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Autore: _Akimi    17/09/2017    3 recensioni
1976 - Notting Hill Carnival
"La cerchiamo nei loro sguardi, la violenza, quel pizzico di odio razzista che attraversa gli uomini che occupano le prime file e che per un momento ci guardano, godendo di aver trovato un paio di stupide, facce bianche in mezzo a tutti loro."
[Quarta classifica al contest La rivincita dei piccoli fandom indetto da Nuel2]
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Joe Strummer, Paul Simonon
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Note: Inizio con il dire che tutta la storia è ambientata durante il Carnival, un evento organizzato dalla comunità caraibica a Londra solitamente alla fine di agosto.
Si riempono le strade di gente, si ascolta musica, si balla, si mangia e ci si diverte un sacco!
Ho avuto la fortuna di partecipare per la prima volta quest'anno (e di questo devo ringraziare mia sorella), il che mi porta ad essere ancora più affezionata a questa storia perché l'ho iniziata a scrivere prima di partire e l'ho finita una volta aver assistito di persona all'evento.
Nel 1976 avvennero realmente degli scontri tra polizia e partecipanti, non fu la prima né l'ultima volta che accadde; a questa rivolta parteciparono anche i The Clash (Paul Simonon, il bassista, e Joe Strummer, il vocalist) che in realtà, non avevano propriamente iniziato a fare musica.
Fu importante per il gruppo perché da quegli scontri, Joe decise di scrivere la canzone White Riot (questo è il testo) che è una canzone molto attuale, nonostante sia stata concepita anni fa. NON è una canzone razzista, nonostante il titolo possa confondere, anzi, è mal interpretata da un sacco di persone e questo mi mette una tristezza immensa perché non penso esista un gruppo più anti-fascista e anti-razzista dei The Clash.
Mi sono presa delle libertà per scrivere il racconto, ma alcune cose descritte sono accadute realmente e sono piuttosto esilaranti. Nel testo vengono citate strade che fanno parte della zona di Notting Hill (dove è, appunto, organizzato il Carnival) e poi Brixton, quartiere a sud di Londra da dove proviene Paul.

Buona lettura e viva il punk.
P.S. Il POV è di Paul, che mi possa perdonare, sono pessima con la prima persona.


 
White Riot

Notting Hill, 1976

Agosto più caldo del secolo - respiriamo a fatica nelle vie che pullulano di gente proveniente da ogni dove, ma ci godiamo questa giornata fino all'ultimo, afoso attimo.
Agosto più fottutamente caldo del secolo - così dicono, noi lo abbiamo scoperto casualmente quando, raggiungendo Notting Hill, abbiamo comprato un giornale per un paio di pennies.
Le braccia sudate si attaccano alle maniche dei nostri giubbotti, ci sentiamo soffocare lentamente, ma abbiamo le tasche colme di tappi di bottiglia e di mattoni – quindi, anche se volessimo togliercele, non sarebbe una saggia decisione.
Mi volto a guardare Joe, lo spazio che ci divide è di qualche misero centimetro: lo sento sospirare, la fronte imperlata di sudore e quell'inusuale sfolgorìo nelle sue iridi di cui ancora non ho appreso il significato.
Non lo conosco molto, ma è semplice fidarsi di lui, lo capisci che non mente dal modo in cui si muove, in cui ti parla.
Ha anche questa strana abitudine di guardarti dritto negli occhi, ti osserva per lunghi minuti in silenzio e pare che capisca più di quanto gli sia concesso.
Non per questo è invadente, piuttosto, si è creato tra di noi un certo tono di complicità che nessuno dei due riesce a spiegarsi.
A dire il vero non ci chiediamo neppure il perché, conversiamo come se ci conoscessimo da anni, anche se, effettivamente, di Joe ricordo solo piccole e necessarie cose.

