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Autore: Adeia Di Elferas    20/09/2017    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Quando ancora la rocca di Ravaldino era immersa nel clima mite e silenzioso della notte, Giovanni si era alzato e aveva cominciato a prepararsi. Aveva dormito poco ed era stato agitato fin da quando si era coricato. La cosa che più lo teneva sulle spine era il non essere stato capace di comprendere che cosa Caterina volesse davvero quel giorno.

Quando era quasi pronto, controllo dalla finestra se stesse nevicando o meno e poi, una volta appurato che qualche fiocco in effetti stava già scendendo, decise di mettersi il giubbone e le brache più pesanti che aveva portato con sé da Firenze.

Quando pensò che l'ora fosse quella giusta, si guardò nel piccolo specchio che era riuscito a farsi procurare dalla figlia della Contessa in cambio di un piccolo libro, e si sistemò i riccioli castani, osservandosi sotto la luce malferma delle candele.

Sentendosi finalmente pronto, infilò anche il mantello invernale e poi andò in corridoio e si mise ad attendere che la Tigre uscisse dalla sua camera. Non dovette aspettare molto.

“Siete puntuale come sempre.” sorrise Caterina, parlando a voce bassa.

Anche lei aveva preferito coprirsi bene, in vista della giornata tra la neve. Oltre a una cappa molto spessa, aveva indossato uno dei pochi vestiti a più strati che aveva. Con gli stivali da caccia e i guanti da infilare a cavallo, sentiva che sarebbe stata ben protetta anche da una tormenta.

Senza dire altro, la donna invitò il fiorentino a seguirla e, come avevano fatto l'ultima e unica volta in cui erano usciti a caccia insieme, andarono nella sala delle armi per prendere il necessario per la battuta.

Passarono poi anche dalle cucine, dove la Contessa mise insieme qualcosa per il pranzo, in particolare un fiasco di vino e del pane, che avrebbe assicurato alla sella del cavallo assieme alle armi. Aveva optato per un fiaschetto abbastanza piccolo, per impedirsi di eccedere, nel caso le fosse venuta la tentazione. Quel giorno voleva restare lucida e presente a se stessa. Qualsiasi scelta avesse fatto, voleva che fosse una scelta cosciente.

Non incontrarono nessuno, a parte un garzone nelle stalle che li salutò appena, troppo assonnato per fare discorsi. Entrambi parevano molto più taciturni del solito. Al massimo si scambiavano qualche sguardo di quando in quando mentre sistemavano i finimenti e se capitava che i loro occhi si incontrassero, sorridevano appena e poi ritornavano rapidamente a quello che dovevano fare, come nulla fosse.

Una volta in sella, Caterina puntò il suo stallone nero come la pece verso l'uscita della rocca e disse: “Se siete d'accordo, vorrei portarvi nella riserva della rocca. Non l'ho ancora visitata come si deve e mi piacerebbe vedere che selvaggina vi si trova.”

Giovanni, dando di speroni al suo placido baio, annuì e confermò: “Ottima idea.”

Quando lasciarono Ravaldino, la prima pallida luce del sole filtrava incerta tra le nuvole bianche e ancora molto spesse. Non nevicava, in quel momento, ma il Medici sarebbe stato pronto a giurare che prima di sera avrebbe ripreso.

Cavalcarono per parecchio, le zampe dei cavalli che affondavano nella neve ancora tenera, mentre il giorno cominciava ad avanzare. Qualche punto ghiacciato rallentava un po' la loro andatura, ma la Contessa non ne parve infastidita. Più volte si fermava ad aspettare Giovanni, il cui baio, più goffo e meno avvezzo a certi terreni rispetto al suo purosangue, a volte aveva delle incertezze che lo rendevano un po' macilento.

Per tutta mattina i due perlustrarono la tenuta. Non c'erano grossi animali, nei dintorni e perfino gli uccelli si erano nascosti chissà dove per far fronte al gelo. Finalmente, intorno a mezzogiorno, Caterina riuscì a prendere un paio di conigli dalla pelliccia bianca quasi quanto la neve con cui avrebbero voluto mimetizzarsi per scampare alla morte.

Lei e il Popolano avrebbero voluto fermarsi a mangiare qualcosa, sedendosi magari su una delle rocce piatte che avevano incontrato lungo il loro peregrinare, ma faceva davvero troppo freddo per mettersi a pranzare all'aperto. Per fortuna, proprio in quel mentre, si trovarono vicini al capanno di caccia che la donna aveva a tutti i costi voluto che fosse edificato in mezzo alla riserva.

