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Autore: Midnight the mad    21/09/2017    0 recensioni
"Tu sapessi, amore mio, quanto è folle la vita da scrittore."
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Di tempo non ce n’è, amore mio.
Scrivo a te perché c’è bisogno di qualcuno a cui rivolgere questi pensieri – sono così vaghi che, se non esistesse un destinatario, anche loro si dissolverebbero a breve, senza fare in tempo ad essere scritti.
E’ tardi – o meglio, non tardi in generale, ma tardi per piazzarsi davanti al computer e buttare giù due righe. C’è il fantasma della cena che incombe sui pochi minuti che mi restano, e io so che, se mi alzerò da questa sedia prima di aver finito, non finirò mai di scrivere quello che avevo iniziato. Sarà passato il momento, sarà passata l’atmosfera – l’atmosfera che è di una stanza semibuia, una lampada accesa e il sole che tramonta fuori dalla finestra, o forse è già tramontato, chissà, perché il vento non permette di tenere aperte le imposte. Si vede solo un minuscolo scampolo di cielo, amore, ed è di quell’azzurro rosato e gelido che caratterizza la fine del giorno. Probabilmente sì, il sole è già tramontato del tutto.
Non ricordo perché ti ho scritto, non ricordo di cosa volevo parlarti. Sono certa che ci sia qualcosa, dopotutto è ovvio che ci sia qualcosa da dire quando si sente un tale impulso di mettersi a scrivere – oppure no? Tu sapessi, amore mio, quanto è folle la vita da scrittore. O forse lo sai già, in effetti. Cosa so io di te? Nulla più del nome che ti ho dato, amore mio, che è quello che tu sei per me ma non ciò che sei per te stesso, o per altri, nella realtà complessiva della vita; e forse quel nome non basterebbe a definirti in nessun momento tranne quello che sta scorrendo proprio ora, perché non sei altro che l’indirizzario di una lettera dallo scopo dimenticato.
Devo andare in bagno, credo. Ho mal di pancia, quella pressione vaga e lievemente fastidiosa che diventa tale solo nel momento in cui te ne rendi conto, e poi non passa più. Ma non credo che mi alzerò. Non posso rischiare di rompere il momento, aspetto più che altro che sfumi da solo, che la mia concentrazione incapace di durare trovi qualche altro oggetto su cui posarsi. Forse sarà un libro, quel libro che sto leggendo. E’ folle e bellissimo, e io so che se sto scrivendo questo, ora – se sto scrivendo a te, così, con queste parole, questo linguaggio, questo stile – è per merito – o colpa – sua. La mia paura è la facilità estrema con cui il mio pensiero, o meglio, il mio modo di pensare, il linguaggio con cui il mio cervello parla a sé stesso, sia condizionato da ciò che leggo. Eppure ci deve pur essere uno slang di fondo – Dio, quanto suona sbagliata questa parola messa lì solo per evitare ripetizioni. Dicevo, ci deve pur essere, perché alla fine so di essere capace di impugnare quei linguaggi a piacimento, e quando non leggo penserò pure in qualche modo, forse per immagini.
Ho quasi paura a distaccarmi da questo vagheggio trasognato del pensiero, eppure credo di avere effettivamente qualcosa da dirti. Non per il significato che ha; quello è già passato insieme al momento in cui lo aveva; è più un insieme di belle parole, che suonano talmente bene da meritare di essere ripetute, pur descrivendo un’emozione lontana al punto tale da farmi credere che fossero state scritte da altri e banalmente ricopiate sul mio diario. E invece no, sono mie, di una me emozionata in un modo che adesso sembra inconcepibile, pur provando io una certa pace durante questa sottospecie di esercizio di stile o flusso di coscienza. La sua metodica follia mi accende, e mi sento quasi in obbligo di stare ad ascoltare i discorsi della pioggia col mio tetto.
E’ bello, perché non ha significato, così come tutte quelle frasi che al grande pubblico piace così tanto estrapolare dal contesto e riciclare ogni volta che i loro occhi e i loro pensieri, assetati di un’emozione forte, sentono il bisogno di posarsi su delle parole pungenti, dirette, immediate. Non ha importanza il vero significato – o meglio, la ha così come potrebbe averlo, in una canzone, il testo. Un’importanza indefinita, dipendente dal soggetto che ascolta, che legge – mentre l’importanza dell’involucro, che sia la musica o le parole stesse, è imprescindibile, innegabile, ed è, spesso, l’unico motivo per cui una certa canzone viene ascoltata, o una determinata frase letta e riletta. Il significato è soggettivo in modo diverso dalla frase che lo esprime. Lo è in modo più intenso, radicale. La bellezza di una parola, di una frase, invece, è soggettiva sì, ma scuote qualcosa di più profondo, di animale, quasi. E’ suono, non è concetto. O meglio, lo è nel limite in cui un suono può essere concetto, così come può esserlo un colore, un profumo, o qualsiasi elemento che subisce un riconoscimento primordiale da parte della nostra mente.
Le parole camuffano e svelano significati, eppure ciò che conta di più in esse è la capacità di stuzzicare i sensi. Gli esseri umani non sono capaci di separare ciò che era necessario esprimere dal mezzo usato per farlo, e per questo, alla fine, il modo migliore per trasmettere un qualsiasi significato è rispecchiarlo nel semplice suono, nel mormorio, nel ruggito, nel sibilo delle lettere che sono incaricate di esporlo. Allorché le parole perdono questa caratteristica, quando invece non ha importanza la forma, che è solo il modo più diretto per comunicare un contenuto, allora è impossibile che il libro, il discorso, il racconto risulti come qualcosa di scritto, come letteratura; sarà sempre e comunque un tentativo disperato e malriuscito di mettere su carta qualcosa che su carta non è – sia esso fantasia o eventi realmente accaduti, e avrà lo stesso patetico risultato che ha il descrivere a un cieco un colore: si aggrapperà, appunto, a sensazioni diverse e così personali da impedire alla narrazione di essere univoca, facendo in modo che chi legge non trovi nel racconto nulla più che la proiezione delle proprie stesse emozioni in una storia che, appunto per questo, non apporterà nulla di nuovo alla vita, all’esperienza e al pensiero del lettore stesso, non ha importanza quanto strano e inconsueto sia il soggetto rappresentato. Il lettore non recepisce il contenuto, recepisce ciò che la forma rispecchia del contenuto, e se questa forma non esiste, o esiste come semplice suono di parole messe in fila senza criterio, senza poetica, non c’è alcun contenuto che possa passare, a meno che esso non sia il risultato casuale – e quindi, forse, controproducente – dell’ordine di sillabe che compongono una frase.
Chiudo qui, amore mio, questa lettera, perché non credo che ci sarebbe comunque qualsiasi possibilità di proseguirla senza sfociare nel banale. In ogni caso, quel poco tempo che avevo è quasi finito, e sento il ticchettio dei minuti che mi picchiettano nelle vene del collo – o forse è il mio cuore, chissà. Non c’è abbastanza silenzio per accertarsene, ma prima c’era, e lo sentivo scandire il tempo, o forse quello strano e inspiegabile concetto di esistenza vissuta a contatto con gli eventi che chiamiamo tempo.
Arrivederci dunque, o addio, amore. Dopotutto non so chi sei, e se anche lo sapessi, potrebbe essere che una prossima lettera, se mai ci sarà, sia rivolta a un altro amore, in un altro tempo, in un’altra forma. E spero davvero che non sarà inutile cercare una singola, breve parola per concludere questa lettera, per non farla sfumare in mediocrità ma darle una chiusura netta, che resti.
Chissà.
 
Mezzanotte
 
  
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