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Autore: Final_Destiny98    22/09/2017    3 recensioni
Accanto al finestrino vi era l’ultimo ragazzo, e sembrava annoiato come lui. Ironia della sorte, era l’unica persona che Luffy ritenesse interessante fra tutte quelle presenti. Saranno forse stati i suoi capelli neri, o il pizzetto dell’ennesimo colore; forse era la linea della sua mascella, forse i due orecchini dorati che pendevano dallo stesso orecchio; o forse ancora poteva essere il suo portamento, quell’aria annoiata che sembrava stargli bene addosso quasi fosse diventata parte di lui. Continuò a fissarlo fino a quando, senza preavviso, quello alzò lo sguardo verso di lui.
Genere: Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Eustass Kidd, Monkey D. Rufy, Roronoa Zoro, Trafalgar Law
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Settembre
Il paesaggio correva davanti ai suoi occhi ad una velocità tale da quasi sembrare diviso in due, sotto e sopra, terra e cielo. Gli alberi erano solo d’intralcio in quello scenario di continua pace, come una macchia su un foglio bianco o una nota suonata male durante una perfetta esecuzione di un’opera. Nuvole bianche sparse nel cielo non avevano alcuna forma nemmeno per chi aveva una fervida immaginazione come Monkey D. Luffy, il ragazzo che stava godendo di quella vista seduto al suo posto nel veloce treno. Il gomito appoggiato affianco al finestrino e il palmo sulla propria guancia, il ragazzo osservava fuori dal mezzo in attesa che questo arrivasse a destinazione. Non era nemmeno partito da molto, in realtà, ma sentiva che di lì a non molto avrebbe iniziato a sentire la noia. Non era quel tipo di persona che riusciva a rimanere ferma e in silenzio per un lungo periodo, anzi: il suo amico Zoro, la persona che sarebbe venuto a prenderlo alla stazione, gli aveva detto più e più volte che rasentava il limite della sua pazienza perché, davvero, riusciva a diventare un vero e proprio bambino. Luffy era solito rispondere che, alla fine, se lui era riuscito a sopportarlo per tutti quegli anni, allora non doveva essere così fastidioso come diceva.
Il paesaggio lineare era appena stato interrotto da una solitaria abitazione, e Luffy sbuffò sonoramente. Vide con la coda dell’occhio la persona seduta davanti a sé guardarlo, per poi tornare a immergersi nella lettura di un quotidiano. Spostando lo sguardo verso di questo, Luffy riuscì a leggere il titolo di prima pagina, ovvero un qualcosa che aveva a che fare con la politica. Non che gli interessasse quella roba: se proprio lo avessero obbligato a leggere un giornale, allora sarebbe andato direttamente alla ricerca di un articolo sul cibo, o anche meglio sui supermercati. In realtà non era nemmeno sicuro che ci fossero, visto che a casa quello che era informato sull’attualità era suo fratello Sabo, non lui. Spostò nuovamente gli occhi vispi sul paesaggio. Non vedeva l’ora di rivederli, Ace e Sabo, i suoi fratelli. Gli mancavano terribilmente e, anche se gli dispiaceva lasciar Coby ed Hermeppo, era assurdamente felice di tornare a Raftel e rivedere le familiari lentiggini di Ace e quel damerino di Sabo. Sorrise senza rendersene conto, mentre l’uomo davanti a sé cambiava pagina del giornale e spezzava il silenzio all’interno della carrozza.
Pigramente, picchiettò con le dita dell’altra mano il bancone del tavolino che aveva davanti. Nella sua mente scorreva la base di Victorious dei Panic! At The Disco, e con le dita cercava di imitarla. Nel momento in cui, però, la donna seduta accanto a lui –bionda, con l’aria di riuscire ad ucciderlo anche solo con lo sguardo nonostante gli occhiali- tossì per attirare la sua attenzione, fu costretto a smettere. Sbuffò nuovamente, portando la mano al suo cappello di paglia e passando noiosamente le dita sulla tesa. Gli occhi color ossidiana vagarono all’interno del vagone cercando disperatamente qualcosa di interessante che lo salvasse dalla noia che, come previsto, lo stava assalendo.
Glielo aveva detto la sera prima Coby di caricare il cellulare. Non solo detto, ma anche ripetuto. Lo aveva ascoltato? Ovviamente no. Quindi in quel momento si trovava in un noiosissimo treno con due ore di viaggio davanti a sé senza assolutamente nulla da fare. Chissà, magari avrebbe potuto leggere il libro che il suo amico Coby aveva insistito col mettere nel suo bagaglio, ma “Luffy” e “leggere” non potevano stare nella stessa frase, a meno che questa non fosse negativa. Aveva accettato solo perché aveva insistito e non aveva nient’altro da mettere oltre a quello. Hermeppo, invece, gli aveva suggerito di portare con sé le sue cuffiette, ma con il cellulare scarico non erano molto utili.