Si trattava di una piccola casetta, con accanto una stalla in cui potevano restare al massimo due o tre cavalli. Aveva dato ordine che fosse sempre rifornita di cibo e tenuta in ordine, ma fino a quel momento non aveva ancora dato a nessuno il permesso di usarla, nemmeno ai suoi cacciatori di fiducia.

“Mentre la tiravano su, i costruttori hanno cominciato a chiamarla la Casina...” spiegò Caterina, smontando da cavallo e afferrando le redini per condurre il purosangue verso la piccola stalla.

“Direi che è un nome appropriato.” convenne il Popolano, imitando la donna e seguendola con il suo baio che sbuffava impaziente di trovare un po' di riparo dal vento freddo.

“Fantasioso, soprattutto.” commentò la Contessa, a denti stretti, mentre un refolo algido le sollevava il bordo del mantello.

Dopo aver sistemato le due bestie, la Tigre propose di controllare l'interno del capanno. Da quello che il castellano le aveva detto, era stato sistemato da tempo, ma in fondo Caterina era impaziente di vedere come fosse stato messo a posto.

Quando entrarono, complice la luce pallida e timida di quel giorno di gennaio, la Casina apparve come un ambiente molto buio, ma piacevolmente raccolto. Caterina cercò qualche candela da accendere e in un attimo riuscì a illuminare la sala, dopo qualche tentativo con le pietre focaie lasciate sul davanzale dell'unica finestra.

Era un ambiente unico, con una sola finestra che dava sul bosco, un caminetto, una cassapanca, un tavolone adatto sia come appoggio per macellare una bestia di mezze dimensioni, sia per mangiarvi o spiegare delle mappe, e un letto – poco più di un pagliericcio, in realtà, troppo piccolo per due persone e troppo grande per una sola – su cui erano state messe due pesanti coperte e un guanciale di fattura andante.

Giovanni, che teneva i due conigli per il laccio che legava le loro zampette, cominciò a guardarsi intorno, mentre la Tigre andava avanti ad accendere luci.

L'uomo fece un rapido giro della stanza, valutando come, fondamentalmente, non mancasse nulla, e appoggiò le piccole prede sul tavolone di legno, sopra al quale erano stati sistemati da qualcuno un paio di salami, una piccola forma di formaggio stagionato e un minimo di vasellame.

“Provviste – iniziò a elencare il Medici, mentre Caterina lo affiancava e si metteva a controllare tutto come stava facendo anche lui – candele, piatti e bicchieri, un letto discretamente grande, coperte pesanti, legna da ardere e perfino un camino...”

Gli occhi del fiorentino erano stati attratti dal braciere, ancora spento, che stava nell'angolo opposto al letto. Era piccolino, in pietra, molto ben fatto e decisamente lussuoso, per un capanno come quello.

Mancava un pozzo nelle immediate vicinanze, ma avendo poche pretese e non vedendo come un peso il dover andare al primo ruscello o in paese a prendere l'acqua, in quel capanno ci si sarebbe potuti fermare a vivere senza problemi.

“Molto accogliente.” riprese Giovanni, guardando la Tigre, che cominciava ad accendere anche il fuoco nel caminetto, per riscaldare l'ambiente e fare arrosto i conigli: “Soprattutto per essere un casino di caccia.”

“Per me la caccia è molto importante.” ribatté la donna, gettando qualche coccio di legno sul braciere.

“Questo lo avevo capito.” confermò il Popolano, con un sorriso un po' imbarazzato.

Avrebbe voluto saper dire di più, cercare di farle capire quanto quella mattina passata insieme in mezzo alla neve, quasi in perfetto silenzio, gli fosse piaciuta. Doversi curare solo l'uno dell'altra, mente tutti i sensi erano in allerta nella speranza di veder arrivare qualche ignara preda... Era qualcosa che stregava Giovanni ed era certo che anche per Caterina fosse così.

Senza indugiare troppo sull'uomo che le stava davanti, la Contessa cominciò a scuoiare uno dei due conigli e in poco tempo le carni delle due bestioline vennero abbrustolite e lei e l'ambasciatore poterono mettersi a mangiare.

