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Autore: Koa__    21/09/2017    4 recensioni
Dal testo: Lui e Sherlock parlano molto, in realtà. Anche se alcuni argomenti sono tacitamente banditi, da quando si sono rivisti, ormai due settimane fa, non fanno che raccontarsi cose. Parlano dei casi. Di quelli divertenti, di quelli più pericolosi. Della storia finita male di Victor. Parlano del vecchio professore di anatomia di Cambridge e della sua alopecia, e quando lo fanno ridono di cuore.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Sherlock Holmes, Victor Trevor
Note: AU, Lemon | Avvertimenti: nessuno
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II.
 
 

 
To love another person,
is to see the face of God.

[Les Misérables]
 
 


Della vita a Cambridge, Victor Trevor ricorda molte cose. Prima di tutto il violino, e il fatto che entrambi preferissero Bach a Haydn. Le montagne di libri e appunti tenuti perfettamente sparpagliati per la stanza (perché l’ordine fa brutte cose all’umore). I piatti d’arrosto lasciati a metà dal suo inappetente compagno di stanza. Le mai vuote tazze di caffè, bevute persino a mezzanotte per riuscire a restare svegli a studiare. Gli esami a cui il dannato bastardo, com’era solito chiamarlo quando faceva lo stronzo saccente, era sempre da lode. Gli esperimenti maleodoranti lasciati a decomporsi nel bagno in comune, e la costante certezza di non riuscire a comprendere poi molto di se stesso. Fin da bambino, Victor sapeva non essere esattamente eterosessuale. E anche se non era in grado di etichettarsi in qualcosa, né aveva idea che le persone dovessero dividersi in generi, era convinto d’essere diverso dai suoi amici. A dieci anni si era innamorato del maestro di matematica. A tredici una sbandata per un compagno di suo fratello, che faceva il mediano d’apertura nella squadra del liceo, lo aveva ridotto a un ammasso tremolante di ormoni. * A quindici era così cotto del professore di ginnastica, che era arrivato al punto d'allenarsi il sabato e la domenica solo per poter ottenere da lui un qualche complimento. A parte queste infatuazioni di poco conto, durante l’adolescenza non aveva mai avuto alcun fidanzato. Non prima di Parigi (come ha rinominato la sua ultima relazione importante). Sì, quella durata più di dieci anni. La stessa che è finita in malora e per la quale una parte di lui ancora si dispera, ma solo per aver perso così tanto tempo appresso a un emerito stronzo. Però, ora che ricorda meglio, c'è stato un qualcuno ai tempi del liceo. Anche se più che “un ragazzo” era uno con cui si baciava ogni tanto. Un certo Andreas, Andrew… un tale di cui a malapena ricorda il nome. Ecco, sa di averci pomiciato, oh, eccome se l’ha fatto! Un giorno, prima della pausa di primavera, lui e Andreas avevano trascorso una mattinata intera nello stanzino del bidello. Perché avrà anche dimenticato come si chiamava, ma ricorda perfettamente d’avergli infilato le mani nelle mutande. Giusto per provare capire se era vero che gli piaceva tenere il pisello di un altro maschio in mano. Poi gli ha fatto anche un pompino, ma questo è un altro discorso.

Dopo la scuola, naturalmente, arrivò Sherlock e con lui giunse la confusione. La vita con lui era… totalizzante. Sì, non saprebbe descrivere il rapporto che avevano se non con questo termine. Anche se non sono mai stati a letto insieme e nonostante quel bacio, di cui non parlano mai, per Victor era a tutti gli effetti una sorta di matrimonio. Ed è proprio la confusione a proposito che gli è rimasta maggiormente impressa. Ha sempre evitato la questione, fino all’ultimo dannatissimo giorno. Quando l’ha salutato. Davanti al taxi, con un treno che stava per partire e tanti sogni in valigia, troppi per poterli contenere tutti. Sino ad allora ha negato d’esser coinvolto, di amarlo davvero. Ma non ha mai smesso di chiedersi che cosa fossero e quale definizione fosse meglio usare. Sì, Victor è allergico alle targhette e specialmente quando ci sono di mezzo i sentimenti, eppure questa domanda lo ha tormentato per degli anni. Erano amici? Oppure per Sherlock era una sorta di fidanzato, pur senza esserlo a tutti gli effetti? Lui ne era innamorato, di questo è certo. Lo era davvero e nonostante avesse seppellito quel sentimento giù da qualche parte oltre il cuore e lo stomaco. Perché nascondersi a questo modo? Vigliaccheria, forse. Magari inesperienza o eccessiva timidezza. Ma non può negare d’aver evitato di rispondere. Eppure, ripesandoci, era così chiaro. Avevano anche una specie di routine giornaliera. Ad esempio, Sherlock lo svegliava al mattino. Victor lo obbligava a mangiare. Litigavano e discutevano come una vecchia coppia sposata e trascorrevano tutte le ore libere assieme. Solo che non facevano sesso. In un certo qual modo si amavano, anche se non era niente di canonicamente definito.

