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Autore: Avareil    20/09/2017    5 recensioni
Mito ancestrale, fondativo, quello di Ade e Persefone narra del legame tra Superficie e Oltretomba, avvinte in una danza ciclica e imperitura.
Un'unione ostacolata, un sentimento messo a tacere, il destino dell'uomo minacciato dall'egoismo.
I miti raccontano l'immortalità degli dei, tralasciando il loro essere vivi e pervasi da sentimenti umani, troppo umani.
Celebriamo la vittoria della fiamma sulla brace.
Cantiamo la storia di una vita promessa alla morte.
*In revisione*
Genere: Avventura, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ade, Estia, Persefone
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Un dono, un danno
 
“Siete un pessimo ospite, signore dell’Averno, vorrei che lo aveste ben chiaro nel vostro animo”. Persefone, imbronciata e con le vesti bagnate di bava, aveva palesato il suo sconforto e il suo ribrezzo al dio che, a distanza di sicurezza, a stento riusciva a nascondere un sorriso divertito.
“Mia signora, a volte per conoscere veramente le cose bisogna sporcarsi le mani”. Ade, impeccabile nel suo portamento, le aveva lanciato uno sguardo furbo.
Piccata, la dea aveva proseguito oltre a passo veloce dandogli volontariamente le spalle.
“Persefone, non siate offesa, vi prometto che mi farò perdonare”, quello era il tono di chi, sentendosi leggermente in colpa, pregava la propria vittima per avere una seconda possibilità.
“Si, certo, la prossima volta sarà un dolce micio con denti d’arpia e ali di falco”, Persefone si era voltata verso quello con le braccia incrociate sul petto,
“Non ci si può proprio fidare di voi”. Aveva distolto lo sguardo dal cipiglio divertito del dio ma era rimasta lì, ferma qualche metro più avanti: lo aspettava.
Troppo velocemente aveva camminato, troppa distanza aveva messo tra loro quando invece sentiva come il bisogno di averlo vicino, di godere di quella presenza il più a lungo possibile.
Ade, notando quell’atteggiamento, aveva leggermente sgranato gli occhi; quella dea, nel suo fare fanciullesco e spontaneo, sapeva mostrare il proprio affetto in una maniera così fresca da togliergli le parole.
Giunto al fianco della sua ospite l’aveva guardata da capo a piedi beandosi dei suoi ricci scarmigliati e dei suoi occhi vispi e, infine, sorridendo, le aveva offerto il gomito, incurante della bava che le imbrattava le vesti scure.
 
“No, vi prego”, Persefone aveva allungato le mani per evitare che quel contatto potesse macchiare anche il dio ma quello, incurante di ogni cosa fuorché della sua signora, l’aveva avvicinata e fatta poggiare su di sè.
“Mia signora, come vi dicevo pocanzi “a volte per conoscere veramente le cose bisogna sporcarsi le mani””.
 
Aveva riaccompagnato Persefone presso le sue stanze sebbene il suo animo bramasse l’opposto; non poteva intrattenersi ancora con lei quando il suo orecchio riusciva distintamente a percepire in lontananza l’eco dei lamenti dei suoi sudditi.
 L’Averno è un regno fin troppo complesso perché il proprio sovrano ne possa prendere alla leggera gli incarichi e i doveri.
Troppe anime avevano varcato le soglie infernali perché nessuno se ne occupasse con la dovuta attenzione; certo, Radamanto era un ottimo secondo, un giudice giusto ed esperto conoscitore dell’animo umano ma alcune questioni richiedevano tassativamente la sua presenza.
Lui era il re, il dio di quei luoghi e a quei luoghi e a quei doveri era vincolato.
Eppure la risata di Persefone e il suo fare giocoso l’avevano completamente distratto.
Prima di lasciarla si erano guardati per un lungo momento, lei, piccolina e ancora avvolta nel suo mantello, aveva cercato di nascondere il nervosismo e l’imbarazzo; lui, invece, nuovamente serio e composto, aveva leggermente chinato il capo in segno di saluto reverenziale.  
“Farò in modo che non vi manchi nulla in mia assenza. Alcune ninfe avernali sono state chiamate per voi, per aiutarvi in qualsiasi routine personale o anche semplicemente per tenervi compagnia ma-“. Il dio le aveva rivolto uno sguardo di scuse accompagnato però da un tono fermo,
“Ma mi perdonerete se non posso darvi il permesso di aggirarvi liberamente per questi luoghi. Alcuni di essi sono fin troppo pericolosi perché una dea come voi possa avventurarsi da sola”.
Quelle parole avevano scaldato il cuore della dea che, oramai sciolto, era affiorato fino agli occhi, ora due pozze di miele liquido e caldo.
Uno strano piacere l’aveva avvolta sentendo la preoccupazione e la premura nella voce di quel dio impenetrabile a molti. Gli aveva sorriso dolcemente, le lunghe ciglia nere le ombreggiavano il volto rendendo il suo fare seducente e al contempo sincero.
 