“Questo pomeriggio mi piacerebbe provare a cacciare qualcosa di più grosso, se saremo abbastanza fortunati da avvistarlo...” disse a un certo punto la Tigre, mettendo un osso di coniglio da parte e versandosi un goccio di vino.

“Non intendete tornare alla rocca, dopo mangiato?” chiese Giovanni che, in un eccesso di pessimismo, si era convinto che quello fosse il reale piano della Contessa.

Caterina non riuscì a evitare di prendere colore, così provò a suonare molto casuale nel dire: “La rocca non è molto lontana, in fondo. Anche se cacciassimo per un po' nel pomeriggio, potremmo sempre fare in tempo a tornare a Ravaldino per la notte, se è quel che volete.”

Il Popolano per poco non si ingozzò con il boccone di pane che aveva appena messo in bocca, ma non ebbe lo spirito di dire nulla, così fece appena un cenno con il capo che poteva voler dire tutto e niente.

Quando ebbero finito di mangiare, il tepore della Casina li stringeva a sé come un caldo abbraccio e anche il vetro della finestra s'era appannato, lasciando tutto il gelo dell'inverno chiuso fuori.

“Avevate ragione sulle poesie di quel Petrarca.” disse Caterina, rigirando tra le dita il calice in cui restava solo l'ombra del vino: “Le ho rilette con attenzione e le ho trovate sorprendenti.”

“Mi fa piacere. Se vorrete, potremmo rileggerne qualcuna assieme, un giorno di questi.” propose Giovanni, esibendosi nel sorriso pacato che alla Tigre piaceva così tanto.

Seguì un lungo momento di pausa e poi fu di nuovo la Leonessa a parlare: “Com'è casa vostra?”

Il Popolano sollevò un attimo le sopracciglia, poi si passò una mano sul mento, sul quale cominciava a spuntare la barba di mezza giornata e poi, intento a trovare le parole migliori, cominciò a dire: “In realtà ne ho due. Una è a Cafaggiolo, ma ci ho vissuto solo da piccolo e per qualche tempo, prima di tornare a Firenze. Il palazzo dei Medici è la mia vera casa, direi. Casa mia è un palazzone in via Larga.”

Caterina si mise comoda sulla sedia e appoggiò le mani al tavolone di legno grezzo, cercando di immaginarsi, o meglio, di ricordare. Firenze, nei suoi ricordi, era solo un'ombra sfuocata, ma da quando Giovanni viveva alla sua rocca, quelle immagini sepolte dal tempo stavano sgomitando per tornare a galla.

L'ambasciatore proseguì, mentre le sue profonde iridi chiare si perdevano nelle sfumature della Firenze che aveva lasciato ormai da più di un anno: “A un passo, c'è la chiesa di San Lorenzo, dove va da sempre la mia famiglia. Poco prima, attraversando la via a ritroso, si raggiungono in fretta i due cuori della città: il Duomo e il palazzo della Signoria. Casa mia, in confronto al Duomo e al palazzo della Signoria, è piccina. Però è molto imponente. Ha grossi blocchi di pietra, per pareti esterne, e appena si entra c'è un cortile, che è la mia parte preferita di tutto il palazzo.” le labbra piene di Giovanni si sollevarono in un mezzo sorriso un po' triste: “Ricordo che a mio cugino Giuliano piaceva molto mettersi a una delle finestre e guardare la gente che andava o tornava dalla Messa in San Lorenzo. Io, invece, anche da bambino, ho sempre preferito guardare la vita interna del palazzo affacciandomi sul cortile interno.”

La Contessa ascoltava in silenzio, mentre la voce morbida e tranquilla del Popolano la portava in una terra e in una realtà molto diverse da quelle in cui viveva da sempre: “Nelle mattine d'inverno, quando c'è quel silenzio impalpabile – proseguì Giovanni, le mani che passavano assorte sul legno, come se lo stessero accarezzando – e solo qualche servo un po' assonnato che si aggira svogliato e lento... Ecco, in quelle mattina fredde e ferme, mi piace guardare nel cortile o alzare gli occhi verso il cielo della mia Firenze...”

In quel discorso, pregno di malinconia, Caterina trovò non solo l'eco della Firenze, tanto amata da Giovanni, ma ritrovò anche la propria nostalgia per Milano e a quel punto non dovette più sforzarsi per immergersi nel passato.

“Me la ricordo, casa vostra.” disse, a voce bassa, stringendosi un po' nelle spalle e guardando il fuoco che scoppiettava nel camino.