Tornava in città dopo essere stato lontano mesi, eppure se chiudeva gli occhi poteva ancora ricordare ogni singolo luogo con precisione. Si ricordava ancora di quando, all’età di sette anni, correva con i suo fratelli nel parco vicino casa pieno di margherite; si ricordava anche di come i suoi capelli –neri come i suoi occhi- fossero rimasti appiccicati alla sua fronte quella volta in cui erano usciti sotto la pioggia perché non erano riusciti a rimanere chiusi in casa. Sorrise ancora, perché quella volta Makino, la baby-sitter, si era arrabbiata tremendamente e aveva iniziato a inseguirli sotto la pioggia coperta da un assurdo ombrello con delle navi stampate sopra, e alla fine si era divertita anche lei. Era stato a Raftel, durante la scuola, che aveva conosciuto Zoro, e non solo. Poteva dire di aver conosciuto tutti i suoi amici in quel luogo, a partire da lui, che dormiva un’ora sì e l’altra pure in momenti a volte poco indicati per farlo, fino ad arrivare a Brook, che era alto quasi due metri e suonava il violino bevendo tè a quantità industriali. Non che le sue conoscenze si fermassero ai suoi amici: c’erano anche quelli dei suoi fratelli, e poi gli amici di Makino e anche altri che aveva conosciuto col tempo semplicemente perché era una persona socievole e aperta a tutti o, come gli diceva Zoro, era un ficcanaso che si faceva notare fin troppo facilmente.
Diede una veloce occhiata alla schermata del cellulare della ragazza vicina a lui, notando che non era passato poi tutto il tempo che aveva immaginato. Ogni posto di quel vagone era occupato, ma Luffy non poteva vedere ogni singola persona. Al suo tavolo vi erano, appunto, l’uomo e la ragazza bionda. Accanto all’uomo vi era un ragazzo biondo che poteva benissimo passare per il fratello dell’altra. C’erano, agli altri tavoli, persone impegnate nella lettura di un libro, alcuni dormivano; ad un tavolo vi erano una ragazza, due ragazzi e un uomo. Della prima Luffy sapeva solo il colore dei capelli, corvini. Uno dei due ragazzi non riusciva a vedere come fosse, mentre l’uomo –con i capelli biondi coperti da un assurdo berretto con i cuori e una camicia con lo stesso disegno- sembrava perso in un sonno profondo appoggiato comodamente allo schienale del suo posto. Accanto al finestrino vi era l’ultimo ragazzo, e sembrava annoiato come lui. Ironia della sorte, era l’unica persona che Luffy ritenesse interessante fra tutte quelle presenti. Saranno forse stati i suoi capelli neri, o il pizzetto dell’ennesimo colore; forse era la linea della sua mascella, forse i due orecchini dorati che pendevano dallo stesso orecchio; o forse ancora poteva essere il suo portamento, quell’aria annoiata che sembrava stargli bene addosso quasi fosse diventata parte di lui. Continuò a fissarlo fino a quando, senza preavviso, quello alzò lo sguardo verso di lui. Ora Luffy poteva vedere i suoi occhi chiaramente –grigi, taglienti, solcati da occhiaie profonde- e l’altro ragazzo poteva vedere i suoi.
Ora, dal momento in cui gli occhi del ragazzo incontrarono i suoi, Monkey D. Luffy poté constatare che, sì, dall’altra parte del treno vi era un gran bel ragazzo. A occhio sembrava essere più grande di lui –che di anni ne aveva ventuno. Sulle mani aveva due diversi tatuaggi: una lettera su ciascun dito fino a formare la parola “Death” e un simbolo sconosciuto sul dorso delle mani. Si chiese, Luffy, se ne avesse altri. L’inchiostro nero si sposava alla perfezione con la pelle abbronzata, quasi olivastra. Sul tavolo davanti a sé aveva un cappello bianco maculato di nero, sicuramente suo. Andava a esclusione, viso che l’uomo ne stava già indossando uno e non era adatto all’abbigliamento della ragazza. Si chiese perché portasse con sé un oggetto tanto invernale, e soprattutto perché non lo tenesse con le altre cose. Era vero che anche lui ne stava indossando uno, ma il suo era di paglia. Si rese poi conto, sorridendo, che lo portava anche in pieno in inverno sotto la neve bianca, per cui era probabilmente poco indicato per fare un ragionamento di quel tipo.
Il contatto venne spezzato nel momento in cui a interrompere il silenzio fu il pianto di un bambino. Il ragazzo assunse immediatamente un’espressione irritata e Luffy osservò il modo in cui le sue sopracciglia si aggrottavano involontariamente per poi tornare distese quando il ragazzo tornò a guardare fuori dal finestrino.