“Non vi preoccupate, non ho desiderio di vagare per l’Averno sola e priva della mia guida”, aveva parlato di getto lasciando trapelare quel calore che ora le serrava le viscere.
La mia guida…
…La sua guida.
Come poteva il sovrano dell’Averno, il rigido e imperscrutabile Ade, resistere a un sentimento così delicato che veniva lasciato sfuggire quasi inconsapevolmente da quelle labbra rosee e morbide?
Non poteva, semplicemente non poteva.
Gli occhi del dio, solitamente vitrei e senz’anima, ora erano simili ad un cielo nebuloso che si prepara alla tempesta.
L’aveva scrutata a lungo e in silenzio: il suo sguardo chiedeva il “Permesso” e lei, la giovane dea, l’aveva ben capito. Non una parola, non una frase accattivante, no, lei non era quello, semplicemente aveva socchiuso gli occhi inclinando il viso verso di lui, offrendo in questo modo le labbra a lui che l’osservava con brama.
Remissiva, le gote leggermente colorate di rosso, i ricci scomposti che le adornavano il viso: si concedeva a lui e, a lui soltanto, di sua spontanea volontà in un modo così dolce e semplice che lo aveva quasi tormentato.
Non vi era stata malizia in quel movimento, non si scorgeva lussuria in quelle ciglia nere che, socchiuse, gettavano ombra sul viso ovale rendendolo ancora più virginale e puro.
Era riuscito a frenarsi, a limitarsi solo per pochi secondi ma poi, dinnanzi alla porta delle stanze della sua ospite, si era calato su di lei; i capelli sciolti e neri adesso ricadevano come una cascata intorno alla dea inebriandola del suo profumo d’anice e cuoio.
Ella aveva subito la più terribile delle torture: imbarazzata e impaziente lo aveva atteso e solo quando, finalmente, aveva percepito quelle labbra sottili poggiarsi con delicatezza sopra le sue aveva come sospirato per il sollievo e la pace ritrovata.
il ricordo della violenza con la quale l’aveva presa la prima volta era completamente evaporata per lasciare il posto a un bruciore agrodolce che le correva lungo le terminazioni nervose per andare in fine a scioglierla all’altezza del basso ventre; le mani del dio sulle sue braccia l’accarezzavano lentamente mentre la bocca tormentava ogni centimetro delle sue labbra rosse e umide.
Soggiogata dal quel dio e da quel bacio lento che sapeva di richiesta tacita, lei aveva risposto con un sospiro arrendevole: il suo sì al signore dell’eterna notte e, con quel sì, quello che era iniziato come un bacio casto, ben presto aveva lasciato il posto a desiderio insaziabile, irrefrenabile per il signore dell’Erebo.
 Ade non sapeva come resistere a quella bocca morbida e a quel corpo premuto contro il suo e, al limite dell’autocontrollo, l’aveva imprigionata contro la porta; la lingua si era insinuata in quella calda apertura sondandone ogni centimetro per trovarne la compagna.
Un tormento lancinante bruciava il cuore della dea: lei avrebbe dovuto odiarlo, avrebbe dovuto disprezzarlo e temerlo e invece, era lì, tra quelle braccia possenti, a insinuare le mani tra i capelli del dio, lunghi e scarmigliati, per averlo più vicino, per averne di più di quel calore che solo il suo corpo freddo sapeva darle.
Morbido, pungente per la sottile barba che gli ornava il volto, Persefone aveva serrato gli occhi per poter percepire quel bacio con tutti gli altri sensi del suo corpo divinamente tormentato.
Quel dio, così freddo e impenetrabile, celava invece un animo travolto dalla passione; quel cuore malato batteva forsennato e trovava eco nel suo.
 
Ma il signore dell’Averno sapeva chiaramente che quel serpente sanguinario e violento, che era solito stritolargli lo stomaco, a poco a poco avrebbe travolto e soffocato ogni muscolo, ogni arto, ogni pensiero lucido, riducendo il dio dei morti a un ammasso di pulsioni e sentimenti. In tensione, nel vano tentativo di rimanere presente a sé stesso, aveva dunque posto le mani sui fianchi della giovane dea: egli ne artigliava le vesti sottili nel vano tentativo di star fermo, di porsi dei limiti da non dover in alcun modo oltrepassare. Persefone aveva sussultato sentendo quella dolce invasione e con un sospiro di piacere ora assaporava le mani vaganti del dio lambirle i fianchi.
 
Poteva un bacio sconvolgerla fino a questo punto?

Era come ricevere il calore di mille soli sulla pelle, era come essere abbracciati dalla natura e dal suolo, un po' come nascere e un po' come morire, quelle braccia che la tenevano stretta la facevano sentire importante, paurosamente a casa.
“Ade…”. Aveva sospirato a contatto con le labbra del dio.
“Persefone”, un altro bacio su quelle labbra leggermente schiuse, un’altra invasione lenta e volta ad assaporare ogni angolo di quell’essere che aveva tra le braccia.
Sentiva le mani del dio vagare lungo i suoi fianchi, spingersi poi verso la schiena e scendere nuovamente in una carezza lenta e allo stesso tempo possessiva, lì, contro la porta della sua camera, bloccata dal corpo di Ade, riceveva da quello calore e protezione da ogni sguardo imprudente che avesse avuto l’ardire di spiarli.

Una donna, eccoti Persefone, sei donna che brama, che desidera.

Mia signora.” Questa volta era stato il signore dell’Averno a interrompere quel contatto così intimo. Aveva parlato tenendo il viso nascosto nell’incavo del suo collo profumato.
Mia signora”, aveva ripetuto dopo un momento di smarrimento mentale.
“Devo andare ora”, aveva bisbigliato Ade pericolosamente vicino alla linea del suo collo bianco ed esposto.
Una mano si era sollevata verso il volto nascosto del dio che, ricevendo quella carezza inaspettata, aveva sollevato lo sguardo verso la giovane dea ansante tra le sue braccia. Rossa in volto ora lo guardava con fare dolce ma sperduto.