“Come..?” chiese il Popolano, stupito da una simile affermazione.

“Quando ero una bambina, quando avevo più o meno otto anni, ho accompagnato mio padre a Firenze, in un viaggio breve.” raccontò la Contessa, rivangando un ricordo che la sua coscienza aveva custodito gelosamente, impedendole, forse in uno slancio di generosità, di rievocarlo nei lunghi anni passati a crogiolarsi nell'odio per quello che suo padre era stato capace di farle appena un anno dopo: “Eravamo stati da vostro cugino, Lorenzo. Ancora non lo chiamavano il Magnifico, però. Era solo un giovane uomo che cominciava a far parlare di sé.”

Il fiorentino fece due conti e giunse alla conclusione che in quel periodo lui aveva circa tre o quattro anni e viveva ancora con suo padre e suo fratello, lontano dal palazzo dei suoi cugini.

“Ero stata così felice che mio padre avesse deciso di portarmi con sé, che quasi non ricordo nulla di Firenze, se non il tempo passato con lui.” sussurrò la Tigre, riscoprendo in sé memorie che credeva perdute per sempre: “Però la vostra casa, adesso che me ne parlate, me la ricordo. Ero rimasta colpita da quel palazzo che non aveva né torri né prigioni. Era così diversa, dal palazzo in cui vivevo io...”

“Non mi avevate mai detto di essere stata a Firenze.” disse Giovanni, quando parve che l'aneddoto fosse chiuso.

“Perché dopo un anno scarso mio padre mi ha fatto sposare Girolamo Riario e ho cominciato a odiarlo e così... Non lo so. Senza accorgermene, tutto quello che avevo fatto di buono con lui me lo sono dimenticata.” ribatté frettolosamente Caterina.

Il Popolano, pur non sapendo di preciso in che modo, comprese di aver toccato un nervo scoperto, perciò preferì non insistere. Se la Tigre avesse voluto, sarebbe stata lei stessa ad approfondire in un altro momento. Quando voleva aprirsi, lo faceva, ma provare a forzarla era il modo migliore per farla richiudere in se stessa. Dunque l'attesa sarebbe stata, anche in quel caso, l'arma migliore.

La Leonessa gli fu grata per la sua discrezione e si guardò attorno in cerca di un valido appiglio per cambiare discorso.

Con uno sbuffo che doveva sembrare divertito, indicò il formaggio e i salumi ed esclamò: “Se li vedesse mio figlio Ottaviano, li divorerebbe in un soffio. Sta diventando peggio di Sforzino. Se continua così, tutti i begli abiti che s'è fatto confezionare con le vostre stoffe saranno da disfare e ricomporre prima del prossimo Natale!”

“Vostro figlio mangia per astio.” disse Giovanni, senza riuscire a trattenersi.

Come spesso gli capitava quando era con la Contessa, le parole gli erano scivolate via prima di ragionarci sopra abbastanza.

“Non dovrebbe essere lui a provare astio nei miei confronti. Ha ucciso l'uomo che amavo. Dovrei essere io a provare astio per lui.” fece Caterina, con voce dura: “Ho ucciso tutti i colpevoli della morte di Giacomo, ho colpito senza pietà tutti quelli che erano collegati anche solo in modo esile con i congiurati, ma ho lasciato in vita i tre veri colpevoli e non passa giorno in cui non mi chieda se ho fatto la cosa giusta.”

Il Popolano deglutì e chiese: “Chi sarebbero? A parte Ottaviano, intendo.”

La Tigre puntò le iridi verdi in quelle chiarissime del fiorentino e cercò di capire quanto davvero gli interessasse e quanto ci fosse di mera gentilezza in quella domanda.

Siccome l'ambasciatore era serissimo e pareva sinceramente coinvolto, la donna rispose con schiettezza: “Mio figlio Cesare e il Cardinale Sansoni Riario.”

“Quello che sta a Roma?” chiese il Popolano, ripassandosi in fretta le parentele dei Riario, che si era preso la cura di studiare per bene prima di lasciare Firenze alla volta di Forlì.

La Leonessa annuì: “Non sono riuscita a uccidere i miei figli. Ci avevo anche pensato e, forse, se non mi fossero scappati all'inizio, sull'onda del dolore li avrei anche ammazzati. Ma poi ho avuto il tempo di ragionarci e non ci sono riuscita. Per quanto desiderassi punirli, non sono stata capace di alzare le mani su di loro per ucciderli. Non potevo ucciderli. Soprattutto Cesare, che è stato solo traviato da Ottaviano. In quanto a Raffaele... Non sono abbastanza potente per colpire un uomo del papa e sperare di farla franca un'altra volta.”

