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Autore: Helmyra    20/09/2017    2 recensioni
“Mi piace la musica,” commentava l’estraneo, nella vita e nel dolore di Elanilde, “e mi serve uno scudiero. Canterai per me di sera, quando i soldati saranno in congedo e noi due soli, in qualsiasi luogo che abbia attorno quattro mura. Ti terrò per questi motivi, e quando non sarai più utile... ti ucciderò”.
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Spin-off di "A wine of character". Nuovi personaggi e nuove situazioni, a parte la presenza di Dorisa e Sanguine.
Elanilde si prepara al suo debutto in società, attendendo l'assenso di Voranil, gentiluomo e mecenate di Cheydinhal.
La guerra è finita, ma le conseguenze del Concordato d'Oro Bianco forniscono ai Thalmor un'occasione di vendetta.
Genere: Fantasy, Guerra, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Dovahkiin
Note: Lime, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Non-con
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Daedric Maidens'
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Le rose sulla sua pelle vibrarono, nel momento in cui Dorisa attraversò il portale, ritrovandosi nell'anticamera della fortezza. Il cuore prese a battere incessante, non s'aspettava che lo sbalzo d'energia tra i piani dell'Oblivion e il Mundus le togliesse il respiro in uno spasmo violento. Pochi attimi di permanenza nel sepolcro e già saggiava dentro di sé l'aura negativa di una forte interferenza magica. Scomodare un maestro sarebbe stato eccessivo, non aveva le conoscenze vantate dai maghi anziani del Collegio, ma di sicuro poteva identificare l'effetto nefasto di una potente, antica maledizione.

“Non perdiamo tempo.” Fu la spiccia sentenza di Sam, mentre l'ancella tastava sarcofagi ed urne per rintracciare la fonte del campo di forza. “Anzi, qualunque cosa sia, farebbe bene a starsene rintanata in un angolo e a prestarci ospitalità, finché avremo bisogno di questa cantina polverosa”.

Dorisa si avvicinò al tavolo, posto proprio al centro e sotto una vertiginosa arcata, tastò il legno ormai imputridito. Si teneva in piedi solo perché il suo occupante, una mummia di donna, non gravava su di esso. Per un istante la sua mente fu fulminata da un presagio, ma la visione venne subito bloccata da un ostacolo alla comunicazione spirituale.

“Percepisco una presenza, una presenza che mi disprezza.” Dorisa sfiorò le falangi del povero abitante, come a volergli infondere fiducia. “Forse ha capito chi sono... e qual è la tua natura, Sam.”

“Meglio se non si rivela, non sono in vena di presentazioni.” Sbottò lui, srotolando i sacchi a pelo e raccogliendo le poche provviste che aveva raccolto nel sottobosco. “Vado a cercare della legna per appiccare il fuoco. Siamo due esiliati e dobbiamo sembrarlo, se a qualcuno verrà in mente di venirci a cercare fin qui.”

“Ti riferisci al Legato Telendas, giusto?”

“Proprio così.” Il giullare emise un sospiro rassegnato, mentre spingeva il portale con l'agio che avrebbe avuto un ratto a penetrare in una feritoia. “Mi raccomando, stai all'erta. Non so porti la questione alla leggera, pare però che alla fine il drago abbia attaccato Markarth... e forse, sotto c'è dell'altro.”

Restò perplessa dalla sua mancanza di ritegno, dava per scontato che lei avrebbe accettato qualunque ordine a discapito delle proprie emozioni, del rifiuto provato da chi non capiva, chi non l'approvava. La passione e l'amore portano a decisioni affrettate – spesso rimpiante – e lo scotto di una vita avventurosa la stava bruciando, debilitando.

L'ancella strinse le dita in un pugno e rimpianse d'aver seguito Sam troppo presto, fuori da quella dimensione dell'Oblivion che amava tanto. Si stava trasformando in una parte di Sanguine e non lo accettava. Anche gli spiriti, in quel momento, mancavano di palesarsi per via del pregiudizio nutrito verso i Daedra.

“Perché non la fai finita e mi racconti tutto?” Dorisa evocò una sfera di luce, che si andò a posare proprio sulla sua giubba colorata. Il bagliore iridescente evidenziò le fattezze di Sam, avvolte da un velo di riluttanza. “È da quando siamo stati scacciati via da Markarth che cerchi di nascondermi qualcosa. Mio caro Sam, purtroppo non ho i sensi di una volta, soprattutto se la mia magia è adesso frutto del tuo potere. Ho contemplato visioni, sogni, mentre meditavo nel boschetto. E sai cosa ho capito? Sono sì una Sangue di Drago, ma non per diritto di nascita. È stato mio padre a garantirsi il favore di Akatosh, perché parte di una profezia... una profezia che mi lega a un altro uomo.”

“Questa poi!” Sanguine si prese gioco di lei. “Ti seguo dappertutto, ti sto alle calcagna come un cane, in che modo potresti mettermi le corna? Dico, corna più grandi di quelle che mi ritrovo.”