In effetti, Victor se lo chiede anche oggi che cosa siano lui e Sherlock Holmes. Si sono rivisti da neanche due settimane, ma tanto basta affinché vecchi sentimenti e antiche domande tornino a tormentarlo. A peggiorare la situazione c’è un tarlo del quale non sa davvero come liberarsi, sente che una sorta di amore sta riaffiorando e che si sta nuovamente innamorando di lui. No, non voleva gettarsi così presto in un’altra storia. Se l’è ripetuto decine di volte dopo Parigi. Però è quel che sta succedendo. Victor ha imparato a riconoscere i segnali e non vuole più mentire a se stesso. Ma a confonderlo è proprio quel loro passato rapporto platonico, lo stesso che per tanto tempo ha cullato la sua memoria mentre era in Francia. È innamorato del ricordo che ha di lui o prova quel che prova, perché non può fare a meno di amarlo? Anni fa si sarebbe risposto che Sherlock Holmes gli sarebbe piaciuto in qualsiasi epoca o a qualunque età e che, anche a ottant’anni, avrebbe adorato la sua compagnia. Oggi non ne è più sicuro. Perché è cambiato. Perché il ragazzino sognatore di allora che voleva vivere in una soffitta di Montmartre e fare il pittore, è drasticamente cresciuto. A peggiore il tutto c’è il fatto che non si fida più molto di se stesso e di quello che prova. Qui e ora chi ama? Ma soprattutto, due settimane bastano per innamorarsi?

Se la loro vita fosse un film d’amore, forse sarebbero già a letto insieme, si dice abbassando lo sguardo e sorridendo al nulla mentre nota Sherlock fissarlo di sbieco. Naturalmente non capisce che cos’abbia da ridere. O forse lo sa e perciò tace. Victor non ha idea di quale possa essere la risposta, e onestamente non ha nemmeno bisogno di chiedersi cosa ne stia pensando lui di tutta questa situazione. Perché è quasi sicuro che la soluzione al problema venga risolta da Sherlock Holmes in maniera razionale e pragmatica, cosa che lo fa discretamente innervosire. Quindi no, non ci vuole proprio pensare.

«Due settimane…» mormora fra sé, parlando a voce eccessivamente elevata e senza preoccuparsi degli sguardi torvi e delle occhiatacce dei poliziotti che stazionano poco distanti. Subito infatti, la profondità dei suoi pensieri lo cattura nuovamente. L’amore va quantificato in tempo trascorso? Se ti alzi un mattino e vedi Dio per un istante, stai a chiederti se quel secondo sia stato sufficiente a rendere il momento memorabile? Ecco, l’amore è come vedere Dio. Pensa Victor. Non importa quanto sia il tempo effettivamente trascorso, basta viverlo ed è sufficiente l’intensità del sentimento a rendere tutto speciale. E poi in quel film con Hugh Grant e… comunque si chiami lei, si sono innamorati per davvero in due settimane. ** No, la trama probabilmente era diversa, ma non è questo il punto. Il fatto è che è piena notte, a Portobello Road fa un freddo del diavolo e Victor Trevor se ne sta con il sedere congelato, le guance rosse per il freddo e le mani che a malapena riscalda col fiato, all’ingresso di un palazzo che a occhio e croce dev’essere del primo dopoguerra, dov’è stata ammazzata una donna. E vorrebbe dire che non gli sta piacendo tutto questo, ma mentirebbe. Già perché, se c’è una cosa che dell’università ricorda con malinconia, sono le indagini. Sherlock ha sempre avuto la passione per i puzzle e i piccoli misteri da risolvere. Quale opinione abbia oggi in proposito davvero non lo sa, ma ai tempi detestava i libri gialli: troppo elementari. E anche i film polizieschi, troppo stupidi. Adorava però l’andarsi a cercare dei casi. Riteneva molto più stimolante provare a dedurre la vita di uno sconosciuto di origini russo-svedesi che sedeva da solo alla sala da tè, invece che perdere tempo a leggere una storiella banale e dal finale scontato (previsto sempre attorno alla quarta o quinta pagina del suddetto romanzo), che si preoccupava ogni volta di riferire ai quattro venti. Era come se volesse risparmiargli la fatica di arrivare all’ultima pagina: “Dai, è ovvio che è stato il giardiniere, non essere sciocco!” gli diceva, prima di lasciare la stanza con un’uscita plateale. Dannato bastardo, pensa Victor ancora oggi con un sorriso nostalgico.