“Ma come mai vostro figlio Ottaviano aveva così tanto astio per vostro marito?” chiese Giovanni, sentendosi molto teso, ma altrettanto desideroso di capire di più.

Da quando era arrivato alla corte della Sforza, il fantasma del Barone Feo era stato una presenza costante e tutte le dinamiche della famiglia Riario sembravano ormai ineluttabilmente collegate a quel sanguinoso episodio. Caterina era anche quello, ormai. Il suo passato era parte integrante di lei e Giovanni desiderava solo capirla e conoscerla e dunque, per farlo, doveva sforzarsi di capire e conoscere anche quella parentesi nera della sua vita.

“Non pensate che a mio figlio bastasse il fatto che Giacomo passasse tutte le sue notti in camera mia?” chiese la donna, agitandosi un po' e versandosi due dita di vino: “Evidentemente mio figlio non sopportava il pensiero che avevo odiato suo padre con la stessa intensità con cui poi avevo amato uno stalliere.”

Il fiorentino si abbandonò contro lo schienale della sedia e la guardò, un po' in difficoltà: “Avete capito che intendo...” allargò le braccia e precisò: “C'è stato un motivo scatenante o..?”

Se quella domanda fosse stata fatta da qualcun altro, chiunque altro, Caterina avrebbe detto che si trattava di una richiesta fuori luogo e senza importanza. Però, essendo stata posta da Giovanni, assumeva tutta un'altra valenza e improvvisamente la Tigre sentiva il desiderio pressante di rivangare quei momenti e di cercare comprensione.

Fino a quel momento, nessuno le aveva permesso di parlare del suo tormento con quella calma e senza accusarla di qualcosa. Perfino sua madre, quando aveva cercato di consolarla, altro non aveva fatto se non darle dell'assassina spietata, giudicandola colpevole, puntandole contro il dito senza nemmeno provare ad ascoltarla.

“Lui gli ha dato uno schiaffo. Forte, davanti a molta gente.” rispose lentamente la donna.

“Giacomo a Ottaviano?” domandò Giovanni, accigliandosi.

“Sì.” soffiò la Contessa, vuotando d'un fiato il calice e poi allontanandolo da sé, come a imporsi di non bere oltre.

“Come mai?” indagò ancora l'ambasciatore, sporgendosi un po' verso di lei.

“Non lo so... Cioè...” Caterina ripensò a quella scena, molto lontana nel tempo e da un lato le parvero passati secoli, mentre dall'altro poteva ancora sentire le voci nella strada e vedere gli occhi iniettati di rabbia e dolore di suo figlio, mentre la vedeva prendere le difese di Giacomo senza nemmeno provare a capire chi dei due fosse davvero in torto: “Ottaviano non perdeva mai occasione per provocarlo e Giacomo non era abbastanza maturo da capire che non era saggio prestargli così il fianco.”

“E voi come avete reagito?” fece il Medici, cercando di immaginarsi quella lontana giornata che, a detta della Tigre, aveva segnato il destino infelice del Barone Feo: “Intendo dire, lo schiaffo l'avete visto? C'eravate anche voi?”

“Sì, c'ero anche io.” annuì la Tigre, assumendo un'espressione sofferente: “E in pratica non ho fatto nulla. Che potevo fare? Se avessi ripreso pubblicamente Giacomo, poi avrei dovuto punirlo per lesa maestà. Come avrei potuto?” si passò con forza una mano sulla fronte, mentre una ciocca di capelli biondi, punteggiati da qualche filo bianco, scivolava in avanti a coprirle un po' il volto: “Così ho mandato alla rocca mio figlio, sperando di arginarlo, e ho sgridato Giacomo in separata sede, lontano da occhi indiscreti, quando siamo stati soli, nella nostra camera.”

“Non deve essere stato facile.” interloquì il Popolano che, per tutto il racconto, aveva cercato di immedesimarsi in lei e aveva provato un'angoscia tanto grande da chiedersi come doveva essere stato trovarsi realmente in una situazione del genere.

“No, non lo è stato.” disse la Contessa: “Ma a me bastava avere lui. A qualsiasi costo. Tutto il resto non aveva importanza.”

