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Autore: StormyPhoenix    18/09/2017    4 recensioni
Los Angeles, primi anni del nuovo secolo. Quasi per caso si incrociano le strade di una ragazza sola e in fuga dal suo passato spiacevole e di una delle band più famose del posto; un sentimento combattuto che diventa prepotente salderà il legame.
(Prima storia sui SOAD, so che è un po' cliché ma vabbè.)
Genere: Erotico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Daron Malakian, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: Lemon, Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Buon pomeriggio a voi, cari lettori!
Rieccomi qui finalmente ad aggiornare questa storia, sono abbastanza certa che dopo gli ultimi eventi narrati nei recenti capitoli l'ansia dell'aggiornamento vi sia salita un po' xD e dunque ecco qui un nuovo capitolo, bello corposo, per dei versi alquanto nerd e per altri particolarmente significativo (e spero coglierete tutto questo durante la lettura), sperando che la stesura del prossimo capitolo, fra i vari impegni, non prenda troppo tempo :3
Come sempre ringrazio i lettori e i recensori, siete sempre la mia gioia <3 buona lettura!







In teoria pensavo di poter passare questo pomeriggio di relax post-concerto con il mio ragazzo… in pratica no, non ho ben capito quale grana devono affrontare lui e i suoi colleghi, per cui mi hanno proposto di fare un giro turistico con Paul, il quale è ben contento di accompagnarmi visto che adora visitare luoghi nuovi.
«Dove andiamo?» chiedo, corrugando le sopracciglia mentre il mio amico, servendosi di quel poco di tedesco che conosce – con mia somma sorpresa – mischiato con l’inglese, domanda informazioni su dove acquistare una mappa di Norimberga.
«Per prima cosa abbiamo bisogno di una cartina, se no ci perdiamo» proferisce il ragazzo prima di defilarsi verso una piccola edicola dall’altra parte della strada rispetto a dove ci troviamo: per fortuna ha provveduto a convertire una certa somma di dollari in euro, la nuova valuta corrente in questo posto, dunque acquista ciò di cui abbiamo bisogno e torna verso di me, già intento a studiare una piccola guida turistica con mappa integrata.
«Pensavo fossimo più lontani dall’Altstadt, invece no» esclama, trionfante «su, da questa parte!»
«Quali posti intendi vedere? Forse alcuni richiedono prenotazione o biglietti…»
«Qui sulla guida c’è una lista di luoghi che si possono visitare senza questi impicci, dunque ci atterremo ad essa. Di solito almeno le chiese sono ad ingresso libero e gratuito…»
Durante il cammino verso il centro della città vecchia io e Paul chiacchieriamo occasionalmente, interrompendoci spesso per guardarci intorno e magari indicarci a vicenda qualcosa di curioso che abbiamo visto.
Improvvisamente vedo qualcosa, non molto lontano, stagliarsi contro l’azzurro del cielo e la mia curiosità si accende. «Scorgo da qui le torri di una chiesa, andiamo a vederla?»
«Certo! Forse me l’avevi anche detto, ma non ricordavo ti piacessero le chiese…»
«Anche se non entro in una di esse da anni, mi piacciono ugualmente. E poi ho sempre avuto un debole per l’architettura gotica!»
«Concordo, anche se sono ateo e non metto piede in un luogo sacro da un po’ mi piace ammirare le chiese come strutture architettoniche a prescindere dal loro scopo.»
Arriviamo finalmente di fronte alla costruzione intravista in precedenza e rimango per qualche momento senza parole, soltanto un «Wow» mi esce dalla bocca.
«Stupenda, vero?» Paul sorride, ammirato, poi riapre il libricino che ha fra le mani. «Chiesa di san Lorenzo, protestante fin dal Cinquecento. Stando a quanto dice la guida, questa chiesa è stata alquanto danneggiata dai bombardamenti della guerra negli anni ’40 ma è stata restaurata secondo i piani originali. Così è stato anche per una chiesa che vedremo più avanti, quella di san Sebaldo.»
