrare. Se possibile,
nemmeno
voleva avvicinarcisi, perché bastava la vista di tutta
quella vita, raccolta in
una casa che vissuta lo era davvero, lo era da una famiglia, per
causargli
smarrimento e tristezza.
Alla luce di una
tersa giornata autunnale Claire era bellissima, anche in quella sua
tenuta da
casalinga inquieta, con i capelli biondi raccolti in un mollettone
sconclusionato e una maglietta blu elettrico larga e bucherellata, con
qualche
macchia bianca dovuta quasi certamente alla candeggina.
«E perché invece tu non sei a scuola?» per
avvallare il
suo rimprovero brandì il piumino delle polveri neanche fosse
un’arma
contundente e gliela puntò al petto. Claire cercava di
approcciarsi in modo
scherzoso alla sua negligenza, per trovare un punto
d’incontro, un dialogo tra
la precisione che la caratterizzava e il suo essere sconclusionato
all’opposto.
Qualcosa nel suo viso dovette farla desistere però,
perché abbassò il braccio
quasi a rallentatore e lo studiò con un cipiglio da rapace.
Demian aveva
esitato fino a quel momento perché non aveva idea di come
introdurre
l’argomento.
L’espressione della
zia si ammorbidì in un sorriso accomodante
«È successo qualcosa?»
Quando arrivava il
momento di farsi avanti, riusciva sempre e solo a tacere, incapace di
reagire.
E così, tutti i sentimenti che nei giorni precedenti lo
avevano animato,
scomparvero. Persino la collera immensa verso la zia,
quell’odio bruciante, si
era già consumato lasciando solo cenere dietro di
sé, braci appena tiepide che
covavano un rancore sopito.
Claire non aveva
alcuna colpa, per questo non gli riusciva di sfogare sulla sua minuta
figura la
sua frustrazione e il senso d’impotenza. L’unica
persona che riusciva davvero
ad odiare era maman ed il suo egoismo. Lui e sua zia erano sulla stessa
barca,
trascinati dalla corrente della volontà di Jenevieve, che
potevano solo
assecondare, senza realmente opporsi al volere di una donna viziata ed
egoista
in grado di vedere solo se stessa.
Anche sua zia stava
perdendo qualcuno di amato.
Anche lei non
avrebbe mai desiderato che maman si arrendesse.
Ma Jenevieve aveva
sempre preso da sé le proprie decisioni, e
l’avrebbe fatto fino alla fine,
senza considerare il loro dolore.
Annuì ancora e
strinse le labbra fino a renderle persino più esangui
«Devo parlarti di maman»
chiarì, con una voce ferma e distante che non credeva
sarebbe riuscito a
sfoggiare e gli suonava estranea «E anche di Sarah»
Il sorriso materno
della zia si spense piano e una nuova determinazione
illuminò quel volto che,
non fosse stato per i segni del tempo, riusciva a conservare in
sé una traccia
genuina di fresco e giovinezza. Entrò in casa e
lasciò la porta aperta, come
invito affinché la seguisse.
La sala era in
perfetto ordine, Demian non trovava altro aggettivo per definire
l’ambiente
arioso e accogliente. Il parquet scuro era tirato perfettamente a
lucido, il
tappeto persiano ai piedi del divano crema era di ottimo gusto, come
ogni cosa
scelta da Claire, e i libri erano ordinati per grandezza sulle mensole
del
grande mobile che occupava tutta una parete. I soprammobili erano
perfettamente
spolverati e le superfici di legno, la televisione ed il computer erano
immacolati in maniera quasi maniacale, nemmeno in controluce gli
riusciva di
individuare un granello di polvere.
Tutto curato nei
minimi dettagli, come lo era Claire, a rimarcare che con sua madre
condivideva
l’aspetto e la genetica, ma nient’altro.
La zia si era
compostamente accomodata sul divano, appena sul bordo, e con le mani si
massaggiava le tempie «È per questo che non sei
più andato a trovarla, vero?
