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Autore: altman    21/09/2017    3 recensioni
"Cos’è disegnare? Come ci si arriva? È l’atto di aprirsi un passaggio attraverso un muro di ferro invisibile, che sembra trovarsi tra ciò che si sente e ciò che si può."
(Vincent Van Gogh)
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Mentre indugiava su ogni tratto, ruga, sfumatura, aveva deciso che nient’altro avrebbe più meritato l’attenzione della propria pittura; aveva stabilito che la avrebbe eternamente ricoperta di gloria, imprigionando quella bellezza sfuggente in qualcosa che potesse appartenergli per sempre.
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Questa storia partecipa alla Calippo Challenge indetta dal gruppo Facebook Sasunaru FanFiction Italia.
Genere: Fluff, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ino Yamanaka, Sai, Sakura Haruno | Coppie: Sai/Ino
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la serie
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La Principessa 

Monoespressione 

 

A volte, per spalancare un mondo, basta aprire una porta. 

E pensare che lei era solo stata incaricata dall’Hogake di chiamare il compagno a rapporto. 

Viola dei lillà, azzurro cielo, oro color del grano, rosa madreperla. 

Sakura muoveva i suoi passi incerti, nella stanza ampia e luminosa, investita da quei colori, sempre gli stessi, talvolta più opachi talvolta più brillanti, che riverberavano da ogni superficie di tela bianca che ammiccasse dalla parete cui era infissa. 

Tappezzata, quella camera, da centinaia di dipinti, che fossero tele della dimensione di un centrino o quadri a grandezza naturale muniti di cornice. Tutti aventi lo stesso soggetto. 

-Ho letto che è maleducato, entrare in casa degli altri senza bussare.- 

-Ho bussato, ma non mi hai risposto.- Sakura era troppo basita per trovare una risposta pungente; si era graziosamente lasciata scivolare al suolo davanti al pittore, al momento troppo concentrato sul suo lavoro anche solo per guardarla, e roteava la testa lentamente, stordita, soffermandosi pigramente su ogni effigie cesellata di quel volto che le era tanto noto. 

-Sai, forse dovresti parlargliene…- esalò infine Sakura. 

-Io non so parlare. Io so solo disegnare.- 

Sai continuava, indisturbato, a tracciare le sue linee, indugiando coi chiaroscuri nelle zone d’ombra del volto da lui ritratto; inarcava e poi aggrottava il sopracciglio, assorto, come se quello gli desse la capacita di vedere di più, di vedere oltre. 

Sakura, sconsolata, sperava di trovare il modo di spiegargli che talvolta non basta una tela per vedere oltre, che talvolta per afferrare l’anima di qualcuno bisogna andare materialmente a cercarla, stanarla, prenderla… che talvolta bisogna essere in due, non in uno e un pennello. 

-Allora mostrale i tuoi disegni!- 

Sai rimuginò su quella proposta, racchiudendo le dita intorno al mento. 

-Penserebbe che sono strano.- 

-Ma tu sei strano.- 

-Penserebbe che sono un maniaco.- 

-Forse sei anche quello.- 

Sakura fece una linguaccia all’espressione crucciata dell’amico, e portò una mano a scompigliargli i capelli finissimi. 

-E tu dispensi consigli d’amore dall’alto di una felice e vittoriosa esperienza sentimentale?- Sai si pentì di quell’osservazione maligna prima ancora di finire la frase, e si morse la lingua. Era difficile rifuggire dall’istinto, quello inculcatogli dalla nascita, di allontanare le persone, anche adesso che non ve ne era più la necessità. 

Sakura sospirò, paziente, per concentrare infine la propria tristezza in un sorriso stanco, che gli regalò confezionato in un’espressione comprensiva e tenera. 

