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Autore: Adeia Di Elferas    17/09/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“L'importante è che sia morta.” disse Francesca Dal Verme, sistemandosi la reticella per capelli con disinvoltura.

Galeazzo Sanseverino la guardò un momento, cercando di capire come potesse essere tanto tranquilla.

Il Moro, dicevano tutti, era stato distrutto dalla morte della moglie e quello che avrebbe fatto da quel momento in poi era un mistero per tutti.

Anche Francesco Dal Verme pareva inquieto, anch'egli sorpreso dalla calma della sorella, che, invece, non aveva fatto una piega, quando aveva saputo che il Duca si era messo a cancellare tutti i suoi impegni pubblici, passando le sue giornate a piangere e disperarsi o, al massimo, a pontificare su migliorie e lavori da fare alla chiesa di Santa Maria delle Grazie.

“Quando partirete?” chiese a un certo punto la donna, guardando il Sanseverino e cominciando a giocherellare con il mazzo di carte che un tempo era stato di Bianca Giovanna.

Il fratello di Galeazzo, Giovan Francesco, lo aveva richiamato ad Alessandria, in modo che potesse dargli man forte nella zona di Novi Ligure, ma egli ancora non si era deciso a fare i bagagli, tanto meno aveva ancora richiamato a sé i suoi uomini.

“Credo per metà mese... O forse appena prima dell'inizio di febbraio, non saprei. Mio fratello non mi ha dato disposizioni precise...” disse l'uomo, passando nervosamente l'indice attorno al calice di vino che stava bevendo.

Francesca fece un sospiro impaziente, spiegazzando con noncuranza tra due dita uno degli assi del mazzo di carte: “Dobbiamo anche trovarvi presto una nuova sposa. Bianca Giovanna è morta da abbastanza tempo, ormai. Nessuno potrà tacciarvi di essere insensibile. Siete un uomo ancora giovane e non avete figli. È tempo di provvedere.”

Sanseverino sapeva che quello era il secondo passo del loro piano e forse, adesso che Ludovico Sforza era così preso dal proprio dolore, sarebbe stato anche più facile del previsto svincolare Voghera, Bobbio e tutte le altre terra che erano state di Bianca Giovanna e prenderne definitivamente il possesso.

Certo era, però, che ci sarebbe voluta una moglie giusta per lui. Come gli aveva più volte detto la Dal Verme: una donna di media nobiltà o di forte ricchezza, ma che non fosse in grado né di mettere il naso nei suoi affari, tanto meno di scoprire i suoi maneggi.

Tra i fratelli Sanseverino, a detta di tutti, lui era sempre stato quello meno dotato, con le armi. Era dunque lecito, pensava Galeazzo, tutelarsi in qualche altro modo.

 

Giovanni Medici stava preparando il cavallo per ripartire alla volta di Forlì. Il suo soggiorno nelle campagne che davano verso il riminese era durato più del previsto perché aveva dovuto fermarsi a causa di un attacco di gotta.

Per fortuna si era trattato di un episodio molto breve e nemmeno troppo doloroso e così, malgrado la neve che continuava a turbinare, il Popolano quella mattina era pronto a mettersi in cammino, con la salute abbastanza rinfrancata e con un atto di vendita al sicuro nella tasca del giubbone.

Rientrò nella locanda in cui aveva soggiornato per saldare il suo conto e mentre era al bancone a parlare con l'oste sentì le chiacchiere di due avventori appena arrivati che dicevano peste e corna del signore di Rimini.

“Castracane ha messo le guardie alla porta, ma sembra che l'altra notte il Pandolfaccio abbia provato ad ammazzarne un paio per entrare e prendersi la figlia di quel poveraccio!” stava esclamando uno.

L'altro lo guardava con tanto d'occhi, ribattendo: “Ma perché non lo fermano i soldati?”

“Stupido!” fece l'altro, alzando una mano e sbuffando: “L'esercito è suo! Vuoi che si ribelli a lui solo perché vuole rapire una ragazza?!”

“E allora – riprese ancora il secondo – perché non si fa aiutare dall'esercito e trova una scusa per farsi consegnare quella povera donna?”