«Che stretta al cuore, distruggere pezzi d’arte è barbarie assoluta per me…» proferisco, in tono basso e un po’ lamentoso, cercando di immaginare un edificio malmesso e pericolante al posto di quello intatto ed imponente che ho dinanzi a me.
«Entriamo, dai» propone il mio amico, improvvisamente più entusiasta.
«Sì» replico, sorridendo.
All’entrata del tempio un cartello avvisa i visitatori sul vestiario più adeguato per la visita: fortunatamente non fa abbastanza caldo per andare in giro con abbigliamento estivo, solo che sia io che Paul siamo vestiti di nero da cima a fondo e, con tutta probabilità, la gente che passa ci sta scambiando per becchini o goth… il mio amico indossa una giacca di pelle, una felpa e pantaloni neri e sneakers bicolore, mentre io indosso una giacchetta di jeans, una felpa con cappuccio, pantaloni aderenti e anfibi sempre in unica tinta, e sono anche truccata sebbene non troppo.
Entrati in punta di piedi, quasi temendo di fare rumore, notiamo che vi sono pochi turisti nella chiesa: la sensazione di vuoto data dal soffitto altissimo, dalle molte colonne e dalle pareti forate da finestre è soverchiante, così come la bellezza complessiva delle vetrate colorate, delle sculture e dei tre organi a canne che distinguiamo in tre diverse zone. Eccetto un lieve chiacchiericcio di fondo, il luogo è silenzioso e ogni minimo suono riecheggia ingigantito tra le pareti di pietra. In silenzio io e Paul facciamo un giro, fermandoci qua e là ad ammirare qualcosa in particolare e comunicando solo tramite sguardi e leggere gomitate per non rovinare in qualche modo l’atmosfera pacifica che regna.
Dopo vari minuti usciamo da lì, trovandoci di nuovo immersi nell’andirivieni di persone e nel calore del sole di maggio che cerca di addolcire il fresco clima che permane ancora; seguendo la mappa a nostra disposizione proseguiamo il cammino e attraversiamo il ponte sul fiume Pegnitz e ci fermiamo nel cuore dell’Altstadt, davanti ad un’altra chiesa dalla facciata peculiare, su cui vi è un orologio.
«Fico!» commenta Paul, fissando la facciata, poi si volta e intravede una fontana. «Ancora più fico! Questo posto è fantastico!»
«Sì!» mi entusiasmo anche io come una bambina e poi rido, è bello sentirmi in qualche modo tornata piccola per un breve lasso di tempo mentre faccio la turista perditempo.
«La chiesa di san Sebaldo promette bene, vedendo le foto» commenta il mio accompagnatore, di nuovo col naso fra le pagine «e pensare che le bombe l’avevano semidistrutta… il lavoro di ricostruzione è stato magistrale!»
Giunti dalle parti di quest’altro tempio seguendo le indicazioni, quasi non ci accorgiamo di aver di fronte l’ingresso: manca il grande portone centrale che di solito si riscontra in mezzo alle due porte laterali e più piccole, e di fronte a noi svetta un enorme crocifisso appeso a quel muro.
Una volta entrati, gioisco interiormente nel notare che non c’è assolutamente nessuno all’interno e il silenzio è pressoché totale. Qui dentro dai lati e persino dall’abside entra molta più luce, resa multicolore dalle pitture delle finestre istoriate, che si riflette sulle lucide canne dell’organo e su qualunque cosa ci sia nei paraggi: la sensazione che ne viene è quella di un luminoso abbraccio ed è così forte che decido di sedermi su una panca per poterla metabolizzare meglio. Paul non proferisce parola nel vedere le mie azioni, forse la sua empatia gli ha suggerito la rara e delicata situazione che si sta verificando.
