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Autore: nals    22/09/2017    0 recensioni
Spesso ti chiedi come sarebbe respirare altrove, morire in un qualsiasi altro posto che non siano le tue montagne e ti si spezza il fiato.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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L A D R O

 



 
 
Potrebbe cominciare così: il sole rosso all'alba, pressato sulla linea d'orizzonte, visibile per tre quarti o anche no, ché “quand'è così è meglio non guardarlo”.
Tiri via la mano dalle tasche del giaccone fingendo che il ventaglio di dita possa proteggerti dal peso di quella diceria che s'è incollata addosso alla cinquenne bambina seduta sulle ginocchia della nonna.
La ricordi ancora la leggerezza delle sue mani mentre t'intrecciava i capelli la domenica.
Quella pacatezza da cotone chiaro a scivolarti sulle spalle di notte, quando era troppo caldo per dormire coperti, ma giusto un po' freddo da lasciarsi abbracciare.
Macini chilometri tastandoti le coste spioventi con le dita e ingoi saliva e incertezza ad ogni passo, in salita.
Ché il vento è forte, fortissimo e lo senti addosso e lo senti ovunque e... dov'è che son gli appigli?  Un salto giù, ma da quali scogli?
Al di là di quell'altura pensavi non esistesse più nulla. Che tutto si riducesse al netto d'un filo di fusaggine capace, per quanto capillare, di annullare interamente la gradualità cromatica tipica dei paesaggi di mare.
La montagna è imponente ed aguzza, eppure continui ad intravedere della prepotente dolcezza tra tutti quegli spigoli. Spesso ti chiedi come sarebbe respirare altrove, morire in un qualsiasi altro posto che non siano le tue montagne e ti si spezza il fiato.
Ci sei tornata di mattina presto, come sempre, come quando ti vien difficile respirare.

 

 

“È lui, Nina mia. Quello che mi ruba in casa!”
Eri una bimbetta qualsiasi, neanche bionda, neanche bella o chissà cosa.
Avevi quella propensione lì del ritagliarti un angolino e rimanerci, fissando il mondo loro con gli occhi grandi.
Si dice che la consapevolezza la si acquisisca con lo scorrere dei giorni e i pugni in pancia; ad oggi sei sicura che quel genere di consapevolezza lì sia sfumata con il vento, assieme all'oro che avevi nei capelli.
È rimasto solo rame, il rame a strisce che ha inorridito la tua mamma una volta averti saputo (chissà, chissà, chissà) salva.
Eri una bimbetta qualsiasi, sì, neanche bionda, neanche bella o chissà cosa.
D'una testardaggine granitica, ma ponderata, quel giusto da riuscir a concretizzare i “voglio”. Volevi in silenzio, con circoscrizione. Allungavi le dita con decisione e prendevi.
Ti sei fatta grande sgomitando con troppa poca forza, facendoti bastare il tuo di spazio, ché eri buona. Buona.
Chissà che questo tuo dolce e benvoluto accoccolarti tra le braccia della solitudine, ché meglio soli che mal accompagnati, non sarà la tua maledizione. Oh lupacchiotto solitario.
Chissà.





“È lui, Nina mia. Il ladro.”
E lei? Lei quando ricomincerà a chiederti di quel che ti ruberà il cuore, eh?
Che un po' ti manca arrossire e ripetere che “no, non mi farò mai rubare un tubo”.
Eri una bimbetta qualsiasi, neanche bionda, neanche bella o chissà cosa. Ma eri un po' anche sua. E finisce che ci pensi, fin troppo spesso.
Chissà quando ricomincerà ad acciuffarti all'improvviso, pretendendo d'averti seduta sulle sue ginocchia – quasi – fragili; le dita a dividerti i capelli maledettamente troppo corti, ma non per lei, che avrebbe saputo intrecciarteli anche da rasata.
Chissà se ricomincerà, che manco te lo ricordi com'è avere quelle dita tra i capelli.
È quasi certo che quella tendenza, lì, del farsi bastare un angolino e star bene te lo abbia impiantato nel genoma lei.
Ti manca lo “star bene”, in realtà, ma fa nulla. E anche la sua forza. Quella forza lì del riuscir a tirar via una quercia da un germoglino, che era gemma, che era niente.
Vorresti un po' di quella forza lì. Quella forza felpata e, no, non funzionale, vigorosa piuttosto. V'ha intessuto le fondamenta a platea e manco lo immaginavate. Chissà quando ricomincerà a maneggiare i ferri, a tirar le redini, a riportarvi in salvo.
Ché han trascinato via gli ormeggi e le zattere non son piaciute mai a nessuno, manco ai mozzi.
Ma non si può. Non si può. Perché quel vento lì trascina via e basta, non restituisce un cazzo.
“E' lui, Nina mia. Il ladro!”
Le ha rubato la meravigliosa forza di tenervi tutti intorno, le sta fregando un po' alla volta tutte le parole.
Il sorriso però è sempre quello, ma riesce a colorarle solo le guance, agli occhi non ci arriva più.
“È lui, il ladro.”

