Storie originali > Generale
Ricorda la storia  |      
Autore: 2009_2013    17/09/2017    0 recensioni
[https://it.m.wikipedia.org/wiki/Quaderni_di_Serafino_Gubbio_operatore]
[https://it.m.wikipedia.org/wiki/Quaderni_di_Serafino_Gubbio_operatore]Si tratta di una riscrittura creativa. È stata creata da me anni fa per un concorso ma mi sembrava troppo insignificante, così decisi di non partecipare. Cercando tra i documenti ho trovato questa mi al vecchia storia e ho pensato di pubblicarla
Genere: Drammatico, Parodia | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Salve gentilissimi ospiti, permettetemi di presentarmi io sono lo Spazio dove avete costruito le vostre case, sono il Tempo che vivete durante le vostre vite, sono l'Ingranaggio che manda avanti il mondo. Sono tutto questo è anche di più ma per ora potete semplicemente chiamarmi Don Dlansert. Sono lieto che delle così giovani menti siano interessate al mio essere, dovete prima di tutto sapere che essere "l'Ingranaggio che manda avanti il mondo" non è certo un impresa da poco, è mio preciso compito intervenire nelle vite dei mortali per creare un equilibro perfetto da fortuna e sfortuna, giustizia e ingiustizia. Molti credono che si tratti di Karma altri di pure coincidenze ma non sanno che invece si tratta di ben altro. Credo che una dimostrazione sia il miglior modo per comprendere.

Vediamo vediamo quale quaderno scegliamo oggi; oh scusate mi ero dimenticato tutti i pensieri dei mortali  vengono annotati in dei quaderni che variano in base alla personalità, alle azioni fatte e alle decisioni prese.

Quindi,quindi quale quaderni scegliamo....uno rosa a forma di unicorno? No! Uno color verde militare? Neanche. Eccolo finalmente, un quaderno semplice, monotono,privo di colore o qualunque tipo di ispirazione. Un modello ordinario mio caro.. Com'è che ti chiami? Oh sì, mio caro Serafino Gubbio; ma da oggi la tua vita cambierà, come per magia.

 

Studio la gente nelle sue più ordinarie occupazioni, se mi riesca di scoprire negli altri quello che manca a me per ogni cosa ch'io faccia: la certezza che capiscano ciò che fanno.

In prima, sì, mi sembra che molti l'abbiano, dal modo come tra loro si guardano e si salutano, correndo di qua, di là, dietro alle loro faccende o ai loro capricci. Ma poi, se mi fermo a guardarli un po' addentro negli occhi con questi miei occhi intenti e silenziosi, ecco che subito s'aombrano. Taluni anzi si smarriscono in una perplessità cosí inquieta, che se per poco io seguitassi a scrutarli, m'ingiurierebbero o m'aggredirebbero.

No, via, tranquilli. Mi basta questo: sapere, signori, che non è chiaro né certo neanche a voi neppur quel poco che vi viene a mano a mano determinato dalle consuetissime condizioni in cui vivete. C'è un oltre in tutto. Voi non volete o non sapete vederlo. Ma appena appena quest'oltre baleni negli occhi d'un ozioso, come me, che si metta a osservarvi, ecco, vi smarrite, vi turbate o irritate.

Conosco anch'io il congegno esterno, vorrei dir meccanico della vita che fragorosamente e vertiginosamente ci affaccenda senza requie. Oggi, così e così; questo e quest'altro da fare; correre qua, con l'orologio alla mano, per essere in tempo là.

 

Oh mio caro che tristezza che monotonia, preferisco risparmiarvi il resto dei suoi pensieri...

Vi basti sapere che Serafino è un uomo semplice ma ambizioso, desidera trovare impiego nell'industria cinematografica. Certamente posso aiutarlo ma non posso sicuramente fare miracoli, credo che si dovrà accontentare del ruolo di cameraman in una agenzia abbastanza prestigiosa.

Non devo far altro che modificare qualche riga del testo e l'intero quaderno cambierà registro.

 

Sono operatore. Ma veramente, essere operatore, nel mondo io cui vivo e di cui vivo, non vuol mica dire operare.

Io non opero nulla.