-La finirai mai, quando ti senti alle strette, di farti male cercando di ferire gli altri?- 

-Scusa, Sakura. Ho letto che le persone quando sono in difetto diventano aggressive; deve essere per questo.- 

-Io non l’ho letto, ma l’ho sperimentato. Ed è vero, funziona così. L’unica soluzione è far qualcosa per migliorare la propria situazione.-

-E tu pensi che la mia situazione debba essere migliorata?- 

-Penso che la situazione di chiunque che, in tempo in pace, non abbia niente di meglio da fare che chiudersi nella propria stanza, notte e giorno, a sfornare ritratti della persona amata da lontano, debba essere migliorata.-

-Sei stata molto chiara.- 

Sai annuiva, serio, meditando asceticamente su quei consigli insperati. Forse stupidamente, ma non aveva mai neanche considerato l’ipotesi di farsi avanti, di fare qualcosa di concreto per conoscerla meglio. In realtà, lui neanche si sarebbe definito “innamorato”. Certo, aveva letto dell’amore, ma ogni definizione che aveva trovato di esso era talmente sfuggente, incorporea, da fargli pensare che non avrebbe mai potuto riconoscersi in qualcosa di così indefinito e metamorfo. 

Lui sapeva solo che lei, un giorno, era diventata la cosa più bella che avesse mai visto. Che quando l’aveva ammirata stagliarsi sul campo di battaglia, ferita ma con gli occhi brillanti come le stelle, coi capelli dorati come la grazia che forse sarebbe scesa su di loro, non aveva più avuto il controllo del proprio cuore, che aveva accelerato come impazzito. Era coperto di sangue, proprio e altrui, di ferite, lividi, abrasioni, distorsioni. Aveva la terra in bocca e le dita sanguinanti, dopo aver disegnato per ore a velocità sovrumana, a causa dell’attrito che provocava lo sfregamento col pennello. Il chakra lo stava abbandonando, scagliandolo in un torpore soffocante che gravava su di lui come una cappa, impedendogli di muovere anche un solo dito. Eppure non era riuscito a reprimere un sorriso; si era ridestato dall’abbandono in cui la debolezza lo stava affogando quando quel calore inatteso era giunto, potente come una fiamma, a incendiargli le vene, a toccare corde di sé di cui lui non aveva mai udito neanche il suono. Qualcuno lo stava suonando, per la prima volta con vigore, percuotendo l’anima di Sai a un ritmo sconosciuto. La melodia che ne era uscita non era qualcosa di etereo, di grazioso come gli avrebbe suggerito la figura leggiadra che aveva ammirato sul campo di battaglia, che lo aveva stregato con la propria seduzione femminile e determinata; era piuttosto un rullo di tamburi ancestrale, atavico, una durezza temperata da un eco ovattato, lo stesso che produce la pelle del tamburo dopo che è stata percossa. Frenesia e passione, stordimento e paura, la malìa che lo aveva guidato a una fonte sconosciuta di sconvolgimento, lasciandolo con l’unica speranza di trovare in quell’irresistibile attrazione dolcezza e non crudeltà. 

E così lo shinobi, con le proprie ultime energie, annebbiato, si era trascinato fino a lei, inciampando nell’ultimo metro sui suoi stessi passi e lasciandosi cadere addosso alla giovane donna che ancora gli dava le spalle. 

Lei si era girata, allarmata, afferrandolo e sostenendolo, portandogli una mano alla fronte e sgranando gli occhi. Aveva urlato -una voce dolce che faceva presto a diventare prepotente- chiamando aiuto, soccorso; non ricevendo risposta lo aveva steso a terra, chiedendo ad alcuni compagni di farle da scudo, aprendogli la casacca e posando una mano, da cui era scaturito un bagliore azzurrino, sul suo cuore, cercando di infondergli un po’ dell’energia vitale irrimediabilmente perduta in quelle ore di battaglia folle. 

Sai, comodamente steso con la testa appoggiata sulle sue cosce, con quei palmi morbidi e candidi a percorrergli il petto, non aveva sentito neanche più il dolore. Aveva aperto gli occhi e li aveva lasciati indugiare sul viso che, in quel momento, aveva finalmente la possibilità di ammirare da vicino. 

-Sei pazzo? Come ti è saltato in mente di ridurti così? Dovevi farti soccorrere molto prima!- Quando era allarmata la sua voce si alzava di varie ottave, risultando acuta all’inverosimile; non del tutto sgradevole solo per via del rossore adorabile che le tingeva le gote in quelle circostanze. Sai si era chiesto, con un angolo remoto della propria mente, quando avesse registrato quei dettagli. 