A quel punto l'altro fece spallucce e disse: “E che ne so? Forse è troppo fuori di sé per pensarci...”

Il Medici non fece commenti, fingendo di contare con attenzione le monete per l'oste, ma nel frattempo iniziava a ragionare.

Aveva saputo che la madre di Pandolfo Malatesta era morta e che il figlio era subito parso a tutti diventato muto e sordo. Dicevano che al funerale non fosse nemmeno stato capace di entrare e uscire dalla chiesa da solo e che la moglie avesse dovuto quasi trascinarlo per tutto il tempo, come un fantoccio.

Questo risvolto, invece, lo dipingeva come una belva furiosa, imprevedibile e impossibile da contenere.

Di certo, se Firenze avesse voluto attaccare e prendere possesso di Rimini per tamponare le mire veneziane, non sarebbe stato male poter approfittare di quella momentanea debolezza del Malatesta...

“Tenete quel che avanza.” disse Giovanni, lasciando il resto al proprietario della locanda, che lo ringraziò di cuore, mettendo al sicuro le monete in sopravanzo.

Forse mosso da quella generosità inattesa, l'oste fermò un istante il fiorentino, appoggiandogli una mano sulla manica di velluto rosso del giubbone: “Non avete paura a viaggiare da solo? Se volete posso trovarvi un paio di uomini che vi facciano da scorta per...”

“Ci sono persone molto più importanti di me che viaggiano senza soldati.” lo bloccò subito Giovanni: “Viaggio bene da solo.” e detto ciò, l'ambasciatore lanciò un ultimo sguardo ai due che ancora parlottavano delle bravate di Pandolfo Malatesta e andò al suo cavallo, impaziente di tornare a Forlì.

 

Isabella Este lesse con molta preoccupazione la lettera di suo marito Francesco, appena arrivata da Venezia.

La Marchesa, ancora molto provata dalla morte della figlia Margherita, era d'umore nero da quando aveva ricevuto la notizia della scomparsa di sua sorella Beatrice e di certo avere brutte notizie anche dalla Serenissima non l'aiutava a riprendersi.

Anche se con la sorella più piccola non aveva mai avuto un rapporto idilliaco, per non dire che Beatrice era arrivata a odiarla in modo viscerale, Isabella era rimasta sconvolta, nel saperla morta di parto.

Era così giovane e piena di vita che immaginarsela mentre soffriva nel suo letto ed esalava l'ultimo respiro gridando immersa nel proprio sangue era una vera tortura.

La Marchesa di Mantova, poi, ricordava di quando le aveva donato una spinetta, come segno di riconciliazione, e il pensiero di quello strumento abbandonato a se stesso le evocava una sensazione di freddo e desolazione così pressante da renderle quasi difficile respirare.

E ora ci si metteva anche Francesco...

Le chiedeva di mediare presso il Doge in suo favore. Isabella era sempre stata una diplomatica molto più accorta e abile del marito, ma quella volta avrebbe davvero fatto fatica ad aiutarlo.

Francesco aveva liberato Paolo Vitelli, contro il preciso ordine di Venezia, che lo voleva prigioniero al castello di San Giorgio. L'aveva lasciato andare, accampando scuse patetica e inascoltabili, tanto superficiali che l'Este, nel leggerle, si era chiesta quanto vuota potesse essere la testa del suo Francesco.

Isabella sapeva che suo marito stava cercando di tenersi buoni i francesi, soprattutto ora che aveva spedito sua sorella e Gentile in Francia, ma permettere a uno dei migliori comandanti di re Carlo VIII di uscire di cella senza un motivo valido era stato davvero troppo.

La Marchesa alzò gli occhi verso la finestra appannata. Non si vedeva nulla. Mantova era sotto la neve da un paio di giorni e anche la corte sembrava paralizzata dal gelo.

Isabella fu tentata di scrivere al marito di tornare subito a casa, scappando senza farsi troppi problemi, nel caso in cui Barbarigo volesse vendicarsi di lui per quell'insensata decisione.