Resto muta per qualche tempo, gli occhi fissi su un punto qualsiasi della parete di fondo; nella mente rivedo per breve tempo immagini di una me adolescente, con capelli lunghi mai tinti, a malapena due orecchini, niente piercing o tatuaggi, la faccia pulita senza trucco, costretta in abiti più “normali”, imbronciata e al seguito dei genitori tutti ben vestiti per la messa della domenica a dispetto dell’assenza di un codice di abbigliamento stretto… oh beh, loro erano pur sempre simpatizzanti con i battisti più estremisti che per quanto ne so hanno anche imposizioni più rigorose, se ci fosse stata nella nostra zona una chiesa battista amica di quei pazzi esaltati l’avrebbero certamente frequentata, invece non ce n’erano, si dovevano accontentare del luogo e delle persone che lo frequentavano.
Dopo aver visualizzato queste cose, il pensiero torna al presente: dopo almeno cinque anni sono entrata di nuovo in una chiesa, di mia spontanea volontà, con un look che i miei genitori sicuramente non mi avrebbero mai permesso, ma alla fine chi se ne frega. Ho abbandonato il credo inculcatomi dai miei genitori, ma non mi sembra né strano né disdicevole credere che ci sia effettivamente un’entità superiore da qualche parte, probabilmente troppo occupata a pensare ad altro o impotente ad agire se non attraverso gli uomini. Per me non è più quell’opprimente tiranno che emergeva dalle parole e dalle credenze dei miei genitori bigotti.
Vecchio barbuto, chiunque tu sia, qualunque cosa tu sia di preciso, non ce l’ho con te, almeno non più.
Appena dopo aver formulato questo pensiero mi sale un groppo in gola, esce qualche lacrima ma l’asciugo più velocemente possibile. Mi rialzo, sorridendo a Paul per tranquillizzarlo, e infine usciamo da quel luogo che, così come Los Angeles mesi prima, mi ha fatta sentire accolta e in pace.
Il giro turistico prosegue ancora per un po’ prima che ci si fermi per un rinfresco; la parlantina che in precedenza sembrava scomparsa torna di gran carriera.
«Annuncio che Norimberga è ufficialmente entrata nella lista dei miei posti preferiti!» esclamo mentre sorseggio la mia bibita fresca.
«Si era capito fin dall’inizio della camminata» ride Paul, tornando ad ingozzarsi di noccioline. «L’Europa è davvero niente male, non ha moltissimo da invidiare all’America a parer mio.»
«Concordo.»
Sulla via del ritorno mi rendo conto di non ricordare minimamente la distribuzione delle camere da letto, per cui, giunta in hotel, mi siedo su un divanetto nella hall per una telefonata; in quel momento spunta dal nulla Shavo.
«Shavo!» lo chiamo, sventolando una mano: mi pare quasi che sobbalzi un po’ al mio saluto prima di raggiungermi. «Come mai questo spavento?»
«Ero sovrappensiero, soltanto questo» risponde lui, grattandosi la testa per qualche secondo. «Com’è andata la tua visita turistica?»
«Benissimo!» esclamo, tutta contenta. «Questo posto è davvero molto bello, avrei voluto che ci foste anche voi con me.»
«Anche a me avrebbe fatto piacere esserci, sono sicuro che gli altri siano d’accordo con me… se non avessimo avuto q-quell’imprevisto, saremmo venuti certamente.»
«Già… a proposito, avete risolto?»
«Ehm… nì… Serj e gli altri stanno ancora rimediando.»
«Capito. Gentilmente, puoi ricordarmi come ci siamo organizzati per le camere?»
«Eravamo organizzati diversamente prima, ma sul posto abbiamo pensato ad alcuni cambiamenti opportuni, lo staff ce lo ha permesso, e abbiamo fatto in modo da farti condividere una camera doppia con Daron.»
«Oh, meglio così… allora lo raggiungo in camera.»
«Aspetta!» il bassista mi si para davanti visibilmente allarmato; aggrotto la fronte, perplessa di fronte al comportamento bizzarro del ragazzo. «Oltre a lavorare per risolvere quella questione, i ragazzi… ehm… sono rimasti chiusi nella camera che devi condividere con Daron… p-porta difettosa, si è anche rotta la loro c-chiave e non era saggio tentare anche con il passepartout… è stato già chiamato un fabbro m-ma ancora non si sa quando arriverà, ha detto che aveva ancora da fare…»
«Da quando balbetti, Shavarsh?» lo prendo in giro bonariamente, seppur intimamente sospettosa al riguardo di tutta questa faccenda così oscura.