Hai scoperto cosa ha deciso di fare»
«Sì»
«Te ne volevo
parlare, ma sei sparito. Non sono più riuscita nemmeno ad
incrociarti» spiegò,
fermando i movimenti circolari delle dita per alzare lo sguardo e
fissarlo
negli occhi. Si mordeva il labbro sottile, forse era il senso di colpa
per una
mancanza che non aveva realmente avuto. Perché era vero,
aveva assecondato i
suoi soliti colpi di testa e aveva fatto in modo di non essere
reperibile, di
questo Claire non aveva motivo di biasimarsi. Forse almeno, avrebbe
potuto
saperlo prima, ma anche ad esserne informato, non cambiava il fatto che
non
avrebbe avuto comunque voce in capitolo su quella scelta.
Valutò se sedersi,
per provare ad avere un dialogo tranquillo e sereno, ma il suo corpo
rigettava
quella possibilità, sedersi era l’ultima cosa che
avrebbe potuto fare, aveva
addosso troppa adrenalina, troppa ansia per quello che avrebbero dovuto
dirsi,
perché rispettava Claire e inconsciamente, e neanche tanto
inconsciamente,
aveva paura di lei.
Prese un respiro
profondo, chiuse gli occhi un istante, per allontanare
l’immagine stranamente
prostrata di una donna indistruttibile.
«Non voglio che
Sarah la veda»
«Sarah non dovrebbe
vedere sua madre?» sussurrò Claire, basita.
«Sì» lo disse con
voce ferma e sicura, un tono che non ammetteva repliche, ma era
già evidente
dalla luce di quegli occhi ferini che la zia non avrebbe esitato a
ribattere.
Infatti, Claire si
alzò, tentando di far valere tutta la sua altezza, un metro
e cinquantotto di
donna con la brutalità di uno scaricatore di porto celata
dietro l’apparenza da
nobildonna. Ogni traccia di comprensione e benevolenza era stata
soppiantata da
una destabilizzante decisione.
«Non ci siamo mai
capiti bene, Dami, quindi questa volta sarò molto chiara e
moto diretta e al
diavolo i moralismi. Non sono mai stata d’accordo con nessuna
delle decisioni
prese negli ultimi anni. Mia sorella è
un’irresponsabile, e io sono convinta
che tutti i suoi tentativi di assecondarti ti abbiano fatto
più male che bene.
Ma l’ho ascoltata, perché non avevo nessun diritto
di intromettermi. Non volevo
che ti sobbarcassi del peso che ti sei preso, non volevo allontanare
Sarah da
voi, eppure vi ho aiutati a farlo, in fondo anche io temevo che potesse
stare
male.
Ma ora le cose sono
diverse. Sono cambiate Dami, devi aprire gli occhi»
Fece un passo verso
di lui, e Demian dovette sopprimere l’istinto di
allontanarsi. Avevano parlato
fino allo sfinimento di ciò che Claire aveva sempre pensato,
sentirlo però lo
poneva ogni volta in uno stato d’inadeguatezza che non sapeva
come gestire. La
zia gli prese il volto tra le mani, lo inchiodò con lo
sguardo impedendogli
qualunque tentativo di sottrarsi alla sua brutalità.
«Jenny sta morendo»
Lo scandì
lentamente, con crudeltà quasi, e davanti agli occhi della
donna che lo aveva
cresciuto, occhi gemelli a quelli di sua madre, di sua sorella,
provò il panico
di non riuscire a raccordare i propri pensieri.
Pensi davvero che non
lo abbia capito, zia?
Non riesco a pensare
ad altro ormai, ci provo, ma non ci
riesco.
L’unica cosa di cui
fosse consapevole, era di star perdendo maman. Accettarlo era
un’altra
questione, una questione che magari avrebbe affrontato da solo, un
giorno.
Forse.
Le afferrò i polsi
e strinse con troppa forza, lo comprese dal lamento appena stentato che
le
sfuggì tra i denti, ma non gliene importò. Voleva
essere altrettanto cattivo e
riuscire a farle almeno un poco del male che riceveva da lei con una
manciata
di parole.