“Vi capisco.” fece piano Giovanni, allungando una mano e prendendone una della donna.

Caterina accolse la stretta per qualche secondo, avvertendo un profondo senso di comprensione, ma poi, come scottata, la ritrasse e si scosse: “Che ne dite, allora? Usciamo a cercare qualcosa di decente da cacciare?”

Un po' a malincuore, Giovanni abbandonò il calduccio della Casina e si rituffò in mezzo alla neve con la Contessa.

Si mossero in lungo e in largo per la riserva, senza, però, trovare nulla che facesse al caso loro. E tuttavia quel vagare senza meta fu tutt'altro che spiacevole. In più, avevano ormai archiviato certi pudori da sconosciuti già quando avevano passato insieme giornate intere nella camera di Giovanni, durante la sua crisi gottosa, così non restò loro altro se non chiacchierare come due vecchi amici delle loro letture in comune, spesso infischiandosene del rischio di far fuggire le prede con il tono alto delle loro voci o con le loro risate.

Ci fu anche modo di sfiorare degli argomenti di politica e quando il Medici si arrischiò a suggerire che quello sarebbe stato il momento migliore per colpire Pandolfo Malatesta, se qualcuno avesse voluto farlo, la Leonessa fece uno sbuffo e borbottò: “Credete che non lo sappia anche io?”

Gli affari di Stato vennero in fretta messi da parte e, arrancando tra gli alberi, i due tornarono a discutere di poetica e arte, scontrandosi a volte sull'opportunità o meno di spendere soldi pubblici per le bellezze culturali, sottraendoli a cosa come la difesa o la sanità pubblica.

“Tutto bene?” chiese Caterina, quando il Popolano abbozzò un passo un po' claudicante nell'andare a recuperare una piccola beccaccia abbattuta dalla freccia partita dall'arco della Tigre.

L'uomo assicurò che stava benissimo, eppure la donna gli arrivò accanto, dopo essere smontata in fretta da cavallo.

La neve stava riprendendo a cadere con più forza e il pomeriggio andava man mano stemperandosi nella sera. Il cielo s'era scurito e il freddo era molto più acuto di quanto non fosse stato durante la prima parte della giornata.

“Forse sarebbe meglio rientrare, se non vogliamo rischiare di perderci o di ammalarci.” sussurrò il fiorentino, guardando di sottinsù la Contessa, che stava a un passo da lui, le gonne tenute alte con una mano e gli stivali affondati per metà nella neve.

“Potremmo fermarci alla Casina, per la notte.” propose la donna, porgendo le redini del baio al Popolano e tenendo per sé quelle dello stallone.

Ancora una volta il fiorentino non era del tutto certo di cosa la Leonessa stesse proponendo. Aveva il terrore di essere un povero illuso e aveva imparato a sue spese che ogni mossa troppo repentina avrebbe potuto farla scappare. E a quel punto, indurla poi a riavvicinarsi sarebbe costato ancora un sacco di tempo e di pazienza, due cose di cui il fiorentino, a volte, soprattutto nelle lunghe notti passate da solo a pensare al proprio futuro, si sentiva carente.

“Alla rocca potrebbero impensierirsi per voi, no? Si potrebbe pensare, nel non vedervi rientrare per la notte, che abbiate avuto qualche incidente a cavallo o...” cominciò a dire il Medici, giocherellando nervosamente con le briglie del suo cavallo.

“Nessuno si preoccuperà. Avevo lasciato detto che forse sarei rimasta fuori fino a domani.” disse Caterina, non trattenendo un sorriso di fronte all'accento fortissimo del Popolano che riemergeva soprattutto quando si imbarazzava, come in quel momento.

“Era una cosa che avevate programmato?” chiese l'uomo, guardandosi le mani guantate di pelle e sforzandosi di non tremare per il freddo.

“No, ma non l'avevo escluso.” ammise la Contessa, con una sincerità tanto disarmante da far sorridere l'ambasciatore.

Spegnendo per un attimo la coscienza e lasciandosi guidare solo dall'istinto, Giovanni fece un paio di passi difficoltosi verso di lei, affondando nella neve sempre più alta, e poi, appena fu abbastanza vicino, provò a baciarla.

La Tigre non si ritrasse, anzi, rispose con entusiasmo, tanto che, per appoggiare le mani sui fianchi del fiorentino, lasciò andare le redini del suo stallone che però, per fortuna, non si allontanò.