«Riusciresti a sopportare l'arroganza di uno di quei poliziotti?»
Me lo chiede all'improvviso, strattonandomi leggermente dal colletto della giacca; lo grida anche se siamo vicini e capisco che vuole farsi sentire più dagli agenti che abbiamo di fronte che dalle persone che ci circondano.
«Intendo dire, rappresentano la fottuta legge, ma è troppo facile manganellare un paio di povere anime solo perché hanno il culo più scuro del loro.»
Mi sfugge un sorriso smozzicato, mostro i denti in un misto di triste ironia e delusione; lo so bene come si comportano quelli, sono come Maiali a cui gli si danno delle ghiande per pranzo.
Siamo tutti di fronte a loro, per noi il colore della pelle è lo stesso, ma per i bastardi in divisa no, per loro non essere bianchi è un motivo per menare più forte.
«Ti dimentichi che sono di Brixton, i poliziotti ci bazzicano come le mosche sopra la merda.»
E non intendo dire che il quartiere dove sono cresciuto sia pessimo, ma non è l'ambiente che ci si aspetta da una città come Londra.
Il crimine compone la quotidianità, lì non interessa a nessuno se sei inglese o un immigrato perché se sei cresciuto a Brixton, qualcosa in comune lo trovi: è una zona particolare in cui vivere, in un incrocio ti trovi a scoprire le droghe troppo presto, mentre dall'altro musica caraibica ti raggiunge dalle prime ore della mattina fino a quando il cielo non si fa plumbeo.
È particolare, la vita a Brixton, ma sono questo Paul Simonon solo grazie a ciò che il quartiere mi ha insegnato, non per le stronzate che propinano sulla BBC per apparire meno razzisti.
«Quindi niente obiezioni se ci divertiamo un po'? Non voglio sembrare l'irresponsabile tra i due.»
Joe parla in tono serio, ma il sorriso sarcastico che ha dipinto sul volto lo tradisce in pochi attimi; so che non gli interessa apparire diversamente da quello che è, ma non mente quando si assicura di avere il mio assoluto appoggio.
Credo che si comporti così per i pochi anni di differenza che ci dividono, è lui il più grande, ma il suo comportamento non è dettato da nessun senso di superiorità - si preoccupa per me forse - il che mi stupisce perché mai nessuno mi ha dato tempo per scegliere.
Con Joe qualsiasi, stupido gesto prende un valore: non si tratta solo di lanciare dei mattoni contro i poliziotti, no, è una ribellione ponderata, un rifiuto ai metodi violenti delle forze dell'ordine e dello stato.
Noto immediatamente che non è la prima volta che si trova in una situazione simile, glielo si legge in faccia, l'odio che prova per loro, ma non è quel genere di emozione frutto di semplice anticonformismo giovanile.
Ci crede davvero, nella lotta contro tutte queste ingiustizie, ed è un lato fondamentale di lui che spero di approfondire in altre occasioni.
«Mi sottovaluti, Strummer, potrei anche rimanerne offeso.»
Lo bisbiglio poco lontano dal suo volto e per brevi attimi non dice nulla, si limita a guardarmi come se avesse appena avuto la rivelazione più grande della sua vita.
Non lo capisco ancora, non so se temere la sua vena artistica lontano da un qualsiasi palco dove è solito esibirsi, ma è troppo tardi per ritrattare.
«Non ti sottovaluto, non mi fiderei così facilmente di una faccia come la tua.»
Inizia a parlare, ma la sua voce si disperde non appena le persone attorno a noi iniziano ad avanzare minacciose verso gli uomini in divisa.
Lo consiglierei a tutti, il Carnival, forse non la parte in cui decidiamo di prenderci le manganellate dai poliziotti, ma il resto è più che gradevole.
Lo penso guardandomi attorno per l'ultima volta: sono due le cose che mi attraggono più di tutto il resto, la cultura caraibica e le risse - anche se queste ultime non le trovo tanto piacevoli quanto la dub o la ska.

In quel momento siamo luce in mezzo a mille punti neri, vediamo bandiere che svolazzano davanti ai nostri occhi e basta un attimo per riconoscerne un paio: Giamaica, Trinidad e Barbados, sono lì, siamo tutti lì sapendo che gli agenti non saranno clementi in nessun modo.
La cerchiamo nei loro sguardi, la violenza, quel pizzico di odio razzista che attraversa gli uomini che occupano le prime file e che per un momento ci guardano, godendo di aver trovato un paio di stupide, facce bianche in mezzo a tutti loro.
 
Poi, è semplicemente il caos.