Ad ogni modo, all’epoca Victor lo ha seguito sempre e anche quando il caso più eclatante riguardava una tresca tra il professore di letteratura francese e una studentessa del primo anno. Ha ben in mente le nottate trascorsi uno accanto all’altro, acquattati sotto a una cattedra in attesa che il colpevole facesse la propria mossa. Ricorda il brivido che lo prendeva alla schiena. L’emozione che gli stringeva lo stomaco. Il cuore che batteva forte e l’inebriante felicità nell’averlo vicino. Oggi, proprio come un tempo, ciò che spinge Victor Trevor non è poi tanto diverso. La sola differenza è che i casi non riguardano giovani procaci o colleghi di corso dalla mano lesta, ma hanno a che vedere con omicidi e casi da prima pagina. C’è sempre la polizia, che arriva drasticamente in ritardo sulla scena di un crimine. Spesso c’entrano i servizi segreti, e a quel punto è Mycroft a far sparire tutto prima di filarsela su una macchina scura al grido di: “Guarda quanto bene si abbina il mio ombrello all’abito che indosso?”. Victor non ha capito del tutto come funzionino le cose con Scotland Yard, ma crede che siano proprio loro a chiedergli aiuto. Il che ha del ridicolo, specie perché Sherlock non è mai gentile con nessuno e fa di tutto per sembrare un perfetto stronzo. Ha visto una certa signorina Donovan venir trattata molto male e quel tizio con degli occhi stupendi e un sorriso da infarto, correr via furibondo giù per le scale del 221b, con una cartellina sotto al braccio e parole irripetibili in bocca. Lestrade gli pare si chiami. Sì, Victor ha capito quanto Sherlock sia rispettato dalla polizia londinese, e gli basta osservare il giovane detective ispettore Dimmock e la maniera in cui ascolta le strabilianti spiegazioni che gli vengono offerte. Nulla che non abbia già visto prima, anzi forse la sua faccia in quel momento non è poi tanto diversa. Ma in quel Dimmock gli pare di vedere anche una sorta di segreta e devota ammirazione, un qualcosa che non può permettersi di esprimere. Victor ne è certo, lo sente perché ad afferrare le emozioni sul viso degli altri è sempre stato dannatamente bravo. Sono le sue, il problema.
 
La notte fonda a Portobello Road e Victor è discretamente esausto. Alla fine, nell’appartamento al secondo piano dov’è stata assassinata una donna anziana di cui non conosce il nome, ci sono entrati per davvero. Mentre saliva le scale ha cambiato idea due o tre volte e fatto dietro front per altrettante, ha avuto paura di trovarci l’assassino e mandato al diavolo tutto e tutti (specialmente se stesso), eppure lo ha seguito. Ed è stato proprio allora che ha capito che era ben lontana l’epoca di tresche e furti in sala mensa. Ora indagano su un omicidio. Loro due. Insieme. Come quando vivevano nella stessa stanza e dividevano l’intera vita. Ha un sapore vagamente differente questa nuova avventura, ma tra le pieghe amare di un passato recente che per entrambi è da buttare, c’è anche un qualcosa di dolce. Sherlock è la parte stupenda di quanto gli sta capitando. Lui è di una bellezza infinita. Lo è mentre indaga. Lo è nella maniera in cui pensa e ragiona, come gli s’infittiscono i pensieri uno dopo l’altro. Lo è nella genialità sfacciata, nelle rughe del viso piene di deduzioni. Sherlock è stupefacente da osservare, con le mani guantate e quel cappotto dal colletto sollevato, gli zigomi spigolosi e gli occhi nei quali morirebbe. Victor pensa che sia più bello di qualsiasi cosa abbia mai visto. Vorrebbe disegnarlo, a matita, su un foglio bianco mentre è nudo magari, steso davanti al camino. Vorrebbe farci l’amore, forse.
«Pensi troppo rumorosamente, Vic. Smettila!» lo ha rimproverato a un certo punto. Sarà capitato allora, lì s’è reso conto che era sul luogo di un omicidio. Un delitto vero, non un giallo da bancarella da leggere sotto l’ombrellone. È stato parecchio eccitante, questo lo deve ammettere. Sherlock, organizzatissimo come ai bei tempi, ha scassinato la porta dell’appartamento permettendo loro d’intrufolarsi senza esser visti. È così che si sono ritrovati in una casa buia e gelida dov’era stata strangolata una persona, con un dannato busto di Napoleone che sembrava giudicare ogni mossa che facevano. E tutto per cercare un qualcosa di segreto nascosto chissà dove. Decisamente affascinate, no? Spaventoso, sì. Ma affascinante.