Un’amante che brama la presenza del proprio compagno.

Lo aveva osservato in silenzio per poi afferrare delicatamente la sua tunica scura e semplice all’altezza del petto.
“Tornate presto”, aveva mormorato guardandolo dritto negli occhi.
“Per favore”, aveva poi aggiunto a bassa voce in un bisbiglio.
Quel serpente che prima avvolgeva in spire diaboliche il ventre del dio ora invece si era spostato più giù, e avvolto nelle spire squamate la sua virilità sopita da tempo, ecco che ora la stimolava al limite della sopportazione.
 La voleva, la voleva solo per sé.
Ade le aveva sorriso, un sorriso che coinvolgeva lo sguardo profondo e illuminato dalla luce della brama.
“Sarò da voi non appena mi sarà possibile, mia dea”, aveva mormorato a sua volta con tono basso e roco, svelando quel desiderio che gli sconvolgeva il cuore.
“Riposate durante la mia assenza, al mio ritorno vi mostrerò altri luoghi”, aveva sorriso carezzandole con l’indice il mento e sollevandolo verso la sua bocca.
“Niente bestie paurose questa volta, promesso”.  Aveva suggellato la promessa con un bacio casto sulle labbra della dea che adesso gli sorrideva mostrando i denti bianchi e due fossette sulle guance che ne addolcivano ancora di più l’aspetto.
Contro sé stesso e la propria volontà, l’aveva lasciata liberandola dalla trappola che la vedeva bloccata tra il suo corpo e la porta della stanza; ancora chino su di lei le aveva lasciato un bacio sulla fronte: scusa balorda per poter nuovamente odorare quel magnifico profumo di campi e fiori profumati.

Persefone aveva nuovamente chiuso gli occhi.

Che fosse il suo cuore a godere questa volta di quella carezza.
 
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Sebbene il suo corpo fremesse ancora alla ricerca di quella pelle calda e profumata, la sua mente, lucida, più o meno, era già proiettata nella sala del tempio al cospetto di quelle anime dannate che aspettavano impazienti e spaventate dinnanzi al suo scranno vuoto.
Prima però avrebbe dovuto cambiarsi, lavarsi – aveva sorriso sentendo addosso l’odore di Cerbero- e indossare l’armatura regale; infine avrebbe preso anche la kuneé, simbolo del suo legittimo potere in quel regno.
Assorto in quei pensieri ordinati e metodici aveva varcato la soglia delle sue stanze collocate a qualche corridoio di distanza da quelle della sua cara ospite.

Un calore gli aveva avvolto il petto al ricordo di quelle labbra schiuse e umide, di quel corpo piccolo e caldo stretto contro il suo, così freddo eppure che riscopriva vivo.
La desiderava, la desiderava come mai aveva desiderato qualcuno in vita sua; a dispetto di Zeus o Poseidone egli non aveva mai rincorso donne o demoni, né aveva mai costretto alcuna di loro a giacere con lui. Solo una era stata la sua compagnia, il suo sfogo e, in nessuno dei loro rapporti egli aveva mai avuto o voluto stabilire un qualcosa che andasse oltre il semplice contatto fisico.
Menta, la succube avernale che gli teneva compagnia nelle notti solitarie, aveva sempre rispettato questo distacco, d’altra parte ella, nel suo cuore infetto di demone, non aveva bramato altro che il sapersi la migliore fra tutte, la preferita del dio, al quale egli aveva promesso fedeltà. Ade non l’amava, non l’aveva mai nascosto, eppure gli bastava lei, non cercava altrove.
Non era il cuore che doveva soddisfare quando la cercava tra le coperte del suo letto.
Chino sul lavabo si puliva il volto con abbondante acqua e ad ogni abluzione sentiva il corpo raffreddarsi per ritornare al solito contegno di sempre.
Altri sentimenti esigevano soddisfazione, e la vendetta che tanto lo aveva spinto, adesso sembrava una sciocca scusa ripetuta come un mantra per celare a sé stesso la verità dei fatti: il suo cuore esigeva affetto, un affetto che nemmeno da bambino aveva mai potuto sperimentare.
Per questo, da quando aveva udito per la prima volta il vagito della piccola Kore, non aveva più osato sfiorare alcun essere femminile.
Per questo motivo da quando l’aveva vista in pericolo tra le braccia di quel fauno lascivo aveva reagito con ira e furia.

Persefone era già sua, il fato lo aveva sancito, e solo lui avrebbe potuto godere di quella pelle morbida, di quelle labbra schiuse e turgide.

Tiratosi su con il viso umido e con ciocche di capelli libere e sgocciolanti, era rimasto per qualche minuto ad occhi chiusi; le mani avevano artigliato il bordo del mobile con forza.
Aveva bisogno di recuperare la calma e il contegno.
Anche solo il ricordo di quel corpo caldo premuto contro il suo aveva innescato un circolo vizioso il cui esito era ben visibile all’altezza del suo basso ventre.
Avrebbe voluto essere calmo e focalizzato sul so compito ma la mente, ancora in balia di primordiali istinti, gli ricordava che Persefone era lì, nel suo regno.