La gente comincia a gridare, corrono verso i poliziotti, si schiantano contro i loro scudi trasparenti come se una misteriosa legge li stia attraendo in quella direzione; qualche faccia è già diventata irriconoscibile, guance rigate da sottili linee di sangue e cocci di vetro che sfrigolano sotto le suole dei miei stivali.
Quando mi volto, Joe si è già allontanato: attraversa il marciapiede, le mani che frugano nelle tasche e un sorriso accennando sul suo viso non appena trova ciò che stava cercando.
L'attimo dopo, la sua figura scompare in mezzo alla calca di persone che mi spinge e mi lascio coinvolgere da loro utilizzando tutto ciò che ho conservato.
Un agente poco lontano da me cade addosso ad uno spartitraffico appena ci sfioriamo, lo vedo scivolare sull'asfalto privo di energie, ma continua a squadrarmi da capo a piedi come a volermi dire che si ricorderà di me, una volta tornato in caserma.
Neppure l’occhiata minacciosa di un suo collega mi ferma; tremo, lo ammetto, ma non perché temo le conseguenze delle mie azioni.
Quando abbasso lo sguardo, mi accorgo che la mia mano stringe istintivamente il mattone rossastro che ho trovato in un cantiere prima di giungere a Notting Hill; la presa si fa più rigorosa, le nocche schiariscono e poi prendo la mira, proprio lì, dove un agente è impegnato a colpire un rasta con il manganello.
Quest'ultimo si volta verso la mia parte non appena il poliziotto cade di fronte a lui; ho girato il braccio e di poco il mattone lo ha colpito sul collo, continua ad accarezzarsi il punto arrossato e ha un'espressione sofferta dipinta sul volto.
«Almeno non ci è rimasto.»
Dice una voce dietro di me, una mano mi tocca la spalla e solo voltandomi rivedo Joe, ha i capelli spettinati e un sorriso malizioso sul viso arrossato.
«Cosa hai combinato?»
Chiedo io, in tono ammonitore - più di quanto volessi realmente.
Lui non ne sembra turbato, anzi, per pochi attimi ride come se avesse aspettato ore per poterlo raccontare, anche se da quando ci siamo allontanati saranno passati trenta, scarsi minuti.
«Hey, dovrei chiedertelo io, Paul.» Inizia a parlare, alza le mani in segno di resa e noto che il suo indice destro è attraversato da una sottile linea nera, come se si fosse appena bruciato la pelle con qualcosa.
«Ti abbandono per un attimo e ti trovo già a picchiare poliziotti.»
Mentre parla le sue parole si disperdono tra tutti gli altri suoni che ci circondano, le persone ci spingono ancora verso la barriera di scudi trasparenti e grazie ad un misero secondo in più riesco ad afferrarlo per la maglia, muovo il braccio con inaspettata agilità e lo tiro verso di me.
Un metro più in là la situazione si fa drastica, altre bottiglie si frantumano contro le protezioni della polizia ed evito di pensare a che cosa sarebbe successo se Joe fosse rimasto in mezzo a quel casino.
«E io ti lascio per un attimo e tu rischi di spaccarti la testa.»
Non che lo avrebbe fermato dal blaterale a lungo, probabilmente partendo da quelle sue perle sul socialismo e sul governo che, a dire il vero, mi ricordano i giorni in cui mio padre mi lasciava in mezzo alla strada a consegnare volantini per i comunisti.

«Comunque,» Comincio, trovando finalmente una via tranquilla. «che cosa ti sei fatto alla mano?»
Accenno con il capo e trattengo una risata non appena mi accorgo dell'espressione confusa stampata sul suo viso; sembra un idiota, ma forse è meglio che me lo tenga per me.
«Oh, sì, ho cercato di dare fuoco ad una macchina.»
Si volta per indicare il punto in cui inizialmente lo avevo perso di vista: è l'incrocio che porta a Holland Park Avenue, anche se è difficile riconoscere le strade in mezzo a tutta questa ressa.
In ogni modo, cerco di apparire il più neutrale possibile, di non chiedermi perché e come avrebbe dato fuoco ad una volante della polizia, ma alla fine non resisto e il mio tono di voce lascia trapelare la mia curiosità, mista a un po' di sana delusione poiché avrei voluto essere testimone dell'evento.
«Hai incendiato una cazzo di auto?!»
Squittisco io, la fronte corrucciata e la mano a premere leggera sulla sua spalla; mi aspettavo davvero un posto in prima fila, ma da come mi guarda inizio a pensare che l'idea non si sia sviluppata nei migliori dei modi.
«Magari, o meglio, ci ho provato.»
Alla fine borbotta, quasi fatico a comprendere le sue parole, ma passa un breve attimo e ricomincia a parlare brillantemente - come suo solito, insomma.
«Sì, ok, ho provato a bruciare una volante della polizia con dei fiammiferi
Ancora lo sguardo gli si illumina, pare quasi fiero delle bruciature procurate sulle dita, come se fossero un ricordo di chissà quale giusta battaglia.
«Ma?»
Domando a fil di voce, distratto da una bottiglia che mi sfiora il viso, sento la guancia umida, ma mi accorgo che – per mia fortuna – non si tratta di sangue, ma di birra o una qualsiasi bibita alcolica sacrificata per spaccare qualche testa.
«C'è troppo vento, si spegnevano l'uno dopo l'altro.»
Finalmente mi risponde, stringe le spalle come a voler incassare una brutta delusione, ma non sembra poi così tanto afflitto.
In effetti, ne approfittiamo subito dopo, quasi a voler recuperare i minuti di pausa che ci siamo presi per parlarci; la rivolta non è ancora finita, la polizia risponde ai vetri frantumati con altre spinte e colpi di manganello.
A quel punto decidiamo di agire, ci guardiamo un'ultima volta, come a volerci assicurare di stare bene, e scompariamo di nuovo.
Mi spingo in mezzo alla gente, qualche volta mi sento strattonare, ma non mi fermo fino a quando non vedo di fronte a me altri poliziotti; sono tutti intenti a dare colpi da una parte all'altra, alle volte fanno cadere qualcuno e altre si limitano a sferzare l'aria come dei poveri bastardi disperati.