“In realtà avevi altri progetti.” Dorisa si mosse a lente falcate, lambendo le lastre di granito con le punte degli stivali. Voleva chiarire la faccenda, una volta per tutte, e non avrebbe più accettato intermezzi comici al posto della verità, la verità che le spettava. “Desideravi sottrarre un eroe ad Akatosh. Sento la sua Voce farsi nitida, è potente e sfida i cieli. Ti è negata una parte di me, Zietto. Sai quale? Quella che appartiene al Drago... se riuscissi a possederla, potresti aprirti una breccia nell'Aetherius, nevvero? Un primato niente male per un principe dei Daedra. Sei meno spiritoso di quanto vuoi far credere, e io più importante di quel che sembra.”

“Hai colpito il bersaglio, che parole mirate!” Mimò una freccia dritta in petto, un gesto abbastanza esaustivo. Aveva avuto dubbi in passato sul fatto che la stesse manipolando in maniera sottile. Gli altri detentori della Rosa erano stati membri di famiglie reali, potenti eroi e maghi, lei invece?

“Non è come pensi, all'inizio doveva essere così... poi tutto è cambiato perché sono rimasto coinvolto, ecco.”

“Ah, sul serio?” Lo mise spalle al muro. “Coinvolto. Attraverso la Rosa ho sentito l'essenza di coloro che mi hanno preceduta. L'ultimo era quasi un colpaccio, vero? Quasi, perché ti è stata restituita prima che appassisse. Ha prevalso l'avversario e non te ne sei fatto una ragione. Ci hai riprovato con me... perché era più semplice.”

“Non è come pensi!” Sam le si gettò addosso, la strinse tra le braccia. “La verità è che questa vita mi piace. Quante volte mi sono finto mortale? Non saprei dirtelo... è durato giorni, al massimo settimane. Quest'incarnazione, però, se ne avesse la possibilità... morirebbe per tenerti al sicuro.”

Dorisa tenne gli occhi di sbieco, intorpidita da una rivelazione che non riusciva a interpretare. Gelida, al pari dei draugr nelle nicchie, tenne le braccia incrociate e la bocca distesa in un pallido solco ricurvo. E lui ebbro, nell'attimo di debolezza umana che aveva osato concedersi in secoli di predominio, vittima della lussuria e degli equivoci di cui era padrone. Sam era un personaggio, una fra le creazioni più riuscite della sua folle inventiva. L'aveva plasmato apposta per irretirla, per ghermirla, col suo fare suadente e il sorriso sincero a infonderle sicurezza. E adesso la sua stessa creatura lo tradiva, permettendo all'ancella di attuare un ricatto di cui non era al corrente. L'affronto maggiore che un principe Daedrico potesse subire, quello del libero arbitrio, dell'abbandono.

Se l'avesse persa avrebbe decretato la vittoria del nemico che aveva deciso anch'esso di incarnarsi nello stesso luogo e tempo. E del terzo contendente, saggio e paziente, un nume a cui stava a cuore l'ordine cosmico e la sopravvivenza di ogni essere, anche il più abbietto.

“Vado io a prendere la legna.” Dorisa si scostò via da lui, infilandosi nel varco che aveva aperto. Se la sarebbe cavata da sola, non si aspettava di meno. Era da più di un anno che vagabondavano insieme per Skyrim, eppure era cambiata. Le sembrava coraggiosa, risoluta, per maturare avrebbe avuto l'eternità che un giorno intendeva concederle. Troppo presto, comunque, per rivelarle tali disegni.

“Stai attenta.” Mormorò. Aveva bisogno di riflettere in una rinnovata solitudine, di superare la diffidenza e accingersi a trasformarsi ancora, stavolta col potere dell'Oblivion. Avrebbe dovuto tranciare ogni legame col Nirn e per farlo serviva che gli donasse anche l'anima.

 

Il servo del Thalmor era fuggito, e Sevan immaginava su chi sarebbe ricaduta la colpa. Un acquazzone aveva lavato via l'inchiostro dagli ultimi volantini, sparpagliati agli angoli delle scale e sepolti sotto la patina stagnante dei canali. Rimpiangeva le belle giornate, non tanto il sole sulle pietre riarse, ma la presenza del giullare, dell'ancella, le risate che risonavano dagli alti corridoi. Con la pioggia era arrivato il momento di andare oltre, di abbandonare una città che si era dichiarata ostile. L'ultima visita della scorta dorata, di fronte a un pranzo ormai freddo, non gli tolse solo l'appetito, ma anche la forza di giustificarsi e tentare una riappacificazione, semmai vi fosse una reale colpa nel suo operato.

Era una vendetta personale, calcolata. Soffiò per l'ultima volta sulla fiamma della candela, nella sua stanza alla locanda, raccolse i pochi averi e arrancò verso l'entrata, tirandosi dietro l'armatura in un fardello.

“Dov'è che hai intenzione di andare?” Haraldur lo squadrò da capo a piedi, appoggiato agli stipiti con le braccia conserte.

“Markarth è una puttana ingrata.” Fece lui, conservando il fiato per il viaggio ad est. “Ho combattuto contro un drago e lo Jarl mi ringrazia, certo. Non gli importa così tanto degli onori, se lascia che un Thalmor si accanisca contro un soldato per una manciata di volantini. E questo, perché il suo servo è scomparso.”