A pochi passi da lui.

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Ricorda bene le parole di tua sorella, Estia! Non distrarti, non pensare ad altro, non lasciarti travolgere da nulla: hai una missione, portala a termine.
Dopo aver lasciato Era nei pressi del suo sacro tempio akragantino, Estia aveva ripreso il proprio cammino. Doveva raggiungere il fratello Ade negli inferi, doveva a tutti costi incontrare la giovane Persefone e recarle il dono della regina dei cieli; ma, questa volta, nessun richiamo l’avrebbe agilmente condotta al cospetto dell’altare avernale.
Doveva procedere con attenzione: raggiungere l’Averno non era una questione semplice per una divinità come lei, non psicopompa come Hermes o la divina Ecate.
Estia, dai! Non perdere tempo vagando col pensiero e con la vista!
La sua vocina interiore, quasi dittatoriale, le aveva imposto di correre alla ricerca del varco oscuro che le avrebbe permesso, non senza difficoltà, di penetrare la corte inviolabile del suo caro fratello.
Lo fai per Demetra, per poterle recare la notizia di un’unione felice. Almeno questo.
Estia, ancora baciata dal caldo sole dell’isola triskelion, aveva inspirato ed espirato profondamente: sapeva dove si trovasse l’ingresso nero, sapeva anche come raggiungerlo ma le sue conoscenze si fermavano lì; saper riconoscere la camera sacra del dio a poco serviva se non sapeva come arrivarci.
Quello che stava concretamente oltre quel varco non aveva mai avuto modo di vederlo coi propri occhi.
Per tale motivo, una volta raggiunta la spelonca, aveva dovuto farsi molto coraggio; non molti riuscivano a tornare da quel viaggio.
 
Dapprima un odore pungente, molto diverso dall’essenza di miele tipica del sacro tempio avernale, le aveva riempito le narici.
La puzza di zolfo, polvere e cenere era poi accompagnata da una quasi totale oscurità che la lasciava brancolante nel buio; più volte aveva rischiato di cadere rovinosamente al suolo per colpa della lunga veste che le ostacolava il cammino. Lungo la discesa accidentata non era difficile, infatti, imbattersi in pietre taglienti e rami spezzati e pieni di spine e, per questo motivo, aveva lasciato scoperte le gambe annodando alla bene e meglio i lembi della lunga veste alla vita: del resto non era invitata a un concilio né ad una celebrazione sacra; nessun’anima viva avrebbe osato criticarla.
Anche perché, lì, nell’Averno, di anime vive se ne contavano veramente poche.
Dopo alcuni momenti in cui l’angoscia e la paura, acuite dall’oscurità e dalla difficile situazione, avevano quasi portato all’abbandono dell’impresa, finalmente Estia aveva raggiunto una sorta di grande landa desolata completamente avvolta nella foschia; ben poco riusciva a scorgere oltre questa. Gli occhi, infatti, appesantiti dall’aria malsana e dalla nebbia, scorgevano un’immensa muraglia dalle fattezze impenetrabili stagliarsi contro un cielo nero illuminato da sporadiche e tenue fiammelle verdognole. Tutto il resto era precluso ai suoi formidabili occhi di dea.

Melograno, dono, Demetra, Persefone.

Cercando di tener bene a mente il punto della sua missiva in quel tetro luogo, aveva ripreso la marcia accompagnata dal rumore dei suoi passi cadenzati dallo scrosciare delle pesanti cavigliere dorate. Era stanca ma il frutto preziosamente celato sotto la veste doveva essere consegnato alla sua padrona.
Solo dopo secoli di marcia, almeno così le erano sembrati i momenti di brancolamento, era riuscita a scorgere qualcosa.
Udiva suono di acque chete e un leggero lamento di sottofondo, un lamento così basso da sembrare quasi il bisbiglio di un’antica litania; un brivido le aveva fatto venire la pelle d’oca quando era riuscita finalmente a vedere la fonte del rumore.
Poco più sotto rispetto alla sua posizione, celato alla vista da un dislivello di qualche metro, stava infatti un terribile nocchiero dall’aspetto vecchio e macilento; solo gli occhi rosso sangue riuscivano a distinguersi in quell’essere completamente bianco e quasi avvizzito.
Egli parlava con tono perentorio a una schiera di anime trapassante: ecco i lamentosi.
“Salite! Forza! Tenete in mano le monete, poveri disgraziati! Bene in vista e non fate scherzi! Anche se vecchio rimango sempre agile col bastone”.
Il traghettatore teneva con forza tra le mani rugose un lungo bastone che usava sia come arma che come strumento per favorire una più agevole navigazione. Il suo tono, sebbene non proprio materno, celava una certa pietà per quelle anime perse e spaurite: ogni tipo di essere era al suo cospetto, che fossero bambini, donne, uomini o anziani, erano tutti lì, vestiti di pochi stracci e con l’animo angosciato.

Caronte, il traghettatore avernale.

Eppure non sembra così spregevole. 

Estia, sempre più affaticata e desiderosa di raggiungere il fratello, aveva mosso dei passi veloci e, col fiatone, era riuscita a scalare il pendio raggiungendo alle spalle il traghettatore ancora intento a dare indicazioni agli astanti.
“Caronte? Siete voi, Caronte?”. La dea aveva cercato di richiamare l’attenzione del vecchio ma quello, forse perché sordo, forse perché fintosi tale, l’aveva degnata di uno sguardo solo dopo aver dato le dovute attenzioni alle anime dei trapassati.