 

 

 Il ladro è un vento infido che trascina via e basta.
Concede di tanto in tanto un fiotto tiepido, come quel pomeriggio d'inverno in cui s'è messa a cantare “Mamma son tanto felice di tornar da te” e non sapevi più dove rintanarti per evitare di disidratarti della poca acqua che fai fatica a bere ogni giorno.
Non ti sei neanche voltata – non ne hai avuto il coraggio – a cercare lo sguardo di tua madre perché a quel punto non avresti potuto che morire in una pozza d’acqua e sale.
È stato quello l'istante in cui s'è incrinata la sceneggiatura di accettazione che eri riuscita a metter su in poco tempo.
La bestia s'è ribellata.
La convinzione è potente, sa trasformare in pecora un lupo. Le serve solo tempo. Le fauci affilate non è che scompaiano, però. Ancora un po’ di tempo e son destinate a venire di nuovo fuori, ad incidere e sbrindellare la carne. No, non va tutto bene. No, nulla è come prima. Manca della roba. Facciamo un inventario. Presto.
“È lui, Nina mia.  Quello che mi ruba in casa!”
Albano. Albano e Romina non se li è fregati nessuno, però. Non ancora.

 

 

Un giorno t’ha trascinata in mansarda, faceva un freddo matto ma a quella luce negli occhi non sei mica riuscita a dir di no.
“Tanti sacrifici, tanti sacrifici e una casa vuota”, ecco il succo della questione. Ché lei di sacrifici ne ha fatti eccome, sempre di fretta, sempre indaffarata. L’àncora e il motore. Non solo remi ma anche il fuoribordo. L’asso nella manica della famiglia intera.
Lei che in silenzio guidava e costruiva senza lamentarsi, come le formiche.
A che sono serviti, eh, Nina mia? A cosa sono serviti?” A farti del male facendo del bene a noi, nonna?
Lo pensi ma non lo dici. Ché forse è un pensiero scomodo come le sedie in ospedale.
Gli ospedali che ostentano sempre un candore bugiardo, eppure lì di bugie non se ne dicono quasi mai. Non si sprecano sussurri ed omissioni.
C’è altra gente derubata come lei. Tacciono o straparlano. Ma è così che funziona, no?
Vorresti avere il potere di restituire tutto a tutti, anche alla signora che deve buttar giù una capsula con l’acqua gassata – gelata – del distributore al primo piano. Sai spiegarmi com’é che potrei farlo, nonna? Ché io non lo so.
“E questa qui chi è? Chi è questa bella ragazza?”
Quasi quasi ti giri cercando di capire a chi il medico si riferisca, ma poi lei risponde sicura.
“Mia nipote”. Nome compreso.
“E’ giusto?”
Eh, dottore. Albano e Romina non se li è fregati ancora nessuno e a quanto pare il ladro non se l’è sentita di sequestrare neanche me. Non ancora.

 

 

Al di là di quell'altura pensavi non esistesse più nulla. Che tutto si riducesse al netto d'un filo di fusaggine capace, per quanto capillare, di annullare interamente la gradualità cromatica tipica dei paesaggi di mare.
La montagna è imponente ed aguzza, eppure continui ad intravedere della prepotente dolcezza tra tutti quegli spigoli.
Spesso ti chiedi come sarebbe respirare altrove, morire in un qualsiasi altro posto che non siano le tue montagne e ti si spezza il fiato.
Poi però pensi che magari quel giorno non arriverà mai perché non lo saprai mica più quali siano le tue montagne, cosa siano queste montagne o quanto meraviglioso e complesso sia poter respirare.

 

 

 

 
   
 
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