“Bisognerebbe capire se non ha tutti i torti.” Il guerriero gli rivolse un sorriso complice. “Ai ragazzi la libertà fa gola. Mi hai detto che lo hai incontrato, forse hanno estorto la confessione a una guardia sul posto. Ad ogni modo non importa, stiamo andando via.”

“Eh?”

“Sì, hai capito bene, vengo con te.” Mostrò la bisaccia, quel poco che ci aveva messo dentro trillò mentre la tenne sollevata per la tracolla consunta. “Dobbiamo attaccare il drago prima che torni di nuovo, ci serve tutto l'aiuto di cui abbiamo bisogno. Non credo che raggiungerai il resto dell'esercito, dopo quello che è successo”.

“E confermare i sospetti dell'Inquisitore? Ovvio, girerò alla larga. Piuttosto, perché vuoi starmi alle calcagna?”

“Sei di parola e non abbandoneresti un amico in difficoltà.” Haraldur tenne gli occhi fissi verso i banconi del mercato e la strettoia buia tra il rigattiere e gli argini del canale. “Kleppr diventa un tipo loquace se gli regali una bottiglia di buon sidro e fai le domande giuste, con il giusto riserbo. Mi ha raccontato del giullare e di come vi siete incontrati la prima volta. Un evento memorabile, ci ha tenuto a sottolineare. Farà parlare questa città cruenta per un po' di tempo.”

“Vai dritto al sodo, sai dove sto andando.” L'elfo gli strinse il bracciale di cuoio sull'avambraccio, siglando un'implicita alleanza. Ad incrociarsi non erano solo i lacci che lo tenevano saldo sulla camicia di cotone rigido, ma anche i loro destini in cui ogni fazione, benché contraria, avrebbe giocato la propria parte. “Preferisco precederti, ho preso a nolo dallo stalliere un carretto: ci ho caricato su viveri e pozioni, casomai ve ne fosse bisogno e per salvare le apparenze. Tornerà utile. Sei di stazza robusta e ti hanno visto poco in giro... se tu prendessi posto a cassetta e io mi nascondessi sotto il tendone, con le armi e il resto delle cianfrusaglie, passeremmo totalmente inosservati fino al punto in cui il sentiero diventa praticabile solo a piedi. D'accordo?”

“Va bene, buon piano.” Sussurrò Haraldur, staccandosi da lui e tornando al tavolo, davanti un boccale di birra e lo stufato di cervo. “Rimarrò qui quel che basta per agevolarti l'uscita dalle mura e per non destare sospetti.”

“Mi trovi poco distante la miniera di Kolskeggr, tra la strada per Markarth e la biforcazione a sud. Mantieniti sempre a nord, pare che oltre un covo di Rinnegati ci siano anche i Manto della Tempesta a bazzicare nei dintorni. Ti aspetto tra due ore sotto la palizzata, per fortuna le lune sono scure e la notte si perde nelle profondità dell'Oblivion. Goditi la serata e l'ultima cena a Markarth, quanto a me sono stanco degli imprevisti durante i pasti.”

Haraldur accennò un sorriso e bevve il brodo dal bordo dalla ciotola, lasciando i bocconi di carne a macerare sul fondo. Ne raccolse uno col cucchiaio, fumava ancora ed era caldo al punto giusto. Addentò un tozzo di pane e si girò verso l'uscio, per la seconda volta: erano state accese le fiaccole per rischiarare la piazza; nell'intervallarsi di nuovi avventori e facce conosciute lo scenario all'esterno era pressoché immutato, ma Sevan, Sevan era scivolato via tra la folla. Un gruppo di pellegrini si confuse tra le nubi d'incenso bruciato a grani nelle stanze e gli aromi pungenti delle erbe che insaporivano la carne allo spiedo. Le lune nuove passarono inosservate, così lui seduto sul bordo della sedia, con le gambe accavallate a rubare un'occhiata fuggente alle trecce bionde di Hroki. L'allegria era altrove, la giovialità pure: chissà cosa avrebbe trovato, lì sulle montagne; lieto almeno di avere un compagno di viaggio per spezzare le traversate solitarie.

Frabbi gli indicò la scodella vuota, all'inizio non ci aveva fatto caso, poi capì l'antifona.

“Quant'è la cena, donna? Vado via, è già tardi.” Prelevò dalla bisaccia una sacca di cuoio di alce, una delle tante prede cacciate e vendute ai macellai per sostentarsi. Le posò sul palmo una dozzina di septim e poi sloggiò, per lasciare spazio agli altri occupanti.