Vecchiaccio.

Ignorata, Estia aveva incrociato le braccia al petto, attendendo pazientemente di ricevere le attenzioni di Caronte.
“Dea di superficie, noto”. Il tono burbero di Caronte l’aveva trapassata prima ancora del suo sguardo di fuoco.
“Dea di superficie ignorante delle nostre abitudini, affermo”. Caronte aveva fatto un passo verso la dea che, nel suo infinito imbarazzo, aveva calato il capo con fare reverenziale.
“Avete ragione, traghettatore, non conosco il vostro regno e le vostre abitudini. Vi chiedo scusa”. Umile, la dea aveva parlato con rispetto per però accorgersi troppo tardi che l’amabile vecchio era già sulla barca e la guardava torvo.

“E allora? Sbrigatevi! La morte non aspetta nessuno!”.
Zitta e nuovamente a capo chino Estia aveva preso posto accanto alle anime.
La traghettata non era stata la migliore della sua esistenza, per la verità non aveva mai usufruito di mezzi di locomozione così terrestri tanto che, una volta messi i piedi nuovamente per terra, aveva ringraziato il cosmo e la madre Gea.
Una nausea, un dolore fastidioso però le stritolava la bocca dello stomaco.

L’aria dell’Averno non è la più salubre per noi esseri di luce.

Tossendo e con una mano dinnanzi al volto aveva proceduto quanto più velocemente il suo fisico le permettesse: sentiva caldo e la lunga veste, anche se ancora annodata in vita, era fin troppo pesante.

Forza Estia, ci sei quasi.

Lo vedeva finalmente, il grande tempio nero si intravedeva da dietro l’arco della cinta muraria.
In uno slancio di gioia e felicità aveva iniziato a correre a perdifiato ma, il lugubre ringhio di una gigantesca figura canina a tre teste, l’aveva immobilizzata a pochi passi dal grande portone.
Lì, anche il suo corpo di dea aveva ceduto.
 
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L’avevano richiamato dal presidio della sala dell’altare con urgenza. Il messo aveva riferito con agitazione di una presenza non annunciata bloccata da Cerbero all’ingresso delle mura; il fedele mastino di Ade, dopo l’ultima visita di Hermes, aveva ricevuto l’ordine di non permettere ad alcun dio di entrare senza il permesso del signore di quei luoghi.
Radamanto, imprecando a denti stretti, aveva immediatamente lasciato la sala e, con passo spedito, si era diretto alle mura presidiate dal cane avernale; Ade, ancora impegnato, non aveva fatto ritorno, dunque era di sua competenza sbrigare quella spinosa faccenda.

Dea svenuta, non sappiamo chi sia. Venite velocemente.

Il messo era stato poco chiaro ma del resto come avrebbe potuto biasimare la sua ignoranza se le stesse schiere divine, avendo in odio l’Averno, non vi avevano mai messo piede?
Radamanto odiava con tutto sé stesso avere a che fare con quei esseri superficiali, tutti fatti di ambrosia e lussuria.
Non li tollerava, la sua mente, così rigida e ligia al dovere, non concepiva delle esistenze così inutili all’uomo così come alle altre divinità serie e giuste come il suo signore Ade.
 
L’Olimpo e l’Averno erano due realtà fin troppo diverse per pretendere anche solo lontanamente di fare un paragone.

I capelli lunghi e completamente grigi erano tirati in una mezza coda che lasciava scoperto il viso; una smorfia di fastidio aveva fatto piegare gli angoli della bocca verso il basso.

Chi diamine era quella dea che, impunemente e senza il minimo invito, osava anche solo provare ad oltrepassare la cinta vigilata dal demone?

Aveva quasi raggiunto il gran portone quando due esseri evanescenti e lugubri dalle fattezze mostruose gli si erano fatti incontro.
“Radamanto, nostro signore, scusi per il disturbo”, il primo aveva parlato con voce quasi affannata e preoccupata.
“Cerbero ha segnalato immediatamente la presenza dell’estranea e noi non sapevamo come comportarci e-”, Radamanto aveva bloccato con un cenno della mano anche il parlottio indistinto della seconda sentinella e, nel farlo, non aveva mancato di scrutarli entrambi molto severamente.
“Abbastanza”, aveva zittito i due.
“Lei dov’è?”.
“L’abbiamo distesa qui, di fianco l’ingresso, ancor fuori le mura, signore”, a capo chino gli inservienti avevano indicato la direzione con il braccio.
“Potete andare, tornate ai vostri posti”. Perentorio aveva mosso dei passi nella direzione indicata.
“Bravi”. Aveva detto loro senza mai girarsi.
 