Tuttavia, ripensandoci, la sua mente da stratega arrivò alla conclusione che una partenza così repentina sarebbe stata senza dubbio vista come chiaro segno di tradimento.

Francesco, dunque, doveva rimanere a Venezia, insistendo con le scuse insulse che aveva malauguratamente già avanzato, fingendosi stolto e in buonafede, e nel frattempo lei avrebbe cercato di ungere gli ingranaggi come solo lei sapeva fare.

Con un sospiro pesante, sistemando con un gesto un po' stizzito il gonnellone nero – lutto portato per la morte di Beatrice – la Marchesa intinse la penna nell'inchiostro e cominciò una delle lunghe lettere che sarebbero partite per Venezia entro sera.

 

Caterina era appena stata sui camminamenti, a fissare la sua città e a ragionare. Ormai la morte di Elisabetta Aldovrandini e la reazione folle di Pandolfo Malatesta erano di dominio pubblico e la Contessa voleva sfruttare quell'occasione come meglio poteva.

Finché il Pandolfaccio era occupato a correre dietro a una povera ragazzetta nella speranza di usarle violenza, Rimini era nel caos e come la Leonessa sapeva per esperienza, quando una città è nel caos, è debole. Un'occasione tanto ghiotta poteva non ripresentarsi mai più.

Aveva già scritto a Tiberti, che in quei giorni erano già nel cesenate, di affrettare il più possibile le sue manovre, in modo da avere già abbastanza seguaci anche prima di Carnevale.

'Usate la festa solo per convincere i membri del Consiglio.' gli aveva scritto quel giorno: 'Gli altri, cercateli prima. Fate pesare il vostro nome, se nel cesenate vale ancora qualcosa. Non fate mai il mio nome. Dobbiamo essere veloci.'

Aveva aggiunto di bruciare la lettera appena dopo averla visionata, sperando che il Capitano fosse abbastanza assennato da seguire il consiglio.

“L'ambasciatore di Firenze sta tornando.” disse il Capitano Mongardini, raggiungendo la Tigre nel cortiletto ed esibendosi in un breve sorriso che mise in mostra i suoi piccoli denti: “L'ho appena avvistato vicino alle mura della città.”

Caterina lo ringraziò per averla avvisata e poi salì di nuovo sui camminamenti, per vedere Giovanni. Quando lo riconobbe, in sella a un grosso baio, lo seguì con lo sguardo e restò stupita nel vedere come stesse puntando verso il centro città, forse verso il palazzo degli ambasciatori, piuttosto che verso Ravaldino.

Corrucciata, la donna scese di nuovo al piano terra, raggiungendo rapidamente la sala delle armi, per tenersi impegnata.

Forse Giovanni, alla fine, aveva deciso di tener fede al giuramento fatto a Firenze? Forse stava andando al palazzo degli ambasciatori per riferire ai segretari che Ridolfi gli aveva affibbiato che l'affare era concluso e che la repubblica avrebbe avuto il suo grano.

Quel pensiero rese le mani della Leonessa molto più forti del solito e così, mentre passava la pietra sul filo di una spada lunga, il rumore del raschiare risultò così forte e fastidioso che perfino il maestro d'armi trovò una scusa e uscì nel cortile per non sentirlo più.

“Posso..?” la voce del Popolano arrivò così all'improvviso da far sussultare Caterina, che era già arrivata alla quinta spada da affilare.

Asciugandosi il sudore dalla fronte col dorso della mano, la donna sollevò lo sguardo e appoggiò pietra e spada al tavolone di legno: “Siete tornato.”

“Sì.” confermò Giovanni, stando sulla porta, appoggiato allo stipite, le braccia dietro la schiena.

La Tigre avrebbe preferito vederselo correre incontro, ma lei per prima non si schiodava dal suo sgabello, quindi non si sentì nella posizione di avanzare critiche.

Tuttavia, dopo qualche istante di silenzio, durante il quale entrambi non fecero altro che guardarsi a vicenda, la donna disse: “Vi ho visto, prima, mentre andavate in paese. Cosa dovevate fare?”