Ignorava i sottintesi dei locandieri, i loro modi diretti e sbrigativi nel fargli pesare una vita senza fissa dimora. Da mesi vagava per le regioni di Skyrim in cerca di un'identità, tra larici e cespugli di mirtilli. Aveva dimenticato chi fosse il vecchio Haraldur, un taglialegna di Ivarstead ritrovato dai genitori adottivi sotto il portico di un sepolcro, a poca distanza dall'abitato. Non aveva memoria né del padre né della madre; a lui era estranea qualsiasi reminiscenza sul dove, quando e perché la piena del fiume non l'avesse inghiottito, così come il buio dell'antica tomba. Aveva avuto visioni, era stato visitato da strani figuri da quando era bambino, li vedeva comparire all'improvviso e svanire tra gli schizzi delle cascate. Divennero per lui un peso, un mistero insondabile relegato nel silenzio. Certi prodigi erano concessi ai profeti, ma anche ai poveri di senno: per questo lasciò che l'acqua lavasse via le ombre, fino a renderle invisibili, quasi quanto lo era il riflesso della cima di Alto Hrothgar nel bacino a valle.

E fu la montagna a chiamarlo, contro la sua volontà.

Attraversò le mura, con andatura dimessa e il cappuccio calato sul capo, appoggiandosi sul bastone che aveva sfilato dallo spallaccio. Poi alzò gli occhi al cielo: le nubi si stavano addensando e non presagivano un cammino agevole. Calcò l'orlo sulla fronte e qualche ciocca biondo cenere sfuggì via, ondeggiando al vento.

Giunsero i tuoni e alla fine una pioggia, placida e fresca, ad annunciare l'ultimo rigoglio dell'estate. Spiccava sul rosso rassicurante delle foglie d'acero che gli avvolgevano i piedi. Come il vino dolce nelle botti, nel buio di una cantina, lo inducevano a meditare sul significato delle cose, lungo la salita che portava al ponte.

Appena arrivato alla biforcazione, Haraldur si fermò a scrutare l'orizzonte.

“Amico, sono qui!” Vedeva il profilo di Sevan agitarsi dietro i rovi, venirgli incontro e farsi consistente. La lampada ad olio all'entrata della miniera, distante dal punto in cui aveva posteggiato il carretto, gli restituiva un sorriso illuminato a metà. “Piove, maledizione, e temo che i pendii siano scivolosi. Al limite porteremo solo il cavallo, mi dispiacerebbe lasciarlo indietro.”

“Verrà con noi.” Haraldur carezzò il capo dell'animale, che nitrì spazientito perché la pioggia accennava ad aumentare. “Non attardiamoci troppo.”

Il sentiero non era erto, ma la ghiaia e i detriti della miniera resero il primo tratto instabile. Sevan montò in vettura, fedele alle istruzioni; Haraldur preferì condurre il cavallo a piedi e tranquillizzarlo, lisciandogli il crine e dandogli leggere pacche sul fianco.

“Ci sai fare.” Il legato e la sua voce erano quasi impercettibili sotto il rozzo telo. “Con me era nervoso, non faceva altro che scalciare e nitrire allo scoppio dei tuoni. Ho sempre marciato a piedi e viaggiato in calesse, abbiamo uno stalliere al campo che si occupa delle cavalcature.”

“Purtroppo le parole non bastano, hanno bisogno di sensazioni fisiche, del tocco giusto.” Nel momento in cui superarono la colonna di massi che segnava l'inizio della mulattiera, Haraldur montò a sedere. “Non ho mai vissuto in città, e quando ne ho vista una per la prima volta, ci ho trascorso il tempo necessario per dormire e ripartire il giorno seguente. Tuttora la mia casa è a Ivarstead, anche se non ci torno da tempo. Ho lasciato il castrone e la mucca a Jofthor, un mio vecchio amico. Se ne prende cura lui, spero stiano bene.”

“Ivarstead è un bel posto, tranquillo. Mi piacerebbe abitarci.”

“Era meglio prima della guerra.” Rispose il nord, senza approfondire la questione. Sevan colse la nota di nostalgia insita nella frase e non aggiunse altro.

L'erba era umida, lungo la serpentina che portava alla Pietra dell'Amante. In quella notte senza lune, lo sfavillio delle costellazioni e degli astri solitari regalava all'oscurità una parvenza di sicurezza. Sotto la cupola celeste, Haraldur recitò una preghiera a Kynareth.

“Non ha senso rimanere qui sotto e odio starmene con le mani in mano.” Sevan scoperchiò improvvisamente il telo, mentre se ne stava disteso era riuscito ad infilarsi gli stivali e ad allacciarsi i bracciali d'acciaio. Il carretto sostò in una piccola radura per permettergli di indossare con calma la corazza. “Bene, con l'uniforme d'ordinanza mi sento sempre a posto. Non ci tengo affatto a fare la figura del lavativo.”

“Mai pensato, eh.” Ridacchiò il Sangue di Drago, balzando giù e tenendo nuovamente il cavallo per le briglie. “Comunque, dovremmo stare attenti. Percepisco il residuo di una Voce nei dintorni, questa zona è intrisa del potere degli Antichi.”

“Infatti, è alle rovine di Ragnvald che siamo diretti.” Commentò il dunmer, appuntando la fibbia in uno dei passanti del cinturone. “Un posto vicino alla città e dove nessuno si sognerebbe di rincorrerli. Igmund ha piagnucolato tanto per strappare uno scudo ai vivi, figuriamoci i morti che effetto possono fargli. Negli ultimi giorni ho trovato solo il giullare, mi ha detto che la signora era altrove, in riflessione. Spero che a quest'ora si sia schiarita le idee.”