Aveva seguito la direzione indicata dalle guardie ma prima, subito dopo aver superato l’ingresso, aveva tranquillizzato il mastino a tre teste anch’egli agitato per colpa di quella intrusione; poi, con sguardo circospetto, aveva scrutato i fianchi del portone alla ricerca della fantomatica dea svenuta e, l’aveva vista.
Giaceva al suolo scomposta, le gambe erano scoperte mentre il viso, sporco e pallido, era incorniciato da una massa setosa e ramata.
Per qualche secondo il giudice era rimasto come immobile ad osservare quel corpo sgraziatamente abbandonato a sé stesso e alla fatica ma, anche così, l’aveva riconosciuta. Era lei, la dea dall’abito smeraldino che aveva visto danzare tra le fiamme delle torce del tempio del dio, suo signore. Era lei, Estia, che con la sua chioma rosso fuoco aveva travolto i suoi sensi portandolo ad allungare una mano sulla torcia per poter tastare con le sue stesse dita il piacere e la sofferenza di un fuoco caldo sulla pelle, dopo secoli di morte.
Si era inginocchiato al suo cospetto per poter meglio osservare quell’essere così solitamente focoso e ora invece freddo e smorto; non poteva lasciarla lì. Ade, il suo signore, non avrebbe potuto tollerare che la sorella rimanesse riversa al suolo abbandonata al freddo dell’Averno: lei era un’ospite e come tale avrebbe dovuto ricevere ogni riguardo.
Aveva allungato le mani verso quel corpo e, con quanta più delicatezza il suo corpo fosse in grado di ricordare dalle sue misere e umane esperienze, l’aveva presa tra le braccia facendo in modo che il suo pesante mantello ne coprisse gli arti nudi e graffiati.

“Estia, signora del focolare…”. Aveva parlato con tono basso proprio per evitare che quella, magari svegliandosi di soprassalto, potesse spaventarsi per colpa della sua presenza.

“Estia…”, quel nome gli bruciava la lingua.

Aveva mai chiamato per nome una dea o anche solo una donna? Non lo ricordava più.

Un mugolio da basso aveva richiamato la sua attenzione sul corpo di donna tra le sue braccia.

“Il melograno”, aveva bisbigliato in uno stato a metà strada tra l’incoscienza e il sonno.
“Come dite, dea?”, aveva assottigliato gli occhi sforzandosi quantomeno di leggere il labiale di quella parola che dalla divina veniva pronunziata con la forza di un leggero soffio.
“Il melograno, prendete il melograno, vi prego”. Questa volta l’aveva vista agitarsi e, nel tentativo di farla stare calma, l’aveva stretta ancora di più contro il suo petto.
“Vi ho udita, cercate un melograno, un melograno…”, aiutato dalla sua aurea ctonia, il giudice era riuscito a scorgere il frutto a qualche metro di distanza da dove la dea era stata accomodata.
“L’ho trovato. Ora state ferma”. Radamanto, perentorio, l’aveva rassicurata in tempo per vederla nuovamente svenire tra le sue braccia.
Recuperato il prezioso frutto si era avviato alla reggia del suo signore.

La dea giaceva svenuta e accucciata contro il suo petto;

al di là di quello non si udiva alcun battito.
 
L’aveva poggiata con ogni reverenza su un morbido triclinio nella cella antistante l’altare del dio avernale; il viso pallido non accennava a prendere colore mentre una mano longilinea artigliava come un rapace la veste sgualcita all’altezza della bocca dello stomaco.
Radamando non sapeva che fare.
Solo un imperativo gli dominava l’anima: doveva evitare che quella dea soffrisse senza colpa alcuna, perché lui l’aveva scrutata attentamente e quel viso da bambina cresciuta non poteva in alcun modo celare nefandezze o lussurie come gli altri esseri di superficie.

Ho bisogno del mio signore.

Fortunatamente il messaggio della dea sperduta era giunto celermente all’orecchio del sovrano che, affrettatosi nei suoi doveri, aveva velocemente raggiunto i suoi luoghi sacri.
“Radamanto!”. La voce grave del dio aveva riempito l’aria dell’ampia cella, una nota di preoccupazione gli incupiva il tono, solitamente già molto basso e cavernoso.
“Mio signore, ho portato vostra sorella qui, al sicuro presso il vostro tempio ma… Ma non accenna a stare meglio. Non apre gli occhi da quando l’ho trovata riversa al suolo”. Radamanto, nel suo solito tono glaciale aveva riferito l’accaduto al sovrano nei minimi dettagli.
Quello, udito il racconto, si era poi chinato leggermente sulla sorella per poterne studiare l’aspetto.
“Portatemi dell’ambrosia, giudice. Velocemente”. Non l’ordine ma il tono in cui esso era stato formulato avevano invitato Radamanto alla fretta.
Aveva rovistato presso l’altare e lì, in un’anfora sacra ne aveva trovata a sufficienza.
“Mio signore”, passatagli la brocca aveva osservato in silenzio il suo dio che, con molta delicatezza, aveva sollevato il capo della sorella per avvicinare le labbra bianche al bordo del contenitore.
“Estia devi bere”. La voce poco carezzevole del dio aveva impercettibilmente riscosso la dea.
“Estia, sciocca sorella! Bevi”. Agitato aveva fatto scorrere del liquido ambrato sulle labbra della dea che, una volta gustato, aveva cominciato a berne avidamente, ora più viva e colorita in volto. Sembrava come assistere al rifiorire di un fiore sotto il sole del mattino, più beveva più il suo volto riprendeva lucentezza e i suoi arti, così freddi e smorti, iniziavano a vibrare di luce calda.
“Estia…”, Ade, con un sorriso tirato le aveva accarezzato il capo con delicatezza.
“Fratello!”. La dea gli sorrideva mostrando i dentini bianchi, raggiante.
Proprio come se non fosse successo nulla.
“Siete una sciocca!” Ade, vedendola in forze le aveva allungato uno scappellotto sulla nuca esposta.
“Ade!”. Aveva urlato quella dolorante.
“Che diavolo pensavate di fare, incosciente! Non siete Hermes, non siete Ecate! Come potevate sperare che un viaggio nel mio regno non vi prosciugasse la vita? Stupida, potevate rimanere senz’anima!” Ade, ora visibilmente agitato, stava in piedi al suo cospetto, di fianco a lui il silenzioso Radamanto la scrutava con occhi gelidi; il suo era un volto glabro e solcato da rughe di biasimo intorno agli occhi e alla bocca ora corrucciata.
Proprio lui aveva cercato con lo sguardo e, come quando si viene folgorati da un ricordo, ella gli aveva rivolto la parola con il cuore in gola.
“L’avete trovato, vero? Il melograno, l’avete voi!?”, tiratasi a sedere di scatto aveva sentito come la stanza ruotarle intorno.
“Stai ferma Estia!”, aveva abbaiato esasperato il fratello e, dopo aver lanciato uno sguardo al suo fedele giudice, aveva alzato un indice verso di lui.
“Di che parla la somma Estia, Radamanto?”.
“Un melograno mio signore, mi ha chiesto di cercarlo al di là della cinta dove è stata trovata priva di forze”. Con il capo aveva fatto cenno al sovrano di guardare alle sue spalle.
Un melograno maturo era poggiato su un vassoio prezioso presso il suo sacro altare.
Dubbioso Ade vi si era avvicinato e dopo aver stretto il frutto tra le dita aveva guardato la sorella.
“Che mistero celate?”.
“Devo raccontarvi alcune cose caro fratello”.