Continuiamo così per quelli che sembrano pochi minuti, quasi non ci accorgiamo che molti dei partecipanti sono ritornati a casa già da parecchio tempo; forse sono ore, a lanciare sassi senza più cognizione, a difendersi dai contrattacchi degli sbirri.
Ne ho tirati giù altri durante l'intero pomeriggio, le mie tasche alla fine sono vuote, con l'ultimo mattone ho rotto il finestrino di una camionetta parcheggiata in mezzo alla strada e ho rischiato di farmi spaccare il labbro da un poveretto che in quel disastro non smetteva di dimenarsi furioso.
Ci fermiamo solo quando la festa sembra finita, ne hanno arrestati un paio – forse dei più casinisti -, ma alcuni sembrano davvero dei ragazzini, più giovani di me, di noi due forse.
E a proposito di Joe, quello stronzo lo rivedo quando hanno cominciato a togliere le transenne da Ladbroke Grove; ci siamo spostati così tanto dal nostro punto di partenza da essere costretti a ripercorrere tutta la strada per dirigerci verso l'underground, Notting Hill Gate.
Lo vedo da solo lì, come un cane, si sta fumando una sigaretta e ha quella sua espressione da ascensione mistica sul volto che quasi mi spaventa.
Mi metto accanto a lui, ci sentiamo su una delle tante gradinate delle case dei ricconi, e non parla fino a quando non allontana il mozzicone dalle labbra, passandomelo in segno di solidarietà.
«È l'ultima, non ne ho più.»
Bisbiglia, lo vedo fremere un po', non so se per l'adrenalina o perché le temperature che lentamente si sono abbassate, ma non ci presto molta attenzione.
Deve avere un'altra strana idea in mente, lo capisco perché non distoglie lo sguardo dalla vetrina di un negozio di fronte a noi, forse osserva il suo riflesso – altrimenti non mi spiegherei l'improvviso quanto inusuale interesse per abiti femminili.
«Io ne ho altre.»
Tiro fuori una sigaretta stropicciata dalla tasca interna della giacca, mi stupiscono che non si siano rotte, e gliene passo una, aspettando che accenda per entrambi.
«Avevo solo un fiammifero.»
Lo dice con tono dispiaciuto, ma il bastardo sta ridendo, si trattiene, anche se lo sguardo è velato da una malinconia che, non capisco come, contagia all'improvviso anche me.
E posso giurare che stiamo in silenzio per altri cinque - forse dieci - minuti; non ci parliamo, non ci muoviamo, tratteniamo il respiro e ci infogniamo in così tanti pensieri intricati da arrivare a pensare al senso della vita, alle ingiustizie e a tutte quelle balle che, anche a volerlo, non potremmo cambiare.
Cazzo, ho ventun'anni e mi sembra di ragionare come un vecchio.

«Ci scrivo una canzone.»
Dice dal nulla lui, un'idea inutile in un contesto folle, una frase che sembra non avere senso, ma lo prende non appena ricomincia a parlare.
«Una cosa del tipo: essere disposti ad andare avanti, a ragionare con la nostra fottuta testa, pensare come riteniamo giusto, non come vogliono quegli stronzi.»
Spengo quello che rimane dell'ultima sigaretta sotto la suola dei miei stivali, mi alzo, sospiro e lo guardo come a voler dire che non riesco a stargli molto dietro, potrei imparare a farlo, però.
In fondo Joe sembra aver vissuto tante cose, cose incasinate direi, e forse la musica per lui serve ad esplicitare le sue idee, ad aiutare gli altri a capirci qualcosa, della dannata società.
È come una necessità, sento che ha bisogno di farlo, che è disposto a prendersi le proprie responsabilità e ad insegnare alla nostra generazione che non è tutto perduto, che non si può buttare la propria vita nella miseria senza prima provare a lottare.
«Sei tu che scrivi pezzi, Strummer, mica io.»
Bisbiglio mentre lo aiuto ad alzarsi pigramente dai gradini; ci sorridiamo per un breve attimo e poi iniziamo ad avviarci verso casa, anche se sentiamo di non essere più gli stessi di questa mattina. Siamo più consapevoli, consapevoli di qualcosa che abbiamo davanti, ma che dobbiamo ancora focalizzare.
«Dovremmo chiamarla White Riot, che ne pensi?»
 
  
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