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Autore: Hatred    21/09/2017    3 recensioni
Tu non potevi capirmi, perché eri troppo presa dall’essere te per poter capire cosa volesse dire essere me.
Genere: Angst, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kogane Keith, McClain Lance, Un po' tutti
Note: AU, Raccolta | Avvertimenti: Gender Bender
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Note dell’autrice: Non mi nasconderò dietro a un dito.

Sto leggendo “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore”, di un autore culto che risponde al nome di Raymond Carver. È una raccolta di racconti il cui titolo originale è, non proprio a caso, “What We Talk About When We Talk About Love”.

Senza alcuna pretesa, ho voluto fare un esperimento e provare a scrivere qualche racconto simile ai suoi. Di quelli che sembrano parlare di nulla, di vite svuotate da qualsivoglia entusiasmo e significato, ma in cui finisci per calarti. Racconti in cui compaiono righe che sembrano rivelare qualcosa e che ti lasciano sospeso in quel limbo in cui pensi di aver capito, ma forse non hai capito niente.

Il racconto numero uno, quello che compare qui sotto, è in realtà molto ibridato con il mio stile di scrittura. Se il miracolo dell’ispirazione vorrà permettermi di finire il racconto numero due, ecco, forse spiccherà di più la vaghezza e la resa all’inesattezza tipica di Carver (o meglio: del suo editor Lish, ma questa è parentesi che non vale la pena spiegare in queste note). Vaghezza e inesattezza che non sento assolutamente mie, ma che penso siano un ottimo esercizio, oltre che un piacevole passatempo.

Se vi piacerà, anche solo in parte, questa storia, spero di convincervi a dare un’occhiata ai racconti di Carver, se ancora non li conoscete.

 

 

«What We Talk About When We Talk About Love»

 

  1. il ribelle e quella stupida ragazza carina

 

Io vestivo di nero e di grigio. Sulla mia pelle pallida, mi facevano sembrare ancora più bianco. Mi piaceva il contrasto. Una bandana rosso sangue era l’unica punta di colore che indossavo volentieri. Sottolineavo la forma allungata dei miei occhi scuri con sfumature di ombretto nero. Tu mi prendevi in giro perché dicevi che era una cosa da donne e che infatti io non me lo sapevo mettere. Ti proponevi di mettermelo tu. Io non ti facevo avvicinare.

Eri diversa da me. Eri tutto l’opposto. La pelle abbronzata anche in inverno, gli occhi blu intenso. Esplodevi di colori, ma preferivi il blu e l’azzurro. Mettevi cappellini e guanti in tinta in inverno e cappelli a tela larga e vestini in estate. Parlavi troppo. Facevi chiasso. A me è sempre piaciuto il silenzio, soprattutto se non si trovava nulla d’interessante da dire. Tu invece parlavi sempre, parlavi a raffica, parlavi di cose mondane, come se la tua realtà finisse lì, come se volessi illuderti che fossero cose vere: la scuola che andava male, l’acquisto di uno smalto, l’uscita di un nuovo fumetto.

Io vivevo per la musica e scrivevo canzoni. Riflettevo sulla metrica, sui versi delle parole, sui suoni. Mi astraevo e pensavo di essere bravo. Alcuni si sono convinti che lo fossi davvero.

Tu non capivi niente di musica. Passavi dall’ascoltare canzoni davvero brutte a musica che ha fatto la storia, senza capire alcunché né dell’una, né dell’altra cosa. Ascoltavi ciò che ti piaceva, dicevi. L’attività più vicina all’arte che praticavi era la fotografia. Avevi iniziato con una compatta che ti avevano regalato per il sedicesimo compleanno. Me lo ricordo perché quella notte, mentre la festa proseguiva, ti eri chiusa in camera con un ragazzo. Il giorno dopo mi hai detto che era stata la tua prima volta e che non ti era piaciuto.

Tenevi la macchina fotografica tra le dita e guardavi la realtà prima direttamente, poi con l’obiettivo, con fare quasi professionale. Forse, se avessi frequentato corsi migliori, saresti diventata brava davvero.

A volte, venivi a fare qualche scatto a tradimento nel mio garage, mentre suonavo con i miei amici. Facevi anche la civettuola, soprattutto con Shiro. Io mi arrabbiavo moltissimo e cercavo di mandarti via, ma per te non era un impegno fingere di andare per tornare più tardi, perché abitavi nel vialetto accanto.

Così diversa, così lontana da me e così vicina. Ti ritrovavo ovunque: a scuola, sui mezzi pubblici, sul vialetto che portava alle nostre cancellate.

Avevi una famiglia numerosa e rumorosa come te. Tua madre a volte si lamentava del metal e dell’emo-core che suonavamo in garage, ma quando sgridava i nipoti, la sentivo da camera mia, anche a sera tarda. Mi stava sulle palle. Mi stava sulle palle perché sentiva la musica ma non le urla di mio padre. Mi stava sulle palle perché era una madre ed io una madre non l’avevo mai avuta. Mi stava sulle palle perché ti amava. E mi stavi sulle palle pure tu, perché avevi una famiglia perfetta ed eri viziata.