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Aveva ascoltato in silenzio il dettagliato racconto della divina sorella; un moto d’ira lo aveva pervaso nell’udire il trattamento riservato alla sua dolce Persefone da parte della regina dei cieli olimpici. Il fatto che fosse una regina non aveva fatto di sua sorella una persona regale nell’animo.
Aveva rifiutato appoggio e protezione alla sua ospite, aveva umiliato Persefone, aveva respinto le sue preghiere e, tutto questo, solo per rancore e vendetta verso il compagno e la sorella.
 
Tu non sei stato migliore di lei Ade, ricordalo.

No, la voce della sua coscienza sbagliava, era completamente diversa la situazione.
Lui aveva sognato quella dea, l’aveva vista soffrire tra le braccia lascive di un fauno bastardo, l’aveva osservata riversa al suolo cercare inconsciamente l’abbraccio della madre terra a mo’ di riparo; aveva ballato con lei e lei non l’aveva rifiutato.
Non l’aveva mai rifiutato se non dopo aver udito parole non vere sul suo conto.
Lui non era un violento, non era un dio fuori giustizia perché egli stesso la incarnava, a differenza di Era che, solo dopo aver parlato con Estia, riusciva a recuperare il senno.
Ma lui che sapeva, che aveva provato sulle sue spalle cosa significasse subire un tradimento, non poteva avere in odio quella sorella nemmeno volendo. Quella sofferente e addolorata aveva cercato di farsi giustizia da sé… Proprio come in principio meditava lui nel cuore.
“Quanto dite, sorella, mi fa ben capire quanto dolore covi nel cuore nostra sorella Era”.
Seduto sull’alto trono aveva ascoltato le parole di Estia che ora, nel pieno delle forze, non faceva che camminare avanti e indietro per la sala gesticolando.
“Estia!”. L’aveva infine ripresa.
“Se non la smettete di camminare mi farete venire il mal di testa!”, Ade aveva brontolato folgorandola con uno sguardo insofferente.
“Scusa Fratello, è che adesso vi è la parte fondamentale del racconto”. Ella aveva tirato su un bel respiro e aveva parlato solo dopo aver frenato gli agitati battiti del suo cuore.
“Era manda il melograno per la giovane Persefone, Un dono, ha sottolineato più volte, un dono per la dea e per voi fratello”.
“Per me? Un melograno? A cosa potrebbe mai servirmi un unico frutto della superficie in questo regno?”, nuovamente attento e rigido sullo scranno ascoltava le parole di Estia cercandone un qualche oscuro mistero.
“Il melograno è pianta sacra a Era nostra sorella, Ade. Ella lo dona a Persefone affinché ella, una volta interrato, lo asperga con le proprie mani: una fonte “pura” è richiesta affinché esso possa crescere nella sacralità di un’unione ben voluta. E’ un dono di nozze, fratello, ella dovrà mangiarne di sua sponte”.

Nozze.

Ade, interdetto, era rimasto per lungo tempo in silenzio.

Era, la cara sorella che era riuscita a muovere a compassione la dolce Estia, era furba, furba e malevola. Il dono che aveva offerto alla sua Persefone era molto più di una semplice benedizione.
 Un frutto coltivato nell’Averno vincola all’Averno.

Persefone sarebbe stata felice, Demetra, la sorella traditrice avrebbe perso la figlia.
In questo modo Era avrebbe avuto la sua vendetta senza nuocere ad altri se non alla sorella.
Lui poteva accettarlo?
Si, certo. Ma Persefone?
 