Si chinò e soffiò
ad un palmo da suo volto, con gelida indifferenza «Lo
so»
«Jenny è mia
sorella. Non te lo dirà mai perché non vuole
ferirti, ma desidera rivedere sua
figlia prima di morire» la voce
s’incrinò su un’esitazione, la zia
s’irrigidì e
il viso si congestionò in una smorfia di sofferenza
«Anche Sarah vuole solo
rivedere sua madre. Non hai alcun diritto di decidere per lei»
La rabbia della
vergogna lo travolse «Nemmeno tu!»
ringhiò, solo perché non voleva pensarci,
non voleva ascoltare ciò che sapeva, non voleva ritrovarsi a
gestire i suoi
sensi di colpa e la durezza della zia contemporaneamente, era una
battaglia da
cui avrebbe potuto uscirne solo sconfitto. Sfogò la sua
inadeguatezza
aumentando la stretta, finché gli occhi strizzati nel dolore
di Claire non gli
fecero capire di star esagerando. Allentò la presa e la zia,
con un movimento
secco e un’espressione rancorosa, si liberò. Dei
cerchi rossi segnavano la
pelle morbida dei suoi polsi sottili.
«Io non lo faccio
infatti! Faccio decidere lei!» gli urlò contro,
indignata, massaggiandosi il
polso destro con troppa energia, come a scacciare il senso della sua
mano
avvinghiata a lei per ferirla.
«Sarah è troppo
piccola per capire, non sa a cosa va incontro. Non ha idea di cosa
dovrà
vedere!»
«Lo so che vuoi
proteggerla, Dio solo sa se non è quello che vorremmo fare
tutti, ma Sarah
conosce la morte più di quanto tu possa anche solo
immaginare! La affronta
tutti i giorni, muore dentro tutti i giorni e la colpa è
anche tua! Non puoi
proteggerla e poi abbandonarla, quando lei aspetta soltanto che tu le
dedichi
un’ora, una dannata ora della tua vita!»
Demian indietreggiò
di un passo, non riuscì a deglutire.
Lo sguardo di fuoco
della zia lo inceneriva e ammutoliva, la donna avanzò
puntandogli l’indice al
petto, decisa a sputare le parole come veleno succhiato da una ferita
infetta.
«Tu hai veramente
idea di come sia la quotidianità di tua sorella? O ti
è più facile far finta di
aver dimenticato? Non può giocare, non può
correre, si affatica per un nonnulla
e l’unica cosa che le riesce è guardare gli altri,
ed io posso solo guardare
mia nipote che si lascia vivere come una spettatrice impotente!
Vegliarla, e
sperare che non stia male e non abbia crisi, perché quando
sta male lei vuole
soltanto te, e la metà delle volte tu non ci sei!»
Lo colpì al petto,
ripetutamente, un tocco debole in realtà, ma reso forte
dalla collera e per
Demian così insostenibile che indietreggiò
finché non incontrò il bordo della
scrivania del computer. Cercò di restringersi, quasi di
appollaiarvisi sopra,
di scomparire.
Era quella la forza
della zia, lo faceva sentire minuscolo.
Un altro colpetto e
l’indice sollevato in un gesto di velata minaccia
«Non ci sei perché sei un
vigliacco, perché hai paura! È pietoso dover
vedere una bambina di nove anni
che lotta per non farti preoccupare, perché non credere, lei
lo sa che
scapperesti! Sa perfettamente che se ti rendessi davvero conto dei suoi
limiti
la lasceresti sola!»
S’interruppe,
solamente perché da qualche parte in quel suo sfogo aveva
iniziato a piangere,
ed ora non le riusciva più d’ingoiare i singhiozzi
di nervoso. Avere quegli
occhi da falco, gli stessi occhi della sua coscienza, mietitori della
sua
anima, puntati addosso con tanta energia, gli toglieva le parole.
Aveva sempre
pensato che la malattia di maman gli avesse rovinato la vita,
l’avesse segnata
al punto che l’unica cosa che gli restasse di sopportabile
era la certezza che
almeno Sarah si sarebbe salvata, che l’unica cosa buona della
sua vita era
stato farsi carico di quel dolore per non doverlo spartire con la
propria
sorellina.
Solo quello.
Ed ora gli era
appena stata tolta quell’unica possibilità.
Non hai mai capito
niente
Sei solo un vigliacco
ed un bastardo, credi di avere
tutte le risposte, ed in realtà sai solo girare in cerchio.
Sarah fa bene a
dubitare di te, sei solo un vile su cui
non si può contare, sai soltanto scappare.
S’illudeva di
essere forte, si aggrappava alla convinzione di poter affrontare tutto,
ché se
non cedeva, se riusciva a rimanere tutto d’un pezzo, anche
solo nell’apparenza,
sarebbe passato indenne attraverso i paradossi della sua vita. Il mondo
era
orribile, chi non era forte abbastanza veniva masticato e sputato, e
lui aveva
trascorso anche troppo tempo della sua esistenza provando un opprimente
senso
di mortificazione.