L'ambasciatore fece un messo sorriso e sollevò le sopracciglia, mentre i suoi occhi correvano al pavimento, in imbarazzo: “Mi avete visto...”

“Siete stato dai vostri segretari?” chiese Caterina, riprendendo la spada e cominciando di nuovo ad affilarla.

Il Popolano strinse le labbra carnose, un po' infastidito da quel suono insopportabile, e ribatté: “Sì, volevo dire loro che il mio affare era sfumato e che i venditori mi avevano detto che voi eravate stata più veloce di me nel proporre l'acquisto. Ho voluto farlo subito, per non dare l'impressione che foste stata voi a imbeccarmi in qualche modo.”

La cote a mezz'aria, la Tigre deglutì e poi rimise una volta per tutte la spada e la pietra al loro posto: “Davvero avete detto loro così?”

Giovanni annuì, staccandosi dallo stipite, mentre Caterina gli si avvicinava: “Sì. Tra un paio di giorni il grano arriverà a Forlì e verrà consegnato a voi e a nessun altro.”

Quando fu a pochi centimetri da lui, la Contessa si rese conto che avrebbe voluto dirgli un sacco di cose, raccontargli tutto quello che era successo mentre non c'era, perfino le cose di cui si vergognava, avrebbe voluto parlargli di Virginio Orsini e di quello che era stato per lei, eppure non riusciva ad aprir bocca.

Dal cortile arrivavano le voci di alcuni soldati e del maestro d'armi. Il vento freddo che spruzzava la neve a destra e sinistra riusciva a entrare anche nella sala e Caterina avvertì un brivido profondo quando un fiocco le arrivo sul viso.

Nemmeno il Medici riusciva a dire nulla. Avrebbe voluto dirle di quello che aveva sentito su Pandolfo e di come, secondo lui, quello fosse un buon momento per attaccarlo, se era quello che lei voleva fare. E avrebbe anche voluto dirle di quanto fosse stato male, mentre era via e di come avrebbe voluto averla vicina in quei momenti difficili. Però non disse nulla.

Il maestro d'armi, fosse sentendo che la Contessa aveva finalmente smesso di far fracasso con la cote, farfugliò un paio di parole alle reclute che si stavano addestrando e poi tornò verso la sala delle armi.

Scostandosi per lasciarlo passare, il Popolano e la Tigre si scambiarono un breve sorriso imbarazzato fino a che la donna non decise di proporre una cosa a cui aveva pensato a lungo, mentre aspettava il ritorno del fiorentino.

Proprio quando Giovanni – soprattutto per colpa dell'arrivo delle orecchie indiscrete del maestro d'armi – stava per congedarsi in qualche modo, Caterina chiese, a voce bassa: “Vi andrebbe una battuta di caccia? Noi due da soli, intendo.”

Giovanni la guardò un momento, interrogativo, cercando di capire cosa esattamente quell'invito significasse.

Lo sguardo della Leonessa, però, s'era fatto così sfuggente che il fiorentino rinunciò a leggervi qualche risposta certa e così, senza nemmeno ragionare sul fatto che con quel clima cacciare sarebbe stato quasi impossibile, disse solo: “Mi piacerebbe molto.”

“Vi andrebbe bene questo sabato?” domandò la donna.

Il Popolano, le guance che prendevano colore, si portò una mano ai riccioli, sistemandoseli inconsciamente dietro l'orecchio e poi, fregandosene del maestro d'armi che era lì in ascolto, rispose: “Sabato è perfetto.”

Caterina gli sorrise di nuovo, e poi, passandogli accanto per uscire, gli diede una rapida stretta alla mano e sussurrò: “Allora sabato mattina all'alba.”

 

Alfonso Este, seduto in poltrona davanti al camino, si passò tra le mani la lettera dell'ambasciatore ferrarese a Milano, Antonio Constabili. Mentre faceva quel gesto rapido, i suoi occhi si puntarono sulle sue dita.

Il dottore glielo aveva preannunciato, ma Alfonso non aveva voluto crederci. E invece adesso, dopo qualche giorno di febbri alte, ecco che le sue mani cominciavano a riempirsi di piccole pustole.