“Lungimiranti, i due.” Haraldur percepiva il terreno brullo sotto i piedi – in cui la pioggia penetrava a malapena – e la pendenza verso il dirupo, sovrastato dalla Pietra stessa. Oscillava lentamente, forse era il crepitio delle ruote sulle radici secche, infossate tra le zolle brulle o il vibrare dei passi sull'erba. Il Legato si accordò alla sua andatura e proseguì a piedi il cammino, con la mano sul pomolo del gladio e gli occhi puntati al cielo.

Al di là della linea che delimitava il successivo tornante, si imbatterono in una struttura in pietra circolare, elevata pochi piedi da terra e molto più antica. Il Sangue di Drago si avvicinò al punto in cui la curva si restringeva e, accovacciatosi, partì in perlustrazione del monticello.

“Aspettami qui, devo accertarmi che non sia accaduto ciò che penso.” S'infilò tra i rovi e i bassi cespugli di ginepro, procedendo con cautela e attento a non spaventare gli uccelli assiepati sugli abeti. Col loro frinire cadenzato, i grilli gli fornirono la giusta copertura per diventare un tutt'uno con la natura.

Aveva appena superato il perimetro di mattoni e già si ritrovò col respiro pesante per lo sgomento. Qualcuno, o qualcosa, era riuscito a penetrare al di sotto del tumulo e a prelevare le ossa del drago che lì giaceva sepolto da tempi immemori. Quel poco di malta restante fornì ad Haraldur un appoggio per le ginocchia, dato che si era piegato per tastare ciò che si trovava sotto la fessura, nient'altro che polvere.

Col cuore che gli squassava il petto e il passo di chi è falsamente padrone di sé, tornò da Sevan per comunicargli la sua teoria.

“Si è avverato quel che temeva Arngeir”. Sentenziò. “Mi ha detto di aver individuato un'anomalia nella Voce, in questa zona. Il drago che riposava sotto il tumulo è stato risvegliato, ma non è Alduin l'artefice.”

“Alduin?” Domandò il dunmer, incredulo. “Va bene, mi spiegherai più tardi. Questo significa... che qualcuno ha profanato la tomba ma non è chi ti aspetteresti?”

“Quasi.” Haraldur raccolse le briglie del cavallo e gentilmente lo invitò a seguirlo. “Credo che a massimo una lega di distanza ci sia l'ingresso alle rovine. Dobbiamo stare attenti a non farci notare, perché è molto probabile che venga a riposare qui, dove è rimasto per millenni.”

Notò che l'amico aveva il sudore sulla fronte, lui, il Sangue di Drago. Forse non era stato saggio percorrere quella strada di notte, ma sin dal principio si erano limitati a seguire l'unico piano possibile e non avevano avuto scelta.

“Sarà bene disfarci del carro. Abbiamo le armi, le pozioni... il resto non ci serve o potremmo recuperarlo dopo. Nulla di valore che possa far gola a un ladro o invogliarlo a rischiare la vita.”

“Non credo che questo luogo attiri molti turisti o borseggiatori.” Scherzò Sevan, per dissimulare l'ansia. “Il drago è scaltro, quindi il nostro viaggio sullo sterrato finisce qui. Tocca solo addentrarsi nel fitto della vegetazione... e sperare per il meglio”.

Prese a spiegare il telone come poteva, fino a coprire buona parte del carro. Haraldur lo assisté, cercando di strappare alla terra tralci d'edera, muschio e foglie morte per mascherarlo alla vista. Si mossero di soppiatto e, quando individuarono un corridoio scalabile che portava in cima alle rovine, vi si diressero con la speranza di raggiungerle quanto prima.

Presto si ritrovarono a dover lottare contro le asperità, schegge di legno e spine di rovo frustavano le armature, graffiavano loro i palmi delle mani e le parti del corpo non protette. Sevan si proiettava in avanti, superando Haraldur di alcuni passi, la distanza giusta per guidarlo e permettere a lui e al cavallo di anticipare il pericolo. Il Sangue di Drago gli copriva invece le spalle, assicurandosi che nessuna minaccia provenisse dal tumulo ormai lontano.

“Tieni duro, purtroppo la strada di ripiego è quella peggiore.” Lo consolò il dunmer, che avrebbe volentieri risparmiato l'impresa all'alleato. Haraldur si terse la fronte con il dorso del bracciale di cuoio e restò in silenzio, imperterrito.

Ad un tratto le stelle scintillarono in un bagliore intermittente, o forse erano i venti boreali che spiravano a quell'altitudine. Tuttavia, a Sevan parve di cogliere – con la coda dell'occhio – un'ombra grigia e fumosa muoversi tra quelle cavità. Aveva membra svelte, ciocche lunghe e sensuali... i suoi occhi mortali erano stati incapaci di coglierla tra la natura viva e brulicante ma tra quelle rocce e i gusci vuoti di lucciole assiderate si stagliava chiara, palese.