Ecco qua. Colloco sul treppiedi a gambe rientranti la mia macchinetta. Uno o due apparatori,

secondo le mie indicazioni, tracciano sul tappeto o su la piattaforma con una lunga pertica e un lapis turchino i limiti entro i quali gli attori debbono muoversi per tenere in fuoco la scena.

Questo si chiama segnare il campo.

Lo segnano gli altri; non io: io non faccio altro che prestare i miei occhi alla macchinetta perché possa indicare fin dove arriva a prendere.

Apparecchiata la scena, il direttore vi dispone gli attori e suggerisce loro l'azione da svolgere. Io domando al direttore:

- Quanti metri?

Il direttore, secondo la lunghezza della scena, mi dice approssimativamente il numero dei metri

di pellicola che abbisognano, poi grida agli attori: - Attenti, si gira!

E io mi metto a girar la manovella.

 

[…]

          La macchina è fatta per agire, per muoversi, ha bisogno di ingojarsi la nostra anima, di divorar la nostra vita. E come volete che ce le ridiano, l'anima e la vita, in produzione centuplicata e continua, le macchine? Ecco qua: in pezzetti e bocconcini, tutti d'uno stampo, stupidi e precisi, da farne, a metterli sú, uno su l'altro, una piramide che potrebbe arrivare alle stelle. Ma che stelle, no, signori! Non ci credete. Neppure all'altezza d'un palo telegrafico. Un soffio li abbatte e li ròtola giú, e tal altro ingombro, non piú dentro ma fuori, ce ne fa, che ‑ Dio, vedete quante scatole, scatolette, scatolone, scatoline? ‑ non sappiamo piú dove mettere i piedi, come muovere un passo. Ecco le produzioni dell'anima nostra, le scatolette della nostra vita!

Che volete farci? Io sono qua. Servo la mia macchinetta, in quanto la giro perché possa mangiare. Ma l'anima, a me, non mi serve. Mi serve la mano; cioè serve alla macchina. L'anima in pasto, in pasto la vita, dovete dargliela voi signori, alla macchinetta ch'io giro. Mi divertirò a vedere, se permettete, il prodotto che ne verrà fuori. Un bel prodotto e un bel divertimento, ve lo dico io.

 

Molto meglio. Chi fa bisogno di una vita semplice e monotona? Un giovane uomo, un nessuno della società, cerca di guadagnarsi da vivere con il suo nobile mestiere. Una macchina che detta le regole, prende ciò che vuole e lascia solo i rimasugli.

Ma manca ancora qualcosa….

Manca l’azione, manca la vitalità, manca la ferocia…. Ferocia? Ma si!

 

 

Una penna e un pezzo di carta: non mi resta piú altro mezzo per comunicare con gli uomini. Ho perduto la voce; sono rimasto muto per sempre. 

Ma ecco tutta la scena, come s’è svolta.

Il Nuti andò nel suo camerino a vestirsi da cacciatore; io andai nel Reparto del Negativo a preparare per il pasto la macchinetta. Per fortuna della Casa, tolsi là di pellicola vergine molto piú che non bisognasse, a giudicare approssimativamente della durata della scena. Quando ritornai su lo spiazzo ingombro, in mezzo del gabbione enorme iscenato da bosco, l'altra gabbia, con la tigre dentro, era già stata trasportata e accostata per modo che le due gabbie s'inserivano l'una nell'altra. Non c'era che da tirar sú lo sportello della gabbia piú piccola.

Moltissimi attori delle quattro compagnie s'erano disposti di qua e di là, da presso, per poter vedere dentro la gabbia di fra i tronchi e le fronde che nascondevano le sbarre. Sperai per un momento che la Nestoroff, ottenuto l'intento che s'era proposto, avesse avuto almeno la prudenza di non venire. Ma eccola là, purtroppo.

Si teneva fuori della ressa, discosta, in disparte, con Carlo Ferro, vestita di verde gajo, e sorrideva chinando frequentemente il capo alle parole che il Ferro le diceva, benché dall'atteggiamento fosco con cui il Ferro le stava accanto apparisse chiaro che a quelle parole ella non avrebbe dovuto rispondere con quel sorriso. Ma era per gli altri, quel sorriso, per tutti coloro che stavano a guardarla, e fu anche per me, piú vivo, quando la fissai; e mi disse ancora una volta che non temeva di nulla, perché quale fosse per lei il maggior male io lo sapevo: ella lo aveva accanto - eccolo là - il Ferro; era la sua condanna, e fino all'ultimo con quel sorriso voleva assaporarlo nelle parole villane, ch'egli forse in quel punto le diceva.