«Scusa, è che queste cose mi fanno venire l’ansia e mi fanno impappinare» replica lui, asciugandosi una goccia di sudore dalla fronte.
«Capisco… tranquillo» sorrido, mettendogli una mano su una spalla. «Dunque non posso nemmeno usufruire della stanza per una doccia… come posso fare adesso?»
«Il tuo bagaglio è nella camera che devo dividere con Serj, se vuoi puoi usare il bagno lì… per rispetto della tua privacy rimarrò fuori per tutto il tempo che ti serve.»
«Oh, potrebbe andare… non c’è nemmeno bisogno che ti chiuda fuori, mi porto l’occorrente in bagno e il gioco è fatto, no?»
«Effettivamente…»
Ancora piena di dubbi seguo Shavo su per un paio di rampe di scale, lungo un corridoio dipinto di verde pastello e ben illuminato e infine in una camera doppia spaziosa, arredata in maniera semplice ma fine, con le pareti verniciate di un tenue azzurro e una grande finestra che dà sulla grande strada sottostante. Il mio bagaglio è posato contro il muro proprio all’ingresso; una volta chiusa la porta raccolgo la roba necessaria, convinco Shavo a non auto-sfrattarsi dalla stanza per assenza di reale necessità e poi mi chiudo in bagno. La sensazione di rilassamento portata dall’acqua corrente è incredibile, sento tutti i muscoli delle spalle contratti sciogliersi… ma non posso rimanere sotto il getto per un secolo.
Dopo essermi asciugata per bene mi rivesto, poi asciugo i capelli con pazienza; ho scelto di indossare la mia biancheria più fine in vista della condivisione di letto con il mio ragazzo e del mio compleanno e sono già curiosa  riguardo alla possibile reazione del chitarrista…
«Ho una fame…» commento, uscendo dal bagno e trovando Shavo seduto sul letto, con aria intenta e il cellulare fra le mani. Si starà tenendo in contatto con gli altri, suppongo.
«Anche io» replica, con un sorriso «e per fortuna si mangia a breve, ho consultato gli orari dei pasti.»
«Bene! Hai notizie degli altri?»
«Sì, ha detto Serj che conviene che iniziamo a scendere per la cena… pare che il fabbro sia quasi in dirittura d’arrivo, dunque ci raggiungeranno più tardi.»
«Capito… allora andiamo.»
Scese le scale, in un salone finemente ammobiliato e luminoso, la vista della cena a buffet ci fa perdere qualunque dignità e ci fiondiamo sul cibo, affamati come non mai; per diverso tempo si sente soltanto il suono delle nostre mascelle. Quando la fame inizia a placarsi un po’ Shavo ed io riprendiamo a scambiare qualche chiacchiera, occasionalmente lui controlla anche il cellulare per vedere se ci sono news e pure io faccio lo stesso. Un poco di rumore e di vociare proviene dalla hall ad un certo punto, forse è finalmente arrivato il fabbro… ovviamente non capisco una singola parola di tedesco, quindi non ho idea di cosa si stiano dicendo.
Proprio quando io e il bassista facciamo per alzarci da tavola, finalmente sazi, tre figure familiari compaiono sulla soglia della sala e ci corrono incontro.
«Siamo liberi!» esala Daron e mi abbraccia, ansante.
«Alla buon’ora, ma il fabbro è infine venuto» dice Serj, con un leggero tono brontolante di fondo. «Avete mangiato come vi avevo suggerito di fare?»
«Certo papino!» scherza Shavo, schivando poi uno scappellotto.
«Bene, ora finalmente mangeremo anche noi prima che chiudano tutto e ci buttino fuori a pedate» ride John. «Ho notato che di fianco a questa sala c’è una sorta di salottino con un pianoforte, dopo vi va di fermarci un po’ lì per chiacchierare e magari suonare un poco?»