“Che cosa?” L'ombra alzò un braccio armato di spada e improvvisamente i ciottoli lungo la scarpata rotolarono giù, verso i piedi della collinetta. Haraldur si tenne saldo a un macigno, simile a una colonna spezzata, con un solo braccio. L'altro arto arrancava verso il fodero e sguainò maldestramente la spada d'acciaio. Il cavallo prese a scalciare e a nitrire.

“Tienilo fermo!” Lo supplicò il Legato, mentre da nord cominciò a rivelarsi una figura nera e frastagliata, la peggiore delle eventualità.

Il drago.

“Come ha fatto a scovarci? Akatosh ci sia testimone!” Urlò Haraldur che, incurante della sua salute, abbracciò il collo del destriero per tenerlo a freno, attento a non ferirlo.

“Non è lui ad averci scovato, ci è stato aizzato contro.” Spiegò Sevan, con un ghigno amaro. “Se nel giro di qualche minuto non riusciamo ad inventarci qualcosa, è finita. Il cavallo non ce la farà mai a montare fino in cima, senza contare che non ti lascerei indietro a batterti da solo. Quella bestia è troppo per noi!”

Entrambi abbassarono il capo, assaporando una morte che sarebbe stata gelida e repentina, come il soffio di ghiaccio del dragone. Il legato sapeva chi incolpare per la mancanza di pietà, era sangue del suo sangue, macchiato da anni di solitudine e torture in un sotterraneo di Markarth. Quando era andato a riprendersela l'aveva supplicato di fuggir via e non tornare mai più. Aveva tenuto fede all'ammonimento, era stato un abbandono obbligato, ma necessario per diventare forte – forte abbastanza da contrastare il mostro che lo aveva imbottito come un fantoccio di vanagloria e premi fasulli, allo scopo di strappargli via una sorella.

E così tutto finisce, pensò allora, percorrendo la cicatrice sul volto con un dito e augurandosi di cadere con onore, sperando di dimostrarle in battaglia cosa fosse pronto a fare per lei, quanto quella vita infame lo avesse cambiato.

“Sevan.” I polpastrelli di una mano tozza e muscolosa gli tastarono gli spallacci, in un impulso frenetico. “Sevan! Monta a cavallo.”

Il dunmer sgranò gli occhi, era come se Haraldur lo avesse fulminato a parole.

“Che sconsideratezza! A cosa servirebbe?”

“Monta a cavallo, per i Nove Déi!” Strillò, dimentico delle eresie. Il drago alitò su alberi e rocce, spaventando i corvi e congelando i loro compagni più lenti in un abbraccio letale. Era questione di passi, brevissimi passi. “Sono convinto che riuscirete a riparare nel Tempio. Al campo avevate uno stalliere, ma di sicuro vi avranno insegnato a cavalcare come gli Skaal.”

Non era il caso di chiedere all'amico una lezione sui costumi dei nord, per questo agì d'impulso e balzò in groppa. Senza sella, senza gualdrappa, la vedeva dura... e il cavallo era recalcitrante quanto lui a partire.

“Via, figlio di Kynareth, via!” Sbraitò il Sangue di Drago, ma non bastò. Udì un rantolo soffocato, dunque la voce cambiò e si fece morbida, suadente. Erano le stesse sillabe gutturali che l'aveva udito pronunziare quando avevano affrontato il titano per la prima volta. Il cavallo ne fu ammaliato e si ammansì all'improvviso.

“Corri, bello, corri!” Lo esortò Sevan di rimando e lui partì al galoppo, accelerando l'andatura e scavalcando i massi impervi quanto una libellula sulla superficie dell'acqua. Strinse a sé le redini e urlò, con le lacrime che gli offuscavano l'unico occhio buono e nominando più volte l'amico. Anche il cavallo sembrava partecipe della sua angoscia e corse, corse a perdifiato per evitare il gettito d'aria dalle fauci assassine.

Il destriero doppiò la tormenta, una volta, una ancora. Sevan si volse indietro per evitare che lo azzannasse di tergo e notò che era fuori pericolo, al di là della sua portata. Il nemico, ora, planava in basso.

“Haraldur!” In risposta, udì una voce di giovane donna ridere sgraziatamente. L'ombra svanì, rimpicciolendosi fino a tramutarsi in un fuoco fatuo, ma prima degnò il cavaliere di un'occhiata rapace, simbolo di tutto il disprezzo che nutriva in seno.

Stava raggiungendo le scale del tempio, convinto che Haraldur l'avesse protetto fino alla morte, poiché il drago ruggì facendo tremare la terra e le colonne del Tempio. Invece, lo vide virare a destra e battere in ritirata, con le scaglie irte e le zanne che, insoddisfatte, reclamavano le carni di un grosso cervo.

Feim Zii Gron! Un'entità azzurrognola si profilò a qualche passo di distanza, saltellando tra gli arbusti. Sevan portò avanti il braccio armato e attese. Il sudore gli impregnava la camicia e le braghe, rendeva l'armatura una costrizione immane. Non era pronto per altri portenti, era scampato al drago e ne aveva abbastanza: non sapeva se l'Oblivion fosse un posto adatto per i dovah, ma ce li avrebbe mandati tutti senza esitare.