-Mi hanno insegnato a combattere senza farmi domande. Devo dire che in questa guerra mi è stato molto d’aiuto.- 

Lei aveva ansimato, abbandonando il capo, spossata da quell’operazione. 

-Non sforzarti troppo.- le aveva sussurrato con dolcezza, sollevando un palmo per farlo passare su quella pelle di porcellana. 

Lei lo aveva inchiodato con uno sguardo furioso, elettrico, scansandogli la mano brusca. 

-Non distrarmi e chiudi il becco. Intendo salvarti la vita, almeno cerca di non ostacolarmi. Lo decido io quando è abbastanza.- 

“Mi fiderò di te, strega” aveva pensato Sai, abbandonandosi serenamente alla propria contemplazione. Mentre indugiava su ogni tratto, ruga, sfumatura, aveva deciso che nient’altro avrebbe più meritato l’attenzione della propria pittura; aveva stabilito che la avrebbe eternamente ricoperta di gloria, imprigionando quella bellezza sfuggente in qualcosa che potesse appartenergli per sempre. 

-Sei bellissima.- Non si era accorto di averlo detto ad alta voce. Lei neanche lo aveva udito, assordata dai clamori e dalle urla che li circondavano, ma era stato con dolcezza che gli aveva carezzato i capelli, come se una parte remota di lei lo avesse ascoltato, compreso. 

-Ino, mi hanno detto che avevi bisogno di aiuto!- la voce di Nara aveva fatto scoppiare quella bolla, inserendosi prepotentemente in quello strano silenzio, tutto loro, che era sopravvissuto anche in mezzo al frastuono. 

-Sì, sì Shikamaru! Aiutami, dobbiamo portare Sai da un medico. Ha consumato troppo chakra. Ho fatto quel che potevo, ed è fuori pericolo, ma ha bisogno di cure appropriate.- 

Sai si era sentito sollevare; appoggiato a Nara, aveva visto il volto di Ino allontanarsi, e si era ritrovato a maledire quell’aiuto inatteso. 

Quella guerra crepitava di minacce; la morte aveva bussato in poche ore alle porte di ognuno di loro. Una di quelle situazioni in cui si valicano i propri limiti: Sai si era ritrovato a pensare che l’avrebbe fatta sua. 

 

-Comunque, sono molto belli…- lo riscosse la voce esitante di Sakura, che si era alzata per ammirare da vicino i ritratti di Ino. 

-Ho letto che quando qualcuno comprime le labbra, dopo aver detto una cosa positiva, è perché vorrebbe aggiungerne un’altra negativa, vera ma impronunciabile.- 

Sakura scosse il capo, divertita, soffocando un risolino nel palmo della mano guantata. 

-Saresti un ottimo psicologo, se solo ti decidessi a sollevare il naso dai libri e a puntare gli occhi sulle persone.- 

-E invece sono uno shinobi, e quando punto gli occhi sulle persone è per combatterle.- 

-O per amarle.- chiosò Sakura -Non potresti aver dipinto Ino in questo modo, se non avessi passato ore a osservare ogni millimetro di lei. È impressionante. Quasi agghiacciante, in realtà. Ti prego, non fare lo psicopatico con la mia miglior nemica, e non farla a fette.- 

Sai si concesse una risata distesa, pensando a quanto, in effetti, la sua stanza potesse sembrare quella di uno psicopatico con una spiccata tendenza per le bionde. 

-Dunque è questo che non ti convinceva, prima?- 

-No.- ammise Sakura, arresa, curvando le spalle -Questi disegni sono bellissimi, e pieni di quel sentimento che non riesci a esprimere a parole. Ma c’è qualcosa di sbagliato: in tutti, Ino ha la stessa espressione. Sembra che tu le abbia fatto una fotografia e stia cercando di riprodurla all’infinito. Lo so che molti artisti si fissano su un unico soggetto, per dedicarsi solo a quello. Ma quel soggetto lo puoi vedere da diverse angolazioni, prospettive. Tu ne stai usando solo una. È… limitante.- 

Sai annuì. 