Il sifiloma primario era sparito ormai da tempo, ma quella nuova manifestazione della sua malattia, aveva detto il medico di corte, probabilmente l'avrebbe accompagnato per sempre, fino alla vecchiaia, se le febbri non l'avessero ucciso prima.

Con un tremendo cerchio alla testa, il figlio di Ercole Este tentò di non pensarci e, accomodandosi meglio, ancora molto acciaccato per la febbre recente, aprì di nuovo la lettera e la rilesse.

L'ambasciatore, che era stato capace di scrivere una missiva di cordoglio così toccante, alla morte di Beatrice, aveva abbandonato in fretta il suo tono pacato e luttuoso in favore del suo solito stile lamentoso e pedante.

Sembrava quasi che Constabili non si rendesse conto di aver scritto a una famiglia ancora in lutto.

In realtà, e Alfonso ne aveva sofferto parecchio, Ercole non era rimasto troppo afflitto dal sapere che la sua secondogenita era morta di parto.

Quando aveva letto la notizia, il Duca di Ferrara aveva sbuffato e, scostandosi i lunghi capelli grigi dal volto, aveva borbottato qualcosa circa l'intempestività di quella disgrazia.

“Se solo fosse successo prima che legassimo anche te a una Sforza...” aveva aggiunto, alzandosi dalla scrivania e indicando il figlio con fare sconsolato.

Alfonso sapeva bene che suo padre stava cercando un modo per svincolarsi definitivamente da Milano, ma era chiaro che la presenza di Anna Maria a corte era un ostacolo.

Stringendo gli occhi, al pensiero della moglie, che probabilmente stava festeggiando la sua momentanea infermità divertendosi con la sua dannata schiava, Alfonso tornò alle parole dell'ambasciatore, che si lamentava della noiosità del Moro.

Non potendo il Duca più chiedere perdono alla moglie, aveva scritto Constabili, lo Sforza cercava disperatamente di espiare le proprie colpe domandando scusa al suocero.

Il Moro, infatti, a detta dell'ambasciatore, si rimproverava: 'che non havea fatto a la Duchessa quella buona compagnia che la meritava, e che se in cosa alcuna l'havea offesa, el che sapeva di avere fatto, ne domandava perdono a vostra Excellentia'.

Il fatto che Ercole avesse abbandonato sul tavolo della cena quell'ennesima lettera pregna di scuse del Duca di Milano fatto per interposta persona aveva lasciato intendere al figlio che non gliene importava nulla dei rimorsi di Ludovico.

“Sono venuto a portarvi il decotto...” la voce del medico di corte risvegliò Alfonso dal suo vigile torpore e il giovane accettò con buonagrazia la tazza fumante.

Il dottore lo tenne sott'occhio finché non ebbe finito di bere la sua pozione, e, nel frattempo, ne osservò con cura le piaghe alle mani, per valutare meglio il suo stato.

“Potrete presto tornare al letto di vostra moglie.” confermò l'uomo, riprendendo la tazza già vuota.

Alfonso si sentì sprofondare. Stare male non gli piaceva, ma almeno gli dava la scusa per non frequentare troppo Anna Maria. Quella donna gli faceva sempre più paura e non gli piaceva doverla costringere controvoglia a giacere con lui.

Tuttavia, sapendo quando il dottore fosse in confidenza con suo padre Ercole, l'erede al Ducato di Ferrara fece un sorriso accomodante e commentò: “Sono molto lieto di saperlo...”

 

Simone Ridolfi fece fermare il cavallo e guardò un momento la rocca di Ravaldino, davanti alla quale si stagliava, maestosa e un po' arrogante, l'enorme statua di bronzo che raffigurava il defunto Barone Feo.

Malgrado il fiorentino fosse un uomo sicuro di sé, si sentiva molto agitato quel giorno. Era stato convocato dalla Tigre in persona, che gli aveva anticipato di voler discutere con lui di affari molto importanti, riguardanti la sua carriera.