Il Popolano strinse a sé la donna che amava e, dopo averla baciata ancora un paio di volte, le disse, nell'orecchio: “Avete fatto bene a non escluderlo.”

Passandole una mano guantata di pelle imbottita di pelo sul viso, il fiorentino, le gote rosse come il fuoco, le dedicò un sorriso raggiante e quando lei chiese se fosse d'accordo ad andare di nuovo alla Casina, lui accettò subito e l'aiutò a montare in sella.

Anche se non ne aveva alcun bisogno, la Contessa accettò la mano salda di Giovanni e si mise in groppa al suo purosangue, guidando entrambi verso il capanno di caccia.

“Sistemo io i cavalli.” disse Caterina, indicando con un cenno del capo la piccola stalla e lasciando intendere al fiorentino che con quel pretesto voleva stare un momento da sola.

L'uomo l'assecondò ed entrò nella Casina. Si tolse il mantello e si chiese se la Tigre volesse o meno mangiare ancora qualche pezzo di coniglio. Per quanto riguardava lui, si sentiva tanto teso che non sarebbe riuscito a mandar giù nemmeno un sorso d'acqua.

Nel frattempo la Contessa stava legando i cavalli e mettendo loro le pastoie, assicurandosi che avessero paglia a sufficienza e che il loro riparo fosse abbastanza solido da proteggerli dal vento gelido e dalla nevicata di quella sera.

Il sole stava tramontando e ormai il buio si stagliava maestoso sul bosco addormentato. Fiocchi violenti di neve turbinavano fino in terra e probabilmente il giorno dopo sarebbe stato complicato rimettersi in marcia. Ma quello non le importava.

Prima di entrare nel capanno, Caterina si prese un momento. Si appoggiò con la schiena alla parete di legno, non badando ai fiocchi che si posavano sul suo volto in fiamme e si scioglievano all'istante. Chiuse gli occhi e cercò di pensare a qualcosa, qualunque cosa, ma tutto quello che aveva in mente era solo Giovanni.

A fatica, si fece il segno della croce e provò a dire mezza preghiera, come per chiedere il perdono o forse il permesso a Giacomo. Anche se aveva avuto molti uomini da quando lui era morto, quella volta si trattava di una cosa completamente diversa e quella sensazione non le dava pace.

Eppure sapeva che non avrebbe potuto resistere ancora. Aveva già lottato abbastanza con se stessa e ormai aveva deciso di arrendersi. Perché ostinarsi in una guerra che non poteva vincere?

Rinunciando a trovare un colloquio anche solo unilaterale con la propria coscienza, si strinse il mantello al collo ed entrò nella Casina.

Giovanni era in piedi, in mezzo alla stanza, illuminato da una manciata di candele e dal camino in cui era ripreso a bruciare il legno. Aveva tolto il mantello e slacciato i nodi del giubbone, lasciando intravedere il camicione bianco e pesante che portava appena sotto.

Lui e Caterina si osservarono l'un l'altra a lungo, arrossendo entrambi, senza, però, sentire il bisogno di distogliere lo sguardo.

Stanco di aspettare e impaziente di sapere quale sarebbe stato il suo destino quella notte, il Popolano riempì la distanza tra loro in pochi passi e chinò appena il capo per baciarla e togliere la fibbia che le chiudeva il mantello.

Quando la pesante cappa imbottita cadde in terra, la Tigre lo allontanò un pochino, appoggiandogli una mano sul petto: “Io ho cercato di dirvelo e farvelo capire in tutti i modi che con me non avete nulla da guadagnare.” la sua voce correva, atterrita dal pensiero che quell'ultima arringa – per quanto secondo lei necessaria – potesse infine indurre il fiorentino a ragionare e desistere: “Io sono solo un'assassina, sono... So essere crudele, anche con chi amo. Non ho ancora dimenticato mio marito e probabilmente non lo farò mai. L'ho amato troppo, per poterlo fare. Per lui e per vendicarlo ho fatto cose orribili e, se tornassi indietro, è probabile che le rifarei. Voi meritate di meglio.”

“Io voglio voi.” ribatté Giovanni, fermo.

“Malgrado tutto, mi volete lo stesso?” chiese Caterina, incerta, come un venditore che non si capacita di aver appena venduto il suo bancale più scadente.

“Sì, malgrado tutto, vi voglio lo stesso.” affermò il Popolano, tenendo il mento alto e le spalle larghe.