-Perchè è un fotogramma quello che ho stampato in testa. Come la definiresti, questa sua espressione?- 

-Conosco Ino, e questa è l’espressione che aveva in uno dei momenti più importanti che abbiamo condiviso: il nostro combattimento agli esami dei chunin. È la Ino determinata, concentrata, forte. Ma, come sempre, c’è uno sfondo di malinconia nei suoi occhi; credo non le sia mai piaciuta la violenza, in fondo.- 

-Questa è l’espressione che aveva durante la Guerra. Mi ha colpito, e non sono riuscito a pensare ad altro. Come vedere un narciso rivestito d’acciaio.- 

-Se tu le ripetessi queste parole, si scioglierebbe, vanitosa che non è altro.- rise Sakura, tornando poi subito seria mentre posava gli occhi sulle labbra strette di Sai, su quegli occhi nerissimi che adesso erano fissi nei suoi, sgranati, in cerca di risposte. 

Sai era un combattente esperto, un agente speciale della Radice; aveva commesso azioni spietate e crimini efferati, aveva attraversato oceani di disperazione su di una fragile zattera d’inchiostro. Eppure, in quell’istante, agli occhi di Sakura il suo amico era tornato bambino, bisognoso di comprensione e protezione; la kunoichi lo avrebbe abbracciato, stringendoselo al petto, sussurrandogli che adesso sarebbe andato tutto bene, che anche lui poteva permettersi di provare sentimenti, che il mondo non era sterile come Danzo lo aveva prospettato, riducendolo a una bidimensionalità in bianco e nero. 

Gli si avvicinò con cautela, passandogli le braccia intorno alle spalle, sfregando piano la guancia alla sua; Sai sospirò, vinto da un affetto anelato e mai cercato, e posò delicatamente le mani sui fianchi di Sakura. 

-Lo senti, quanto può essere piacevole un contatto?- gli chiese, tenera -Questo non lo troverai mai in un libro. Nessuno che saprà spiegarti qual è l’essenza più profonda di un abbraccio. Chiudi gli occhi, e senti quanto è bello. Riesci a immaginare, adesso, come sarebbe se tu tenessi Ino tra le braccia? Se tu potessi sfogare quello che senti sulla pelle di una persona, piuttosto che su un foglio bianco?- 

Sakura sorrise, quando sentì l’amico deglutire bruscamente.

Ino lo avrebbe mandato al manicomio. Sakura sperò che l’amica non facesse di Sai un lauto pasto, o che perlomeno si degnasse di sputare le ossa. O forse… o forse, semplicemente, ad impazzire sarebbero stati in due. 

 

*

 

L’impertinente vento settembrino, che soffiava dalla porta lasciata aperta, giocava con quei capelli color dell’oro; Sai strinse le dita a pugno, per resistere alla tentazione di allungare il braccio e appuntarle dietro all’orecchio una ciocca sfuggita. 

-Un mazzo di narcisi.- chiese atono, dopo aver cercato invano di modulare la propria voce affinché uscisse carezzevole. 

Ino non sembrò badare alla sua apatia: con la solita vitalità si diresse verso dei vasi disposti in un angolo del negozio, sfiorando le corolle e scrutandole per selezionare i fiori più belli. Sai aveva seguito, ipnotizzato, il movimento sinuoso dei fianchi che avevano dondolato ad ogni singolo passo della ragazza. 

-Di solito alle ragazze si regalano le rose.- gli suggerì lei, ammiccando -Ma i narcisi sono una scelta interessante. A me piacciono molto.- 

-In un libro ho letto che significano anche “amore non corrisposto”.- 

-Oh… soffri per amore?- chiese la ragazza sgranando gli occhi, complice e divertita alla sola idea che l’impassibile shinobi potesse patire le pene del cuore. 