“A quanto pare siamo sopravvissuti entrambi.” Credeva fosse un fantasma, invece non era altro che Haraldur. In qualche modo era riuscito a rendersi invisibile, impalpabile. “L'ho attirato a me e poi ho concentrato la forza del mio Thu'um. Credevo funzionasse solo contro i figli di Kynareth, non l'ho mai provato contro un drago.”

“Che Azura sia benedetta!” Era etereo, ma se avesse potuto l'avrebbe stritolato in un abbraccio. “Ora che abbiamo guadagnato la vetta, non voglio rimanere qui un minuto di più. Persino il cavallo entrerà con noi nel Tempio, dopo quello che è accaduto non mi va di lasciarlo fuori. Mi auguro che ci sia qualcuno ad accoglierci.”

“Le provviste rimangono a valle.” Osservò Haraldur, invitandolo a spalancare il portone con un cenno. “Dopo quello che è accaduto... io dico, non scenderei nemmeno per tutto l'oro del mondo!”.

 

Le aveva provate tutte, a quanto pare era dura a cedere.

“Dai, biscottino.” Cinguettò Sam, giungendo indici e pollici delle mani ad imitare un cuore. “Non puoi tenermi il muso lungo per tutto questo tempo. Sono passati due giorni e ancora non mi parli!”

“Meriteresti di essere randellato da un intero esercito di dremora!” Tuonò Dorisa, mentre intrecciava una corona di bacche, agrifoglio e alloro seduta a gambe incrociate su un drappo sfilacciato. “Potrei usare i miei poteri per aiutare qualcuno, anziché passare le ore a fabbricare inutili decorazioni. Hai totalmente ignorato il punto della questione e, come se non bastasse, mi hai liquidato con l'ordine più sciocco che potessi concepire... raccogliere fiorellini di montagna!”

“...Ma ci serviranno, Dorisuccia-uccia.” Il bretone la marchiò con un bacio sulla guancia e lei, per ripicca, gli sbatté la corona in faccia. “Va bene, va bene! Fa' quello che ti pare, allora!”

“Qualcosa di utile...” Mormorò Dorisa, afferrando la Rosa e adagiandola sulle ginocchia. Persino Sulak aveva smesso di rispondere al suo richiamo. Forse era impegnato in chissà quale parte del regno di Sanguine ad azzuffarsi con altri dremora di basso rango, oppure doveva sottostare alle richieste della madre che, ne era sicura, non lo mollava un istante.

Peccato, di sicuro è più obbediente. La Rosa sembrò cogliere il suo malumore, passando da una sfumatura cremisi intensa a una tinta violacea molto cupa. Contemplare il simbolo del proprio status, come unica ancella di Sanguine in quel luogo e tempo, le strappò un debole sospiro.

“Non startene lì impalata...” La blandì Sam, restio a leccarsi le ferite. “Qui è tutto sporco, sembra che la polvere non ci dia tregua. Abbelliamo questa spelonca ammuffita! Anche la Rosa non se la passa meglio... ah, ecco cosa puoi fare. Su, lustrami la lancia!”

“Eh?” Sobbalzò Dorisa, confusa.

“Dunque non l'hai mai letto!” Stavolta lo stupore fu di Sam. “Peccato, avresti colto la citazione. Di rado ho trovato opere pari a La lussuriosa cameriera argoniana... un gioiello di ingegno mortale, non c'è che dire!”

Lei lo guardò sottecchi.

“Nah, lascia stare. Prima o poi è una commedia che leggono tutti... sperano di trovarci sempre chissà cosa, ma una ragazza perbene come te non va oltre la scena rappresentata.”

La stava prendendo in giro, ci avrebbe giurato. Doveva essere di certo un'opera brulicante di doppi sensi, arguzie verbali che lei non riusciva a comprendere. Con risultati esilaranti, almeno per Sam.

Comunque, aveva deciso di non preoccuparsene, almeno per il momento. Sentiva che qualcosa stava avvenendo alle sue spalle, poiché stava facendo di tutto per trattenerla lì, pigramente acquattata sul lastricato di una cripta. Era una solitudine apparente in un caos di trame e intenti: ognuno era fin troppo impegnato a fabbricarsi un destino ma lei, la Sacerdotessa, disdegnava la parte dell'oracolo.

Che senso ha rimanere qui a farsi pregare, quando c'è un'intera città che ha bisogno di noi? Si ritrovò a pensare. Giocherellò con lo stelo di un fiore, agitandolo in avanti e indietro, incapace di piantarlo lì e prendere la sua strada. Una parte del suo essere le diceva di pazientare e non agire d'impulso, del resto nutriva dei sentimenti per Sam. Sentimenti, e quali? Gratitudine, affetto? Oppure...

Un brusco tuono sembrò scuotere le fondamenta dell'edificio. Dorisa poggiò le mani a terra e balzò in su, come un coniglio. La cima stessa della collina oscillava, in preda a una bufera di neve che non aveva nulla di naturale.