A quel punto, la Tigre decise di non lasciarsi frenare più. Se quello strano fiorentino la voleva così com'era, ebbene, così com'era l'avrebbe avuta.

Lentamente, con solo lo sfrigolio delle fiamme e il soffio del vento a fare da accompagnamento, Caterina iniziò a sfilare il giubbone rosso dalle spalle di Giovanni.

L'uomo la lasciava fare e anche quando la Leonessa iniziò a togliergli il camicione, non fece nulla per impedirglielo. Quando gli sciolse i lacci delle brache di fustagno, il Popolano non si oppose, dandosi da fare solo per aiutarla, cavandosi da sé gli stivali.

Non appena il fiorentino fu del tutto nudo, la Tigre restò qualche secondo immobile a fissarlo.

Il volto di Giovanni era bianco e vermiglio, i riccioli castani un po' spettinati e i suoi occhi, di un verde quasi trasparente, più vivi che mai. Il disegno sottile delle sue coste, visibili sotto la pelle chiara, lasciava intendere quanto il suo respiro fosse spezzato. Le braccia erano abbandonate lungo i fianchi stretti e di quando in quando le mani si stringevano a pugno, come sintomo di tensione. Il suo fisico era asciutto e solo un leggero gonfiore attorno alle caviglie e a un ginocchio suggeriva la presenza nel suo sangue della gotta.

Siccome la donna sembrava in attesa di qualcosa, l'ambasciatore provò a toglierle le vesti e non venne respinto. Incoraggiato da quel tacito permesso, Giovanni andò avanti, con delicatezza, fino a che Caterina non rimase in sottoveste.

Mentre allungava le mani affusolate sulle sue cosce, il fiorentino avvertì, appena più giù, la presenza fredda e tagliente del pugnale. Sollevò gli occhi verso la donna e lei annuì.

Inginocchiandosi davanti a lei, Giovanni le tolse con fare sicuro l'arma da sotto il vestito e poi, con un gesto leggero e delicato le sollevò il bordo della sottoveste e le tolse anche quella.

L'aria nella Casina era immobile e il calore che giungeva dal camino acceso inondava la pelle nivea della Contessa come un'onda.

Il fiorentino la guardava senza riuscire quasi a respirare, apprezzandone ogni dettaglio, trovandola ancora più bella di quanto non avesse sperato, molto più vera e attraente di quanto non fosse la sua immagine ritratta da Botticelli nel quadro che il Popolano aveva passato ore a rimirare, prima di trovarsi davanti alla vera Caterina.

Sfiorandosi appena, la Tigre e l'ambasciatore si diedero qualche rapido bacio e poi Caterina non riuscì più a resistere. Tirò a sé il fiorentino, con impeto, facendolo aderire al suo corpo e aggrappandosi con entrambe le mani alla sua schiena dritta e liscia.

Giovanni ebbe un piccolo sussulto, seguito da un momento di esitazione, benché nemmeno lui sopportasse più l'attesa.

Anche se la donna che aveva davanti era tutto ciò che voleva dalla vita, aveva paura di essere frainteso.

Caterina aveva avuto moltissimi uomini negli ultimi mesi e il Popolano ne aveva anche incontrato qualcuno intento a uscire goffamente dalle sue stanze prima che arrivasse la luce del giorno.

La Tigre li sceglieva, li usava e il mattino dopo – o spesso anche la notte stessa – li buttava e non li voleva più nemmeno vedere.

Il Medici non voleva subire la medesima sorte. Aveva desiderato Caterina troppo a lungo e con troppa ferocia per potersene privare dopo un solo assaggio.

La Contessa lo stava guardando interrogativa, preoccupata da quell'improvvisa ritrosia, così Giovanni si sforzò di trovare la voce e disse, sperando di suonare abbastanza sicuro di sé: “Io non sono l'avventura di una notte.”

La donna lo baciò a lungo e poi lo abbracciò, sentendo il suo desiderio pulsare con forza: “Non la sono nemmeno io.”

Convinto da quella dichiarazione, il Popolano lasciò che la Tigre lo gettasse sul grezzo pagliericcio che stava alle sue spalle e poi si lasciò prendere, ricambiando la voracità e l'irruenza della sua donna con la gentilezza e la dolcezza, amandola in un modo in cui non era mai stato capace di amare nessun'altra.

 
   
 
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