«Fantastico! Sì!» esclamo, saltando su tutta contenta. «Io e Shavo andiamo ad aspettarvi lì allora. Buon appetito!»
Lasciamo che i ragazzi vadano a mangiare e raggiungiamo la suddetta sala: è tappezzata con una carta da parati di un tenue color pesca, costellata di sedie dalla fattura alquanto fine e occupata da due divanetti fatti allo stesso modo su almeno due lati; vicino alla grande finestra vi è collocato un pianoforte a mezza coda nero, dall’aspetto un po’ consunto.
«Vediamo come sta messo lo strumento» dico, pensierosa, avvicinandomi e toccando un tasto: il suono è pulito e nemmeno troppo scordato, probabilmente è stato accordato di nuovo di recente e non molto usato.
«Pensavo peggio» commenta Shavo, annuendo. «Sai suonarlo?»
«Più o meno. Ho studiato per qualche anno da piccola e poi non più, credo di saper al massimo strimpellare qualcosa con accordi semplici. Attendiamo gli altri, sono certa che almeno Serj sia più capace di me…»
Dopo un’attesa relativamente breve finalmente il resto di noi ricompare nel nostro campo visivo; mi affretto a liberare lo sgabello davanti al pianoforte per poi sedermi su uno dei divanetti lì vicino mentre Daron mi raggiunge, si siede e mi attira a sé con un braccio.
«Tutto okay, cosina?» mi chiede, sorridendomi. «Com’è andato il tuo giro turistico?»
«Molto bene, grazie» rispondo, sospirando di contentezza «Norimberga è un bel posto. Sarebbe stato ancora più bello vederla con te, però.»
«Come sei dolce!» il sorriso del chitarrista si allarga, così come il mio, e mi tendo verso di lui per un bacio.
«Quanto zucchero» fa John, fingendo di svenire.
«Sempre molto spiritoso, Dolmayan» lo rimbecca l’altro, con tanto di linguaccia.
«Tu invece stai bene?» domando, quasi sottovoce.
«Sì, piccola, sto bene» risponde, depositando poi un bacio sulla mia fronte.
«Ebbene, che si fa qui?!» esclama Serj, tirando fuori per un attimo il suo vocione.
«Prego, maestro, si accomodi al pianoforte e ci faccia sognare» proclama il chitarrista, con tanto di gesto d’invito fatto con entrambe le braccia.
«Uh mamma, che emozione e che onore» scherza il più vecchio, facendo finta di essere un novellino imbarazzato, poi si siede sullo sgabello del pianoforte e si prepara ad iniziare.
Fra i vari brani, perlopiù improvvisazioni o cover e giusto un paio di brani pianistici più “classici”, dei quali molti riconosciuti in poco tempo, quello che mi colpisce quasi come un pugno in pancia al sentire le prime note è “Tears in heaven” di Eric Clapton… era una delle canzoni preferite di mio zio, una di quelle che ascoltavo pensando a lui dopo la sua morte. Lo sforzo di trattenere le lacrime è notevole.
«Hey Nikki, tutto okay?» Serj si ferma a poco dalla fine della canzone, accortosi che qualcosa non va, si alza e viene da me.
«Sì, Serj, tutto okay… ho dei ricordi non felici legati a questa canzone, tutto qui» rispondo, tirando un attimo su col naso mentre l’abbraccio di Daron si fa un poco più stretto e gli altri due mi guardano con dolcezza e comprensione.
«Allora sarà il caso di puntare a qualcosa di più allegro…»
Eccetto quel momento, il resto della serata passa in serenità e divertimento; ad una certa ora i ragazzi iniziano ad essere vistosamente stanchi e capisco che è arrivata per tutti l’ora di andare a letto.
«Porto il vecchio a letto prima che gli si sloghi la mascella a furia di sbadigliare» scherza Shavo, trattenendo anche lui uno sbadiglio, ridacchiando quando il cantante gli rivolge un’occhiata in tralice.