Alla fine il bottino l’hanno trovato. Era nascosto sotto un’asse del parquet, in una specie di piccola botola improvvisata. Si trattava di una collana di diamanti dal valore inestimabile, rubata circa due anni prima a un qualcuno di arabo pieno di soldi. Una specie di riccone petroliere con la fissa per i gioielli e le belle donne. La collana era stata nascosta lì per la fretta, dallo stesso ladro che era capito nell’appartamento dell’anziana mentre era in fuga. Costretto a tornare per recuperare la refurtiva era stato sorpreso sul fatto. “Il resto è venuto da sé”, ha commentato Sherlock prima d’incamminarsi lungo il vialone. Non ha salutato il detective ispettore Dimmock, né i poliziotti che erano con lui. Si è limitato a un cenno con la mano. Voleva dirgli di seguirlo.


La notte è fredda, l’aria sa sempre vagamente di zucchero e miele e quelle lucine colorate sono un fastidio per la sua vista assonnata. Non sa per quale ragione ci stia pensando e ripensando, ma le parole di una vecchissima canzone gli danzano sulle labbra e lui non vuole neanche trattenerle.

«You’ll find what you want in the Portobello Road…»

Victor canta a voce ben alta. Prima di fare un passetto di danza e inchinarsi a uno Sherlock che ride appena. Come una ballerina che ringrazia il proprio pubblico. Ma Sherlock ride, e lo fa in modo leggero. Con quella voce da baritono che a tratti diventa un poco più acuta. Ride a Vic gli si ferma il cuore. Si guardano e poi Sherlock leva gli occhi e li porta alla strada. Solleva la mano per chiamare un taxi, probabilmente l’unico nell’arco di chilometri. Ma non smette di ridere e tanto che a Victor sembra di avere di nuovo vent’anni. Eccola, allora si rifà viva quella sensazione alla bocca dello stomaco. Che lo stringe e lo divora dentro. E il cuore, oh, se batte svelto! È causa sua e di quell'agitarsi del sangue nelle vene, che agisce e lo fa senza pensarci. Lo fa con quella ridicola canzoncina ancora in testa e la voce della coscienza che a gridargli che, questa volta, non può scappar via come se niente fosse. E quindi parla, prima di aver preso un bel respiro ed essersi torto e ritorto le mani per l’agitazione.
«C’è» pigola, perché la voce è uscita in un sussurro quasi impercettibile. «C’è una cosa che vorrei farti vedere, ti… ti andrebbe di venire da me?»

Il “sì” non se lo aspetta. Perché sono le tre del mattino. Perché è sicuro che un lato di Sherlock ami ancora John. Perché è convinto di essere solo un amico per lui. Si aspetta un rifiuto che non arriva, un “no” che non ci sarà mai. Victor non ha idea di che cosa ne pensi Sherlock Holmes a proposito, ma c’è qualcosa tra loro. Quello che c’era un tempo e, anzi, forse una briciola di sentimento in più. Ma non ci pensa, non adesso e mentre il taxi si ferma, un timido rossore gli si apre sulle guance.

«Sì» sussurra Sherlock. Mentre lo vede salire in auto, Victor pensa che il suo sorriso sia la cosa più stupefacente mai vista.
 




Continua
 
 
 


*Il “mediano d’apertura” è un ruolo del rugby.
**Il film a cui si riferisce Victor è “Due settimane per innamorarsi” con Hugh Grant e Sandra Bullock.

La canzone che canta Victor è “Portobello Road” dal musical “Pomi d’ottone e manici di scopa”.

Annotazioni: Avviso che i capitoli saranno un po’ più di tre. Credo non più di cinque, ma non ne sono sicura perché in questa storia è un po’ tutto così come viene.
Grazie a tutti coloro che stanno seguendo e soprattutto a chi ha recensito.
Koa
   
 
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