Simone sperava che si trattasse di una proposta importante e, al contempo, aveva paura di combinare un disastro.

Il primo impatto che avevano avuto, lui e la Contessa, non era stato dei migliori. Con il tempo si erano un po' stemperati entrambi, ma non poteva comunque dirsi del tutto in amicizia con lei e sapeva che chiedere di nuovo a Giovanni di intercedere per lui sarebbe stata solo una crudeltà nei confronti di suo cugino.

Dando di speroni ai fianchi del cavallo, l'uomo andò al portone e si annunciò alle guardie, che lo riconobbero senza sforzo e gli dissero che la Contessa lo stava aspettando al piano di sopra, probabilmente nello studiolo del castellano Feo.

 

Caterina si stava mordendo l'unghia del pollice, occhieggiando fuori dalla finestra. Quel giorno non nevicava e il capomastro aveva deciso di andare avanti con la messa in posa del mastio, anche se il ghiaccio stava rallentando tutto.

“Domani uscirò a caccia, sul presto. Voglio vedere bene com'è la nuova riserva.” disse la donna, sempre tenendo le spalle al castellano che, tanto per cambiare, stava compilando con diligenza i registri della rocca, ponendo molta attenzione al nuovo rifornimento di grano appena arrivato in città.

Cesare Feo annuì in silenzio, cominciando a calcolare quanta parte di grano sarebbe rimasta alla rocca e quanta sarebbe stata distribuita alla città di Forlì e quanta spedita a Imola.

Caterina esitò un momento, poi, voltandosi appena, soggiunse: “Potrei non tornare, per la notte, quindi se per caso non mi vedeste tornare a sera, non datevi pena di farmi cercare.”

Il castellano appoggiò un momento la penna al tavolo e squadrò il profilo della Tigre, tentato di fare qualche domanda. Il fatto che la sua signora restasse fuori non era un problema, dal punto di vista pratico, dato che nella nuova riserva era stato edificato un capanno di caccia molto resistente e ben attrezzato, che le avrebbe fornito un ottimo riparo perfino in una notte di neve. Tuttavia...

Cesare stava per aprire la bocca e chiedere se la Contessa sarebbe uscita a caccia da sola o con qualcuno, quando sulla porta mezza aperta si profilò Simone Ridolfi.

“Posso..?” chiese l'uomo, accennando una bussatina contro lo stipite.

“Oh, finalmente siete arrivato...” disse Caterina, girandosi e facendogli segno di entrare pure: “Il viaggio è stato agevole?”

“Sono passato da Faenza senza problemi.” confermò Simone, che aveva evitato il passaggio nei boschi per paura di perdersi a causa della neve, che rendeva ogni sentiero identica agli altri.

“Bene.” disse la Contessa: “Vorrete darvi una sistemata...” soggiunse, notando i capelli lunghi e spettinati dell'uomo e il bordo infangato del suo mantello.

“Solo se ve n'è il tempo.” si affrettò a dire Ridolfi, mentre Cesare Feo si reimmergeva nelle sue carte.

“Certo, certo... Avrete tempo nel pomeriggio, per fare quello che vi chiederò.” confermò la Leonessa.

Simone gonfiò l'ampio petto e provò a chiedere: “Posso sapere comunque perché sono qui, di preciso?”

“Voglio vedere se quello che mio cognato Tommaso dice su di voi è vero.” spiegò Caterina, indicando al castellano il resoconto del grano appena arrivato e facendoselo passare per poi esibirlo al fiorentino: “Dovrete mostrarmi come distribuireste queste riserve tra i miei possedimenti e poi come le gestireste a Imola.”

Simone diede uno sguardo ai conti fatti fino a quel momento da Cesare Feo e poi annuì: “Farò quello che dite. E se dovessi riuscire a convincervi?”

La Tigre riprese il foglio e fissò per un lungo istante il volto coperto di barba rossiccia di Simone e poi rispose: “Se sarete abbastanza bravo da dimostrare il vostro valore, allora potrei prendere in considerazione l'ipotesi di farvi Governatore di Imola.”

 
   
 
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