Distogliendo gli occhi da lei, cercai quelli del Nuti. Erano torbidi. Evidentemente anche lui aveva scorto la Nestoroff là in distanza; ma volle finger di no..

Egli si appostò al punto segnato, imbracciando il fucile; io dissi:

- Pronti.

S'udí dall'altra gabbia il rumore dello sportello che s'alzava. Polacco, forse vedendo la belva muoversi per entrare attraverso lo sportello alzato, gridò nel silenzio:

- Attenti, si gira!

E io mi misi a girare la manovella, con gli occhi ai tronchi in fondo, da cui già spuntava la testa della belva, bassa, come protesa a spiare in agguato; vidi quella testa piano ritrarsi indietro, le due zampe davanti restar ferme, unite, e quelle di dietro a poco a poco silenziosamente raccogliersi e la schiena tendersi ad arco per spiccare il salto. La mia mano obbediva impassibile alla misura che io imponevo al movimento, piú presto, piú piano, pianissimo, come se la volontà mi fosse scesa - ferma, lucida, inflessibile - nel polso, e da qui governasse lei sola, lasciandomi libero il cervello di pensare, il cuore di sentire; cosí che seguitò la mano a obbedire anche quando con terrore io vidi il Nuti distrarre dalla belva la mira e volgere lentamente la punta del fucile là dove poc'anzi aveva aperto tra le frondi lo spiraglio, e sparare, e la tigre subito dopo lanciarsi su lui e con lui mescolarsi, sotto gli occhi miei, in un orribile groviglio. Piú forti delle grida altissime levate da tutti gli attori fuori della gabbia accorrenti istintivamente verso la Nestoroff caduta al colpo, piú forti degli urli di Carlo Ferro, io udivo qua nella gabbia il sordo ruglio della belva e l'affanno orrendo dell'uomo che s'era abbandonato alle zanne, agli artigli di quella, che gli squarciavano la gola e il petto; udivo, udivo, seguitavo a udire su quel ruglio, su quell'affanno là, il ticchettío continuo della macchinetta, di cui la mia mano, sola, da sé, ancora, seguitava a girare la manovella; e m'aspettavo che la belva ora si sarebbe lanciata addosso a me, atterrato quello; e gli attimi di quell'attesa mi parevano eterni e mi pareva che per l'eternità io li scandissi girando, girando ancora la manovella, senza poterne fare a meno, quando un braccio alla fne s'introdusse tra le sbarre armato di rivoltella e tirò un colpo a bruciapelo in un'orecchia della tigre sul Nuti già sbranato; e io fui tratto indietro strappato dalla gabbia con la manovella della macchinetta cosí serrata nel pugno, che non fu possibile in prima strapparmela. Non gemevo, non gridavo: la voce, dal terrore, mi s'era spenta in gola, per sempre.

 

 

Questa è poesia. Che tragedia amici miei. Ecco la ferocia che mancava.

Certo, certo adesso il nostro amico sarà muto per il resto della sua vita e probabilmente traumatizzato ma si sa: si fa di tutto per il successo.

Bisogna puntare in alto e io, Don Dlansert, ho il dovere di puntare al massimo apice. Beh credo che la nostra intervista possa concludersi qui…

Come scusa? Non è giusto? Provi pena per quel piccolo uomo? Un’altro modo dici? Non credo ci fosse un’altro modo per cambiare la sua storia.

Ma se lo credi possibile, Prova! Avanti! Prendi il quaderno e la penna. Riscrivi la storia come piace a te e vediamo che succede. Tiriamo insieme i fili di questa ragnatela di eventi e vediamo se il tuo finale sarà degno quanto il mio. Prendi la vita di Serafino e fanne ciò che vuoi. 

Ma prima che tu inizi c’e una cosa che devi dirmi mio caro “Scrittore”…

Qual è il tuo nome?

  
Leggi le 0 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Generale / Vai alla pagina dell'autore: 2009_2013