Per questo se lo
era imposto, si era costretto a essere forte, una muraglia
impenetrabile. Ma
forse, aveva ottenuto solo di essere ermetico, e dentro quelle mura
aveva
nascosto un’anima indifesa che soffriva da sola, senza
speranza di ricevere
aiuto.
Si sentì inerme, le
braccia gli ricaddero lungo i fianchi, come non gli appartenessero
più. La
verità, per qualcuno come lui, era qualcosa di atroce che lo
faceva avvizzire
da dentro. La mano di Claire raggiunse il suo viso, gli
accarezzò la guancia e
un brivido, come un sussulto, lo attraversò. Fu come un
risveglio dal suo
torpore apatico.
La guardò negli
occhi, gli parve di vederla per la prima volta. La mano della zia lo
stava
afferrando e lo tratteneva, impedendo al vuoto senza ritorno dei suoi
pensieri
di risucchiarlo lontano. Il suo calore, la sua tenerezza affettuosa,
erano un’ancora
che lo affrancava alla realtà.
Aveva la pelle
bagnata.
Forse stava piangendo,
non se ne era accorto, era un inetto succube della vita, non era in
grado
nemmeno di trattenere quel male per sé. Quando si parlava di
Sarah, l’impotenza
lo annientava.
«Dami, non le hanno
dato più di tre mesi di vita. È
l’ultima possibilità che abbiamo di rimettere a
posto le cose, non voglio avere questo rimorso. Non volevo
ferirti… lo so che
la ami, so che Sarah è la persona più importante
della tua vita. Non volevo
mettere in dubbio il tuo affetto, ma il tuo amore non deve
soffocarla»
«È tutto ciò che
mi
resta»
Si vergognò di
doverlo sussurrare. Si vergognò di dover ammettere una
verità tanto deprimente,
la voce roca s’incrinò. Per quanto le volesse bene
non era in grado di
proteggerla, la vita era troppo più forte di lui
perché potesse tenergli testa
con la sua debolezza.
Chinò il capo,
appoggiò mollemente la fronte sulla spalla di Claire ed un
singhiozzo strozzato
venne soffocato dal corpo piccolo e snello della zia.
«Non è tutto,
c’è
molto di più. Questa è casa tua Dami, se solo
volessi vederlo. Quando vorrai,
questa porta sarà sempre aperta per te, avrai sempre un
posto dove tornare. Tu
non sarai mai solo» un sospiro tremulo, la sua mano fra i
capelli, ad
accarezzargli la nuca «Non sei solo»
ribadì con più forza. Glielo ripeté a
lungo, come una litania, un lento e pacato incantesimo che intesseva
attorno
alla sua anima stanca una rete di sicurezza a cui si
aggrappò con tutte le sue forze.
Il tono calmo, dolce eppure incredibilmente fermo di Claire, gli
trasmise la
giusta calma; ricacciò l’angoscia, si
staccò da lei. Si guardarono negli occhi
ancora una volta, Demian trattenne un brivido.
«Ascoltami ora. Io
non lo farò senza di te. Voglio che tu le sia accanto quando
le diremo di
Jenny. Anche tu per lei sei tutto, e voglio che sia tu a sostenerla. Ma
per
farlo, devi prima affrontare Jen. Devi giurarmi che lo farai»
Le dita sostarono
con leggerezza sicura sulla sua guancia e Demian faticò a
deglutire. Accennò ad
abbassare il capo, ma Claire non glielo permise, con ferma dolcezza lo
costrinse ad affrontarla.
«Giurami che sarai
con lei, quando le diremo che Jen sta per morire»
Ebbe paura, così
paura che le mani tremarono. Le chiuse in due pugni serrati,
cercò un
equilibrio, di domare quel terrore di non essere all’altezza,
di non poter
sostenere Sarah. Paura di deluderla, di soffrire troppo e di essere
tanto
compreso dal proprio dolore da non essere in grado di curare la
sofferenza di
sua sorella.
Pensò a Sarah e si
disse che almeno per una volta, qualcosa le doveva.
«Je promets»
***
Il
cellulare aveva ripreso a vibrare.