-No… non… soffro. Credo.- 

Ino lasciò da parte i modi ridanciani e sorrise, commossa, posando gli occhi sull’espressione di Sai: un dubbio tormentato, troppe domande su di sé a cui non v’era risposta. Ino lo capiva bene: per molti anni si era chiesta chi lei fosse, cosa volesse, chi potesse diventare; domande forse molto diverse da quelle che adesso si trovava a porsi Sai, ma che in comune con le sue avevano avuto l’assenza di una risoluzione. 

-Non sei ancora riuscito a conciliarti con quello che provi, Sai?- gli chiese, cauta. 

Lo shinobi sospirò, passandosi una mano sul volto. 

-Non so come si fa.- 

-Devi procedere per via empirica.- asserì Ino, decisa, mentre finiva di raccogliere i fiori scelti in un bouquet ordinato -Fare esperienze. Nessuno ti ha insegnato il significato di certe cose, ma puoi ricostruirlo da solo. Fa’ quello che ti rende felice, e soffermati su quello che senti in quel momento. Vedrai che col tempo saprai dare alle cose il giusto nome.- 

Ino sussultò quando sentì la propria mano stretta nel guanto di pelle di Sai. Lo guardò, confusa; c’era solo quel mazzo di fiori tra di loro, ancora stretto nella mano libera di Ino, abbandonata adesso verso il suolo. 

-La tua mano è bianca, delicata.- commentò Sai, studiando le dita della ragazza con dedizione -Eppure io l’ho vista scagliare colpi feroci, prendere vite.- 

-Beh, tecnicamente i nostri nemici erano tutti già morti.- 

-Ma i loro corpi erano caldi. La sensazione, colpendoli, non era certo quella di ferire un fantasma.- 

-Se è questo che mi stai chiedendo, sì, ucciderei, sì, l’ho già fatto. Era per la pace, forse, ma la morte di qualcuno resta tale, non è lo scopo a cambiarne l’essenza.- 

-Non volevo turbarti.- 

A Ino iniziava a girare la testa. Sai poteva sembrare tante cose; inarrivabile, prima di tutto. Quando l’aveva conosciuto, Ino ne era rimasta affascinata per la somiglianza che glielo aveva fatto associare a Sasuke. Ma, col tempo, la kunoichi aveva capito tante cose: che l’amore per Sasuke era un capriccio d’adolescenza, quando aveva visto il vero amore nello sguardo disperato, folle, che Sakura aveva fissato su Uchiha, quando lui era comparso improvvisamente sul campo di battaglia; che Sai non era come Sasuke: era, se possibile, ancora più oscuro, insondato, l’abisso di un enigma senza fondo -Sasuke era stato mosso da un odio spietato, ma comprensibile; i motivi di Sai invece erano ignoti, i suoi processi mentali anche… semplicemente impossibile, immaginare cosa si celasse dietro quelle iridi nere come il petrolio, discernere i sorrisi dalle maschere di cera-; infine, che lei non era come Sakura, che il proprio egocentrismo avrebbe sempre bussato alla porta, che lei non sarebbe stata capace di soffrire così per amore perché ne sarebbe uscita annientata, piuttosto che fortificata come la sua amica. E Sai sembrava proprio il tipo di persona che il cuore te lo strappa, per poi divorarlo con un sorriso garbato a increspargli le labbra. 

Ma adesso lui era lì, nel suo negozio, a comprare un mazzo per cui tuttavia non sembrava nutrire molto interesse; era lì a esporre i propri dubbi, drammi, a mostrarle un’intimità preziosa perché custodita da ogni sguardo. Ino si sentiva come chi ammira una perla, ancora incastonata nell’ostrica che era stata, fino a pochi secondi prima, ermeticamente chiusa. E quella perla brillava, oh sì se brillava, anche se il bagliore che emanava non rilasciava la luce, piuttosto l’aveva già assorbita tutta: nera. 

Ino, persa, si riscosse quando la mano del ragazzo le si posò, gentile, sulla guancia. 

-Sei così bella che ho paura di toccarti.- 

Se in bocca a qualsiasi altro quella frase sarebbe parsa dolce, tra le labbra di Sai era una constatazione, scientifica quasi, sacra nella sua sincerità disinteressata. 