«Io devo raggiungere Sako che chissà da quante ore starà già dormendo… meno male che mi ha lasciato la chiave» commenta John, strofinandosi un occhio.
«Bene, anche noi andiamo» dico, tenendo per mano il mio ragazzo. «Buonanotte ragazzi!»
Seguo Daron in silenzio per tutto il percorso, simile a quello già fatto in precedenza al seguito del bassista, e lo osservo mentre armeggia con le chiavi per aprire.
«Prego» mi invita ad entrare per prima, con un gesto.
«Oh, troppo gentile» replico, lusingata. Metto un piede dentro la stanza ancora buia e tocco con la punta dell’anfibio qualcosa di morbido che produce un rumore “plastico”; arranco un poco con la mano e, quando finalmente trovo l’interruttore e riesco ad accendere la luce, mi si para davanti una scena inaspettata.
La camera è invasa di palloncini multicolore di ogni dimensione!
«Ci sono anche dei bicchierini d’acqua nascosti sotto i palloncini» mormora il chitarrista, con tono divertito e dispettoso «chi riesce ad arrivare al letto facendone cadere meno possibile vince e il perdente paga pegno a scelta. Ci stai, bestiolina?» aggiunge, lasciandomi un piccolo bacio vicino ad un orecchio.
«Oh, sai che adoro le sfide, antipatico» replico, senza riuscire a trattenere un brivido e un sorriso finto malefico. Inizio a procedere con cautela, ma in soli cinque passi sento più volte rumore di plastica accartocciata e il suono dell’acqua che mi finisce sui piedi e talora schizza sui miei jeans. Ad un certo punto inciampo pure, finendo immersa nei palloncini, e scoppio a ridere per la situazione comica in cui mi ritrovo prima di avviarmi verso il letto strisciando, tastando il pavimento per incrociare altri eventuali bicchieri prima che li calpesti o li versi.
«Sto per raggiungerti, se ti acchiappo sei spacciata!» annaspa Daron, un metro più dietro, troppo impegnato a ridere per poter procedere in maniera attenta e veloce.
«Oooh, che paura» lo sfotto, ormai vicina alla meta. Improvvisamente mi sento trattenuta per un piede e mi sfugge un singulto di lieve spavento prima di capire che, ovviamente, solo il chitarrista può essere stato a giocarmi questo tiro; per vendetta mi trascino con più forza e faccio sì che incappi in ogni singolo bicchiere sul percorso.
«Ho vinto» ansimo, tirandomi finalmente sul letto con ancora il ragazzo attaccato ad una mia gamba «ho bagnato soltanto scarpe, una zona sul polpaccio e un’altra zona su una manica! Tu sei messo maluccio» commento, divertita: lui ha bagnato le sneakers, una coscia e un’ampia zona che spicca notevolmente più scura sulla sua t-shirt viola.
«Uff!» brontola il ragazzo, fingendo cocente delusione. «Però si può sempre rimediare» ridacchia, con tono perfido; sento una zona del davanti della felpa bagnarsi e uno splash sonoro…
«Ma allora è guerra!» esclamo, dopo essermi tolta gli anfibi, sporgendomi dal letto per recuperare un paio di bicchierini dal pavimento; ha luogo una battaglia senza esclusione di colpi in cui i nostri vestiti diventano progressivamente bagnati e, in dei punti, persino fradici… lancio su una sedia la giacca e la felpa tolte frettolosamente, tenendo la mia t-shirt nera non ancora troppo bagnata, poi torno all’attacco e mando a segno altri due colpi contro il mio ragazzo, uno all’altezza del petto e uno quasi all’altezza dell’inguine.
«Oh, ti sarai mica fatto la pipì addosso per la paura?» lo canzono, ridendo di gusto mentre mi affretto a rifornirmi di “munizioni”.
«Pare sia successo anche a te, sai?» un’altra volta Daron centra un bersaglio sul mio corpo prima che possa difendermi; ormai mi ha raggiunta sul letto.