A
contatto con la superficie di legno del
tavolo faceva un baccano assurdo, un rumore che gli stava trapanando il
cervello
acuendo un mal di testa già di per sé epocale.
Si
interruppe, ma solo per pochi istanti. Il
tempo di qualche sospiro e vibrò di nuovo. Era la decima
volta e Demian
iniziava ad essere intollerante. Abbandonato il proprio corpo in
maniera
scomposta sul divano, il movimento più esteso che gli
riusciva di compiere era
inclinare la testa all’indietro. Persino la bottiglia di
birra, piena a metà,
che stringeva fiaccamente tra le dita, risultava troppo pesante.
Osservò la
linea di quel liquido ambrato dondolare pigramente, ipnotizzato. Di
come fosse
arrivato a casa ricordava poco, la mente era annebbiata. Sapeva solo
che dopo
aver parlato con la zia si era sentito troppo male, così
male che non sapeva
nemmeno come gli riuscisse di restare in piedi. Sapeva solo che era
stanco,
stanco, e aveva freddo di una disperazione che lo svuotava. Era tutto
più
facile, se ogni cosa si sfocava. A terra, ai suoi piedi, altre quattro
bottiglie vuote erano accatastate e una, sdraiata, gocciolava sul
tappeto già
largamente macchiato. Non ne aveva mai rette più di tre, ma
quel giorno aveva
accettato una personale sfida con se stesso. Eppure non bastava, a quel
senso
di leggerezza, di ovatta nella testa, si era aggiunta una nausea
prepotente che
sembrava solo il riflesso fisico di un malessere che non sapeva
esprimersi.
Lalami
era una palla di pelo raccolta sul
divano, al lato opposto, lo guardava inquieta e non aveva il coraggio
di
avvicinarlo. Il suo musino appuntito che ricordava una volpe era
infossato
nella sua coda e quegli occhietti vigili lo studiavano con
un’attenzione che
rasentava la paura. Quando beveva, il cane gli stava sempre a debita
distanza,
come non lo riconoscesse, e allora Demian ricambiava quelle occhiate
intimorite
con una pena infinita, per se stesso, per tutto ciò che
amava in modo troppo
maldestro per essere amore.
Lo prese
un altro conato di vomito, non sapeva
quanto fosse colpa dell’alcol e quanto di quella giornata del
cazzo. Quanto di
Claire, quanto di quella sua vita.
Quanto
di maman.
Sta
morendo
Faceva
quasi ridere. Stava morendo da anni,
eppure era una possibilità che veramente non poteva prendere
forma, non
attraverso i suoi occhi. Restava una verità sospesa e
irreale, improbabile,
messa in conto più per evenienza e convenzione che per una
certezza.
Il
cellulare ricominciò a vibrare.
Aggrappandosi
allo schienale del divano si
aiutò ad alzarsi, barcollò pericolosamente ed i
contorni degli oggetti si
sfaldarono e riunirono e separarono di nuovo, stritolandogli lo stomaco
in un
nuovo impulso a rigettare. Ciondolò verso la cucina,
afferrò il telefono e
interruppe quel rumore martellante rispondendo senza guardare il
numero.
«Ehi!
Buon giorno amante dei clichè!»
La voce
così squillante e allegra lo colpì a
tradimento, allontanò l’apparecchio dal viso e lo
studiò assottigliando gli
occhi, quasi cercasse di ricordare cosa fosse e come funzionasse. La
verità era
che non era sicuro di aver riconosciuto l’altra persona o, se
ci aveva visto
giusto, non poteva essere vero, sarebbe stato troppo ironico,
un’altra presa in
giro della vita.
«Annie?»
biascicò, pronunciando la prima
parola sensata dopo ore di sconclusionati borbottii. Scoprì
di avere la bocca
impastata, una sensazione sgradevole come se gli avessero fatto
l’anestesia
alla lingua.
La
ragazza non gli rispose, non subito. Lasciò
trascorrere un lungo momento di silenzio, e Demian sentì che
le gambe
iniziavano a flettersi, gelatinose e assolutamente non in grado di
reggerlo
ancora per molto.
«Cosa è successo»
ogni traccia di ilarità si era dileguata, ed ora quella voce
allegra si era
fatta seria e indagatrice. Se fosse stato più lucido,
avrebbe provato a
leggerci altro, ma non riusciva a concentrarsi. Riusciva a pensare solo
che era
Arianna, ed era veramente ingiusto. Aveva atteso e desiderato fino allo
sfinimento
una sua chiamata, ed il grande momento era giunto solo ora che era
troppo in
aria per poterne gioire.