L’unico rumore che riempiva la sacra cella era il tintinnio delle cavigliere di Estia che, nervosamente, batteva il piedino contro il pavimento; un rumore fastidiosissimo che, sebbene da Ade fosse bellamente ignorato, logorava invece i timpani del suo secondo.
“Mia signora”, Radamanto, in piedi di fianco al suo sovrano, l’aveva guardata con fare truce, e tutto questo solo stringendo gli occhi in modo da formare una ruga di biasimo sulla fronte.
“Si, perdonatemi…?” Come risvegliata da sé stessa la divina Estia aveva rivolto lo sguardo caldo sul giudice che la stava rimproverando.
“Radamanto, mia signora”. Era un pezzo di ghiaccio.
“Perdonatemi Radamanto, non sono avvezza né alla freddezza né alla calma”, aveva sorriso quella.
“Se è per questo non lo siete nemmeno alla pacatezza e alla riflessione”, aveva mormorato quello a denti stretti.
“Come dite?”, accigliata aveva guardato il giudice con fare stupito.
“Avete rischiato la vostra essenza venendo qui senza avviso o invito”, e anche se non lo diceva ad alta voce era chiaro che Radamanto la stesse prendendo per sciocca e superficiale.
In silenzio, Estia aveva distolto lo sguardo, quasi punta da quella riflessione ma prima che suo fratello si ridestasse dalle proprie riflessioni, aveva nuovamente guardato il giudice negli occhi con un sorriso strafottente in volto.
“Allora la prossima volta sarete voi a farmi da guida”. Aveva sorriso impercettibilmente
Una scintilla aveva scosso il giudice ma prima che questi potesse abilmente mascherarla con qualche battuta acida, il suo sovrano aveva nuovamente preso la parola.
“Sta bene, Radamanto. Sarete voi la guida di Estia nei suoi prossimi viaggi verso l’Averno, ma ora, se volete scusarmi, devo pensare”. Alzatosi dal regale seggio aveva oltrepassato la sorella e il suo giudice e, giunto in prossimità dell’altare, aveva preso il frutto con una mano.
“Ringraziate nostra sorella da parte mia”. Aveva detto con un ghigno triste dipinto sul volto.
“Ditele che è perdonata ma che badi bene a non osare mai più trattare così la mia ospite”.

La mia regina.

L’aveva pensato con tanta intensità che per poco il suo cuore macilento non si era arrestato; come poteva mai Persefone accettare così su due piedi quell’unione se solo ora riusciva ad accettarlo come ospite?
Una risposta lo aveva folgorato.
“Il tempo sarà dalla vostra. Il melograno ha bisogno di tempo per attecchire con le sue radici”. Estia, di spalle, aveva soffiato quel consiglio.
Lui aveva risposto lugubre
“Nell’Averno non cresce nulla”.
“Ne sei sicuro, fratello?”.
Estia si era voltata, un sorriso sincero le rischiarava il volto.


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“Se solo voi foste stata zitta a quest’ora io sarei a svolgere il mio legittimo incarico, invece che stare qui, con voi, a cercare una soluzione per i vostri colpi di testa scriteriati”. Radamanto, in ginocchio davanti ad un mobile, rovistava alla ricerca di un qualcosa.
Estia, piccata dalle parole arroganti di quel giudice, non era riuscita nemmeno mordendosi la lingua per stare zitta.
“Badate con chi state parlando, secondo”, aveva sibilato quella, offesa.
Radamanto toccato da quel rimprovero assolutamente fuori luogo, si era irrigidito rimanendo di spalle,
“Badate, divina, che questo non è lo sfavillante cielo sotto il quale vantate protezione, questo è l’oscuro Erebo; qui siete solo un’anima. Siete Voi a dovermi rispetto, perché io sono il giudice di questi luoghi”. Un’odiosa tensione si era creata tra i due.
“Bene allora, signor Giudice, aspetto voi e la vostra lenta ricerca. Se foste stato un giudice più attento non saremmo qui a perder tempo alla ricerca di un fantomatico qualcosa di utile che non trovate!”. Estia, questa volta pungente, aveva incrociato le braccia sul seno, aspettando la risposta furente dell’avernale; una risposta che non aveva tardato a giungere.
Quello infatti, furioso, non aveva esitato a girarsi verso la dea ma, essendo in ginocchio, il suo sguardo si era poggiato all’altezza della sua vita ancora bardata con la gonna troppo lunga; sotto quella si allungavano due gambe slanciate e sode che terminavano con due cavigliere.
Radamanto era rimasto immobile per molti secondi.

Da quanto in qua un corpo di donna era capace di scuoterlo a quel modo?
Erano solo due gambe, dannazione!

Sollevati gli occhi verso quelli verdi della dea aveva scorto una scintilla vibrante, un leggero imbarazzo che ora le colorava le gote di un rosso acceso; si era ritratta pochi secondi dopo.
“Tenete”, Radamanto, ora in piedi di fronte a lei e nuovamente rinchiuso nel proprio gelo, le aveva offerto due monete nere: una raffigurava una folgore, l’altra una sorta di elmo con un cimiero svettante.
“Cosa sono?” aveva chiesto quella, felice di distogliere l’attenzione dal demone.
“Monete, monete per Caronte. Mostrate la folgore e vi ricondurrà a casa, mostrate la kuneé e verrò immediatamente convocato dall’altra parte del fiume dei morti per scortarvi fin qui”. Radamanto ora le dava le spalle.
“Bene. Allora a presto, giudice”. Aveva parlato quella con tono solenne.
“A presto, dea di superficie”.

Estia non aveva potuto non notare il leggero scherno in quella voce solitamente glaciale.




 
  
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