-Fallo lo stesso.- 

Ino chiuse gli occhi, quando Sai portò anche l’altra mano a racchiuderle il viso. Non aveva il coraggio di dirglielo, ma lei non si era mai sentita così bella come in quel momento, in cui lui la stava accarezzando con adorazione. Si sentiva immortale, come le opere che un artista consacra al tempo. 

-Ho una domanda per te, Ino.- 

-Dimmi.- sorrise, Ino, pensando che solo Sai potesse avere voglia di chiacchierare in un momento del genere. 

-Dipingo.- 

-Lo so. Tutti lo sanno. Anche quelli degli altri villaggi.- 

-Ma credo di non essere bravo.- 

-Tu sei bravo. I tuoi disegni sono bellissimi.- 

-Credo di… non saper cogliere le espressioni.- 

-Spiegati.- 

-Ho un soggetto. Un bel soggetto. Molto… vivo.- 

-Beh, è già un passo avanti, sarebbe stato strano anche per te dipingere i morti.- rise Ino, interrompendolo -Oh, scusa, non volevo fare la scema. Continua, era importante.- 

-Sì, a volte fai un po’ la sciocca.- concordò Sai, continuando il discorso troppo velocemente perché Ino potesse offendersi -Dicevo: è un soggetto con mille sfumature, ma io non riesco a coglierle tutte. Solo una. Quando dipingo, questo soggetto ha un’unica espressione.- 

-Forse non è il caso di chiedere consigli a una sciocca.- sbuffò Ino, che a quanto pare invece aveva avuto tutto -l’esiguo- tempo necessario a offendersi. 

La kunoichi cedette, tuttavia, allo sguardo triste che Sai aveva puntato al suolo: quello di chi si rende conto di sbagliare continuamente con le persone, e dopo tanti anni insiste nel chiedersi il perché. 

-Io… non ne so molto d’arte, o di pittura.- esordì lei, titubante -E non leggo libri in argomento, come sicuramente invece fai tu. Ma, a istinto, ti direi che per dipingere qualcosa devi prima averlo fatto tuo. Per ritrarre l’espressione di qualcuno non devi solo aver osservato, ma devi aver portato quell’immagine nel cuore. Aver empatizzato. Se ti concentrerai su altre espressioni di questa persona, poi ti verrà naturale disegnarle. Forse non devi osservare solo con gli occhi, e lasciarti un po’ anda…- 

Lasciarsi andare. Un ottimo consiglio, che Sai mise in pratica senza neanche aspettare che Ino finisse la frase. Lo shinobi si avventò su quelle labbra aperte, invitanti, soffici; era il suo primo bacio, ma quello non gli importava poi molto. L’unica cosa a cui riusciva a pensare era la consistenza: a occhi chiusi, poteva affidarsi solo al senso del tatto. Passava le mani sui fianchi della ragazza, sull’addome dai muscoli compatti anche se appena accennati, sulle braccia esili. Non le era mai stato abbastanza vicino da cogliere il profumo dei suoi capelli, fruttato, garbato. Con la lingua insisteva su ogni piccola screpolatura, gonfiore di quelle labbra rosee; premeva la bocca sulla sua, sperando di essere in grado di non scordare quel sapore nuovo. Un’altra di quelle cose che un libro non avrebbe potuto descrivergli mai. 

Gli occhi di Ino, nel guardare Sai che si chinava su di lei, si erano sgranati; le iridi azzurre si erano sciolte in una lucentezza liquida, brillante, che sembrava raccogliere nei propri riflessi tutte le sfumature dei petali odorosi che li circondavano. I fiori le erano scivolati di mano, e lei gli aveva stretto le braccia intorno alla vita, cogliendolo di sorpresa, convincendolo a stringerla senza più timore di turbarla.

Fu con un poco di rimpianto che Sai si staccò da lei; aprì gli occhi, lento come se si stesse svegliando da un sogno, levando una mano in alto a proteggersi il volto. 

-Che fai?- chiese Ino, studiando il gesto insolito. 

-Ho letto in un libro che le donne prendono a schiaffi chi le bacia senza preavviso.- 

Imbarazzata ma divertita, Ino mostrò una serie di denti bianchissimi nella risata spontanea che seguì. Una risata che le tinse le gote di un inaspettato rossore. 