Trattenne il respiro, poi scattò in avanti per dare una certezza alle mille idee che le erano affiorate in mente. Quale avversario era venuto a reclamarla? L'entità che stava riesumando le ossa dei draghi, oppure quella che si era divertita a pervertirne la sostanza? Forze opposte si stavano scontrando al di là del portone, e lei si sentiva in dovere di prestare aiuto a quelle anime che riusciva a riconoscere, chissà per quale ardore di misticismo.

Crollò a terra, con le dita sulle tempie. Il dolore era atroce, le frantumava il cranio come un colpo d'ascia. Sam biascicò un'imprecazione e si gettò carponi su di lei, mentre si contorceva a terra in preda alle convulsioni.

“Devo andare! Devo anda...”

“Da nessuna parte!” Il potere di Dorisa cresceva, così come la sua sensibilità agli attacchi di Molag Bal. Ondate di odio, distruzione e morte, a cui era ancora troppo esposta. “Non vedi che li sta usando come esca? È un tentativo per farti venire allo scoperto. So che ti fa male, ma devi rimanere... fidati, se la caveranno.”

E come avrebbero fatto? L'interrogativo l'allibiva. Non immaginava che potesse esistere un cratere buio, nauseabondo, dove gusci mortali vagavano privi di ricordi e sentimenti. Erano esseri traslati in sotterranei e caldaie, semplicemente per servire. Vide i laghi di ghiaccio, gli sterpi, le spine che perforavano il terreno e ferivano le carni putrescenti dei non-morti. Un immenso crepaccio, separato da un ponte che collegava l'unica città ospitale con la dimora di Molag Bal. Attraversò corridoi stagnanti, celle anguste, fino a raggiungere un enorme vestibolo in cui incontrò se stessa... con le ossa divelte, le carni sfregiate ed ancora la forza per urlare e piangere, di fronte a una carceriera dalle lunghe ciocche nere, sposa di Molag Bal.

La somiglianza col suo corpo mutilato era impressionante.

“No!” Urlò, tentando di dimenticare l'orrore che si sarebbe avverato, qualora avesse fallito.

“Non gli credere, non cedere!” Sam strinse i denti e le posò una mano sul cuore, l'altra le stringeva saldamente il polso destro per auscultarle i battiti del cuore. L'aveva colpito sul vivo, quel figlio di puttana, gliel'avrebbe fatta pagare.

“Conosci il mio punto debole, eh, Molag?” Urlò, dopodiché fu un ghigno ad alterargli i lineamenti. “Adesso so anche che intenzioni hai. Prenditela con qualcuno della tua misura!”

Sotto di lui Dorisa boccheggiava, col sudore che le scendeva a fiumi dalla fronte. L'incantesimo stava funzionando, la maledizione stava confluendo in lui assieme alla sua negatività. Di rimando udì il ruggito del drago e il battito fragoroso di ali che prendevano il volo, verso anfratti sconosciuti.

Rimase chino su di lei finché non la vide respirare flebilmente. Esanime, sì, ma salva.

Credeva che nulla più li avrebbe disturbati, ma il portone si aprì sotto una poderosa pedata, e dietro di esso Sam vide profilarsi le ombre di due guerrieri acciaccati. Uno di essi era Sevan, ancora stravolto dallo scontro che, forse, era avvenuto fuori le rovine.

Il suo sguardo, però, non dava segno di benevolenza.

“Che cosa le stai facendo?” Berciò il Legato, gettandosi su di lui.


 

Un capitolo difficile, forse il più ricco d'azione che abbia scritto, rispetto alla sua lunghezza. Avevo anticipato nelle recensioni che Elanilde e Ondolemar sarebbero ricomparsi più tardi, qui invece lo scontro è su due fronti ma contro lo stesso nemico, Molag Bal e i suoi seguaci assetati di sangue.

Se avete letto Il sonno della belva conoscerete sicuramente l'identità di chi è intenzionata ad avere le anime di Haraldur e Sevan.

A proposito di Haraldur: negli scorsi capitoli è stato poco più che una comparsa, qui invece ha una parte attiva e mette i suoi poteri al servizio della causa. Ho introdotto brevemente la sua storia, il resto dei dettagli su di lui sarà approfondito in seguito. Forse in alcune one-shots, chissà.

Dorisa, per ora, rimane a Ragnvald in compagnia di Sam, anche se ha dovuto subire l'attacco spirituale di Molag Bal. Lui è riuscito in qualche modo a svegliarla dall'incubo, ma la situazione rimane in bilico.

Come al solito, i dettagli “liberi” sono ispirati al lore di ESO (la sessualità dei Dremora, lo scenario di Coldharbour, l'aspetto del drago-titano servo di Molag). Invece, per quello che riguarda il rapporto tra Sanguine e Dorisa, la situazione è ambivalente. Lei ovviamente lo ama, ma percepisce che i suoi poteri stanno crescendo, che sta diventando in qualche modo parte del reame di Sanguine, quindi nutre sentimenti contrastanti... di accettazione e rifiuto.

Solo il tempo dirà come andrà a finire. :)

Grazie per avermi letto anche stavolta, per tutte le segnalazioni e consigli (le correzioni verranno aggiunte tutte a fine opera). A presto! :)

  
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