Registrò la domanda
e si accorse, con sgomento, che non era una domanda, che quella ragazza
aveva
nei suoi riguardi un intuito spaventoso.
«Niente» borbottò.
Si sfregò gli
occhi, la stanza non la smetteva di ondeggiare, si appoggiò
al tavolo con la
mano libera.
Una canna, ecco cosa
devo farmi. Con una canna mi rilasso
di sicuro
«Demian… hai
bevuto?»
Si sentì punto sul
vivo come se Arianna lo avesse fisicamente pungolato.
«Perché?»
scattò
sulla difensiva. Non capiva come lo avesse compreso, così da
poche parole, ma
si vergognava, era ancora sufficientemente lucido forse, per la
vergogna.
«Perché ho visto
persone sfondate dall’alcol abbastanza spesso da riconoscere
subito quando
qualcuno non è lucido» ribatté pratica
«E il tuo “perché” da bambino
che
nasconde le caramelle è decisamente una conferma»
Tutte quelle parole
dette con la rapidità della sua parlata, lo lasciarono
stordito. Demian sbatté
le palpebre un paio di volte, cercando di mettere a fuoco quel discorso
decisamente troppo articolato per la sua momentanea condizione.
«Ok, hai ragione»
mormorò arreso.
Barcollò verso il
divano, si lasciò cadere fra i cuscini e portò un
braccio a coprirsi gli occhi.
Così nascosto, il mondo smise un istante di girare, ma la
testa pulsava e tutto
andava male, lo stomaco si restringeva ancora e ancora e forse avrebbe
vomitato.
Che importanza
aveva negare l’ovvio?
C’era troppa luce e
lui voleva solo finire di bere, in quella bottiglia nera ci vedeva
tutto un
senso.
«Cosa è successo
Demi?»
«Niente» sussurrò.
Mai una parola gli era parsa tanto vuota, così vuota che gli
venne ancora
l’assurdo desiderio di piangere.
«Tutto»
Arianna non rispose,
poi Dem riconobbe uno dei suoi pesanti sospiri dal sapore della resa
«Dimmi
cosa devo fare»
Suonava categorico
come un ordine e Demian pensò che fosse tipico di lei, che
le si addicesse,
perché Arianna parlava sempre con una sicurezza assoluta che
la faceva apparire
indistruttibile e irreale. Tutta quella sicurezza metteva solo in luce
la
propria debolezza, quella pateticità che cercava di
nascondere ma restava
comunque davanti ai suoi occhi senza che potesse contrastarla.
Lo faceva sentire a
pezzi, non riuscì a frenare il pianto quieto che lo prese a
tradimento, né ci
provò, quasi non se ne accorse, era troppo ubriaco per avere
la lucidità di
biasimarsi. Desiderava solo qualcuno a cui appoggiarsi e un
nascondiglio dove
infossare il suo viso, come da bambino, quando cercava riparo nel collo
di
maman e la sua spalla sembrava l’unico porto sicuro di tutta
la vita. Voleva
essere cullato e che qualcuno gli dicesse che sarebbe andato tutto bene.
E non era
importante che fosse vero, lui la verità non la voleva.
Voleva essere illuso,
voleva essere protetto, almeno un poco per una volta.
«Vieni qui Annie?
Vieni da me…»
Gli mancò il fiato
«Ti prego… ti prego
vieni da me, non lasciarmi solo»
«Arrivo subito.
Metti via quella bottiglia Demi, siediti e aspettami»
La sua risposta
arrivò immediata e senza ombra di esitazione, e il suo corpo
rispose
immediatamente a quella dolce fermezza, le spalle si sciolsero e Demian
si
raccolse. Il tono materno, melodioso di una sfumatura infantile, aveva
un che
di severo, ma la sua durezza riuscì solo a farlo sentire
più tranquillo, era
come se qualcun altro stesse prendendo il timone e lui potesse
finalmente
smetterla di preoccuparsi della direzione della sua nave.
«Aspettami, ti
prometto che arrivo presto. Sono con te… non ti lascio
Demi»
Guida tu Annie,
fa’ quello che vuoi. Io la strada non la
conosco più