-Vero.- concordò -Ma solo quando si tratta di baci indesiderati.- 

 

 

Le spalle magre, tese per la posizione scomoda: appoggiata al bancone del negozio, protesa verso di lui. Gli occhi placidi, animati da un dolce segreto che gli era sempre stato sconosciuto, ma che lei sembrava invece conoscere perfettamente, abbastanza bene da insegnarlo anche a lui. Il riflesso della luce, che le aveva abbracciato il seno florido come il più tenero degli amanti; Sai lo aveva riprodotto con pennellate bianche, larghe e sinuose, amorevoli. La piega delle labbra, distesa, accentuata quel tanto che bastava per colmare di complicità quella curvatura. La pelle candida resa viva dal rossore, le lunghe ciglia che proiettavano ombre sugli zigomi, le dita esili cui si era appoggiata mentre lo fissava. Aveva guardato lui. In quel modo. Tutto quello, era stato solo per lui. 

Sai contemplava, soddisfatto, il suo ultimo lavoro; il più prezioso: unico. 

Oh, sì, era riuscito a raffigurarla con una nuova espressione, che Sai prima di allora non aveva mai visto: quella di dolce rapimento, un tesoro che ora sentiva di poter custodire lui soltanto. 

L’aveva fatta propria, quell’immagine, prima scolpendola sul cuore e poi tracciandola sulla tela; ogni volta che avesse voluto, avrebbe potuto ammirare nuovamente quel dipinto, quel sorriso incantevole. 

Ma… forse, sì, forse c’era qualcosa di meglio ancora… 

L’avrebbe rivista, loro due da soli. Sarebbe partito nuovamente per quell’avventuroso viaggio che era la scoperta di un altro essere umano: adesso che si era permesso di avvicinarsi a qualcuno, la lontananza sarebbe stata insopportabile. 

Del resto, poteva dirsi già che avevano un mezzo appuntamento. 

Sai ripensò al modo in cui si erano congedati: lui, sopraffatto, l’aveva allontanata rapido ed era indietreggiato, con un sorriso -forse un po’ malsano all’apparenza, a dire il vero- … ed era praticamente corso verso l’uscita, terrorizzato dalle implicazioni di quella nuova, enorme scoperta. 

-Aspetta, i tuoi fiori!- gli aveva urlato lei, contrariata nel vederlo scappare da lei come un Oni da un rosario -“ferita”, sarebbe stato il termine che avrebbe usato una persona più sensibile agli stati emotivi altrui-. 

-Tanto erano per te!- aveva risposto un ansimante Sai in fuga mentre si fiondava in strada.

Quello valeva come richiesta di un appuntamento, giusto?

E poi, nei libri c’era scritto che alle donne piacevano gli uomini sfuggenti. Ebbene, dopo esserle sfuggito, lui sarebbe tornato indietro per riprendersela. 

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Note dell’autrice monotrimestredipubblicazione: 

Era davvero da molto tempo che non pubblicavo qualcosa che non fossero gli aggiornamenti -e, pure quelli, sporadici-della mia long. 
Mi era mancata la sperimentazione, il tentare con personaggi sempre nuovi. 
Questa storia partecipa alla Calippo challenge del gruppo Sasunaru Fanfiction Italia -che ringrazio, come sempre, per le sue mille iniziative dispensatrici d’ispirazione-; pertanto avevo un prompt di partenza, ovvero il titolo “La Principessa Monoespressione” -e ringrazio tratrin per averlo proposto: è stato amore a prima vista-.
L’idea originaria era completamente diversa -riguardava Tobirama, figuriamoci-, ma… ma poi questo. La coppia mi ha sempre intrigata, e l’idea mi piaceva troppo. 
È una cosetta piccola piccola, ma spero vi sia piaciuta, e di non avervi straziato con il mio “cuor di metafora”… quando si tratta di certi temi mi faccio prendere un po’ la mano.
Grazie per esser passati di qui,
Altman <3

 

 

 

 

   
 
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