Io ero diverso. Mia madre era sparita prim’ancora che potessi sviluppare ricordi e mio padre era un alcolizzato. Tu eri quella che aveva visto il declino della mia vita senza comprenderlo. Io ero un diverso. Tu eri come tutti gli altri. Portavi alle prove di musica limonate e biscotti fatti in casa insieme a moine per portarti a letto i miei amici. Dicevi che non potevi studiare perché dovevi accudire i tuoi nipoti. Facevi lavori di merda per vendere prodotti di merda facendo leva sul tuo corpo, che era molto magro e slanciato (sei sempre stata più alta di me e anche questo mi stava sulle palle).

Tu non potevi capirmi, perché eri troppo presa dall’essere te per poter capire cosa volesse dire essere me.

Di questo volevo illudermi.

Riempivo i fogli dei miei quaderni stropicciati di canzoni sulla solitudine e sull’ingiustizia. Scrivevo quanto fosse sbagliato basare i fondamenti del nostro stare insieme sulla famiglia, perché chi non ce l’ha non può che vivere da esule, ovunque egli sia, per tutta la vita.

Ma quando Haxus iniziò a spintonare Slav e a prenderlo in giro perché era nano, fosti tu a scalzare gli studenti che sghignazzavano ai bordi dei corridoi per metterti in mezzo e urlargli di smetterla. Una rabbia cieca mi assalì quando lui ti afferrò con forza per un polso e ti chiamò puttana. Gli diedi un pugno solo per quello.

Avevi come amica Hannah, che era nera e grassa, e Pidge, che sembrava una ragazza e invece era un maschio. Prendevano in giro anche loro. Prendevano in giro pure te, perché ti sforzavi di essere carina e famosa, e invece per loro eri solo una sfigata.

Ho ripensato molte volte a questi momenti. Prendevano in giro i tuoi amici perché erano diversi e forse eri diversa anche tu.

Ma poi, diversa da cosa?

Ho capito troppo tardi che eri diversa per me.

È stato quando, finito il college, hai detto che avevi comprato un biglietto di sola andata per l’Europa.

Spesso raccontavi di come te ne volevi andare. Raccontavi di come ti saresti trasferita a Parigi e di come lì avresti aperto uno studio fotografico. Ma tu parlavi sempre tanto. Se un giorno la destinazione era la Francia, il giorno dopo era Berlino, poi Barcellona, o ancora Roma. Cambiavi luogo con la stessa facilità con cui ti innamoravi. E così come i tuoi amori, ero convinto che anche quei viaggi sarebbero stati belli solo nella tua testa e che la realtà ti avrebbe riservato altrettanti fallimenti.

Su quel biglietto, “Barcellona” c’era scritto davvero. Me lo mostrasti sullo schermo del cellulare.

Avrei voluto prenderlo e sbatterlo per terra.

Mi colse un vuoto che non avevo mai sentito e lo colmai con la rabbia. Ti vomitai addosso un fiume di parole. Ti dissi che non eri brava abbastanza per farti una vita in Europa, che non eri in grado di badare a te stessa. Stupida! Come puoi lasciare una famiglia come la tua, tu che hai la fortuna di averla? Cosa credi di fare? Di avere il mondo a portata di mano? Non è così, il mondo ti schiaccerà, non riuscirai a fare nulla e con la coda tra le gambe tornerai qui, in questo orrido buco di culo in cui non succede un cazzo, oppure resterai là facendo la puttana perché, d’altra parte, che altro sai fare?

Tu ascoltasti tutto, senza dire nulla. Normalmente avresti risposto, mi avresti sbraitato contro, avresti montato un teatro da tragedia antica e mi avresti tenuto un broncio come quello disegnato nei fumetti che leggevi ai tuoi nipoti. Non ti avevo mai visto così arrabbiata. O forse delusa. Non mi era mai pesato così tanto il silenzio.

Dicesti soltanto: “Io me ne vado. Addio, Keith”.

Nessuna parola di troppo. Solo un’asciutta descrizione dei fatti.

Te ne andasti.

Io non capii bene quello che era successo. Non compresi ciò che avevo detto, né perché l’avevo detto, men che meno gli effetti che le mie parole avevano avuto. Riuscii a riflettere soltanto la sera, dopo che dalla mia stanza sentii mio padre ubriaco urlare alla televisione fino ad addormentarsi.

Ti avevo detto tutte quelle cose perché non riuscivo a credere che saresti partita davvero. Non lo volevo. Ma tu l’avresti fatto lo stesso, forse non ti avrei rivista mai più.

Sentii di nuovo il vuoto che provai quando vidi il tuo biglietto.

Scrissi su un quaderno “oggi se n’è andato il sole” e scoppiai a piangere.

 

*

 

Sono passato per la vecchia casa, questa mattina, ed ho incrociato tua madre. Mi ha detto che oggi saresti tornata. Non ti ho più sentita da allora, non ho neanche provato a cercarti.

Ho risposto a tua madre cortesemente ma ho pensato “non mi interessa”. Poi mi sono ritrovato in un bar, a riempirmi di birra per lasciare che il tempo passasse senza allontanarmi troppo da quel maledetto vialetto.