«Questa me la paghi!» protesto, fiondandomi sul ragazzo. Cerco di placcarlo sotto di me, ma lui elude la mia presa e inizia a farmi il solletico, ben sapendo che non gli resisterò a lungo; non cedo soltanto per un arduo sforzo di concentrazione, ma poco dopo entra qualcos’altro in gioco… finalmente riesco a fermarlo e lo bacio, poi entrambi veniamo presi da un impeto e ci spogliamo in fretta e furia dei nostri vestiti bagnati. Ho una posizione di “potere” sul mio ragazzo che mi eccita alquanto e che mi porta ad essere sfrontata, così mi strofino sul suo bacino, l’unico ostacolo al contatto la nostra biancheria intima, ma quella mossa si rivela controproducente poiché Daron riesce a capovolgere le posizioni, dopo avermi privato di un altro indumento con una straordinaria e veloce precisione, e a quel punto soccombo al suo attacco passionale: le sue labbra bollenti vanno continuamente dalla mia bocca al mio petto, sui capezzoli già induriti dall’acqua fredda che mi ha impregnato gli abiti prima, e io non riesco a fare altro se non aggrapparmi alla sua schiena con le unghie, abbastanza corte da non aprire squarci.
Dopo ancora alcuni minuti di contatto fisico stretto e segnato da una certa foga, facciamo l’amore con la stessa passione della nostra prima volta, placando il desiderio attizzato da giornate occupate senza spazi e privacy per poter stare insieme in quel modo; dopo la fine del nostro momento d’amore diversi minuti trascorrono soltanto fra respiri terribilmente affannati, e il silenzio viene interrotto all’improvviso soltanto da un suono breve proveniente dal cellulare del ragazzo, forse un sms o un promemoria. Daron allunga in fretta un braccio per riportare l’apparecchio al suo stato di quiete, con la solita aria corrucciata che assume ogni qual volta ha a che fare con la tecnologia, poi torna ad abbracciarmi con forza, non intenzionato a staccarsi presto da me.
«Buon compleanno, piccola!»
Oh, cavoli, è già mezzanotte?! E sono già ventiquattro anni per me?
«Sta correndo troppo, il tempo» mugolo, con le mani in faccia, attenta a non spargere ulteriormente l’eyeliner già rovinato sul resto della faccia. «Grazie mille, tesoro…» replico, con un sorriso da un orecchio all’altro, tendendomi verso Daron per dargli un bacio.
«Spero ti sia piaciuta la sfida nei palloncini con l’acqua, c’è voluto l’intero pomeriggio per preparare tutto!»
All’improvviso il chitarrista prima sorride, poi scoppia in una sonora risata che riecheggia nella stanza silenziosa; l’illuminazione giunge e capisco finalmente cosa c’era dietro alle stranezze di quel pomeriggio.
«Quindi non c’è stato nessuna faccenda seria e privata da risolvere col management oltreoceano e nessun problema con la porta, vero? Dovevo intuirlo che stessi macchinando qualcosa, furbone!» mi sbatto una mano sulla fronte.
«Proprio così» gongola il ragazzo, soddisfatto. «Ci sei cascata come una pera cotta! Anche Paul ha collaborato, portandoti in giro, era fondamentale che lo facesse, così io, Serj e John abbiamo avuto il tempo di allestire questo scherzo.»
«Oddio, mi sento una scema totale in questo momento…»
«Ma no, dai, è stato meglio così, almeno la sorpresa ha avuto ottimo esito!»
Sorrido ancora, poi riabbraccio il mio ragazzo, con il naso semi-schiacciato contro l’incavo della sua clavicola sinistra. «Grazie davvero, hai reso questo compleanno il migliore dei miei ventiquattro e prevalentemente tristi anni di vita… non sono certissima di aver meritato tutto questo, ma sono invece sicura che non smetterò mai di ringraziare te e gli altri…»
«Te lo sei meritato eccome, cosina, meriti di essere felice» mormora lui in risposta, stringendomi a lui con fare protettivo; le sue carezze fra i capelli e sulla nuca sono l’ultima cosa che percepisco prima di addormentarmi accoccolata contro il suo corpo.
  
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