Ogni tanto sono uscito dal bar e ho camminato lungo le strade della mia adolescenza. Cazzo, sono passati vent’anni da quando mi sono trasferito. Ho considerato ciò che è rimasto uguale e ciò che invece è cambiato: da quella casa che prima non c’era, alla palizzata tutta dipinta, alla villetta un tempo ben tenuta che ora cade a pezzi.

Sono andato via due anni dopo il college. La band che da giovane avevo fondato con Shiro aveva iniziato ad avere un discreto successo ed avevamo inciso due dischi. Ma più cresceva la fama e più Shiro capiva di non riuscire a starci dentro: lavorava già come professore di astronomia ed aveva un figlio piccolo a cui voleva stare vicino. “Ve la caverete anche senza di me”, diceva, ma non era vero un cazzo, io senza di lui non sono mai riuscito a combinare niente. Lui ha lasciato e la band si è sciolta un anno dopo.

I soldi che avevo maturato con i primi dischi li ho spesi in alcol e puttane. Tutti. È stato un periodo di merda. Mi sono pure sposato. L’ho detto, che è stato un periodo di merda. Mia moglie ha chiesto il divorzio dopo due anni. Poi mi sono detto: “basta cazzate”. Ora suono in locali più o meno squallidi con un nuovo gruppo.

Ho anche affittato la mia vecchia casa, l’unica cosa che mi ha lasciato mio padre. È morto sei anni fa. Non ho versato una lacrima: ci ha messo anche troppo, a morire. I soldi dell’affitto fanno comodo, quando la gente paga. A volte non lo fa, ed io torno per controllare perché.

È per questo che ora mi ritrovo qui. È così che ho incontrato tua madre e lei mi ha detto di te.

Qualche anno mi hanno detto che tuo zio è morto. Ho anche saputo ciò che ti ha fatto ed ho pensato che fosse per quello che ti sei sbrigata a comprare i biglietti per andare via, con il tuo bagaglio di progetti incerti. Io non avrei potuto né intuirlo, né immaginarlo: ero giovane, ed ero troppo preso dall’essere me per poter capire cosa volesse dire essere te. L’ho saputo dopo anni, dopo che tuo zio era già morto, quel pezzo di merda. Ha fatto bene, o l’avrei ammazzato io. Avrei ammazzato anche me stesso. A me non avevi detto nulla. Mi sono chiesto il perché e mi sono risposto “perché tutto ciò che lei diceva lo consideravi di poco conto, sempre. Perché tu ti illudevi di essere il ribelle, mentre lei era solo quella stupida ragazza carina”.

Sono le due del pomeriggio, il caldo è soffocante, sorseggio una birra in lattina e faccio un altro giro. Perché non torno a casa?

È proprio mentre me lo domando che vedo un cappello a tela larga chiaro, con delle rose blu. Anche il vestito è chiaro, lungo fino alle ginocchia.

Sorridi alla signora della casa di fronte alla tua: anche lei è sempre la stessa. Non sento cosa vi dite, forse rievocate ricordi.

Ho saputo da Pidge che lo studio fotografico a Barcellona non è andato bene, ma che hai trovato lavoro come organizzatrice di eventi. Non so perché quando ho incontrato Pidge, dopo tanti anni, siamo finiti a parlare di te. Mi ha anche detto che sei socia fondatrice di un’associazione che aiuta ragazzi disabili a sentirsi integrati a scuola, o qualcosa di questo tipo.

Attorno alla tua gonna, stringe i pugni un bambino che potrebbe avere quattro anni. Tu gli passi le dita tra i capelli scuri. Il gonfiore sotto al vestito lascia credere che non rimarrà figlio unico ancora per molto.

Ricordo come Hannah mi fermò lungo il corridoio, il giorno dopo la tua partenza. Mi disse che le avevi confidato di essere innamorata di me e che avresti voluto confessarmelo prima di andartene.

Guardo tuo figlio e cerco di capire, dal suo viso, quali potrebbero essere i tratti del padre. Se in un qualche modo somiglia a me.

Tu, mentre parli alla signora, sorridi.

Dio, eri bella come adesso anche quando sei partita?

Ti volti verso di me, mi vedi e improvvisamente diventi seria. Porto il braccio un po’ dietro la schiena, per nascondere la lattina di birra. Non voglio che tuo figlio la veda, non voglio che tu la veda. Ma sono stupido, perché l’hai già vista. È la nona, forse la decima, oggi. Dovrei pisciare.

Ti prego, non guardarmi così. Vorrei dirti qualcosa, ma non ci riesco.

Una cosa qualsiasi andrebbe bene. Vorrei dirti che mi sei mancata. Vorrei dirti che hai fatto bene ad andare via. Che sono contento che tu sia felice. Vorrei dirti, ora che è troppo tardi, ora che non cambierebbe niente, quanto sei stata importante per me.

Vorrei trovare le parole, ma non me ne viene in mente nessuna. Riesco solo a pensare che mi odio, mi odio da morire.

E rimango così: inerme e muto, schiacciato dal tuo sguardo.

 


  
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