“Law, mi presti le tue cuffiette?” chiese la ragazza dai capelli scuri.
Si chiamava Law, quindi. Law cosa? Avrebbe voluto sapere il cognome. Sorrise nel vedere Law assumere un’espressione scocciata e fare come richiesto, rendendo evidentemente contenta la ragazza. Sorrise, Luffy, e non lo nascose, così che nel momento in cui i loro sguardi si incrociarono ancora, lui potesse vederlo. Evidentemente quello doveva essere il vagone più caotico del treno, perché dopo il pianto del bambino una coppia cominciò a discutere. Vide Law sgranare gli occhi, e a Luffy venne da ridere. Era proprio una discussione assurda e senza fondamenta, e lo avevano notato entrambi. Si portò una mano alla bocca per coprire le risate leggere, mentre il ragazzo continuava ad ascoltare mentre lo guardava. Appoggiando il gomito accanto al finestrino e voltano il viso verso l’esterno, Law interruppe per la seconda volta il contatto. Prima di imitarlo, Luffy lo guardò ancora un po’ e, poteva giurarci, lo aveva visto sorridere.
-
Se all’inizio del viaggio Luffy aveva immaginato che sarebbe sceso dal treno di corsa, alla fine di questo quasi non voleva farlo. Non che non fosse più felice di rivedere tutti i suoi amici e i suoi fratelli –non stava più nella pelle tanto che aspettava quel momento- ma il viaggio era diventato tremendamente interessante e quasi gli dispiaceva interromperlo. In ogni caso, Monkey D. Luffy balzò giù dal treno con la sua valigia con la stessa leggerezza e calma di un cavallo impazzito, stando attento a non perdere il cappello perché, ovviamente, il laccio che serviva a impedirlo si era rotto e lui non era stato in grado di aggiustarlo. Nella fretta non aveva nemmeno salutato Law; non che si fossero rivolti la parola, ovviamente. Si poteva dire che avessero comunicato con sguardi ed espressioni, anche se era un superlativo per quanto riguardava l’altro ragazzo. Mentre Luffy era rimasto con il gomito appoggiato accanto al finestrino, Law aveva incrociato le braccia e sembrava essersi accomodato per fissarlo. Quasi avrebbe voluto alzarsi in piedi e camminare verso di lui, ma sospettava che non sarebbe stata la mossa migliore.
Oltre a fissarsi, avevano commentato insieme, sempre senza pronunciare parola ovviamente, ciò che era successo all’interno di quello strano vagone. Oltre al fatto che la sua vicina si lamentasse davvero per qualsiasi cosa –e Luffy poteva vedere come gli occhi di Law si innervosissero a ogni colpo di tosse che quella faceva- sembrava che anche le persone accanto a lui non fossero proprio tranquille. In due ore di viaggio, l’uomo dai capelli biondi, che aveva scoperto chiamarsi Rocinante, era caduto dal sedile, aveva quasi preso fuoco giocando con un accendino ed era scivolato andando in bagno. Aveva cercato di trattenersi dal ridere, Luffy, perché poteva sentire nella sua testa la voce di Sabo che gli diceva con fare petulante che non era per niente educato, ma alla fine si era tolto il cappello dal capo e si era coperto il viso nel tentativo di nascondere le risate. Per tutta la durata del viaggio c’era poi stato un uomo al telefono, e stava evidentemente parlando di qualcosa di divertente, visto che la ridarella non accennava a passargli. Il fatto era che il suo modo di ridere irritava talmente tanto Luffy –andiamo, chi è che ride dicendo Shirororoi?- che quasi era balzato in piedi per strozzarlo. Law aveva sgranato gli occhi e guardato fuori dal finestrino, segno che probabilmente la cosa lo divertiva.
In ogni caso, quelle due ore sembravano essere volate. Il paesaggio piatto aveva lasciato il posto alla città, e in seguito il treno si era velocemente infilato nella stazione sotterranea dove, in teoria, Zoro lo stava già aspettando. Spostando lo sguardo, non ci mise molto a trovarlo: capelli verdi, fare annoiato, ovviamente rivolto verso il binario sbagliato perché di indicazioni ne capiva meno di zero.
“Zoro! Di qua!” gridò.
Il ragazzo in questione si voltò verso di lui. Sorrise a modo suo, non sprecandosi più di tanto. “Potresti levarti quel cappello una volta tanto?” chiese mentre si avvicinava. “Mi avevano detto che saresti arrivato su un binario diverso.”
“Io credo che sia stato tu a sbagliare, e non sarebbe la prima volta. Riusciremo a uscire di qui? Come stanno gli altri? E Nami? Ace e Sabo li hai visti vero, sei andato a trovarli? Tu e Sanji ancora discutete come bambini?”
“Stai zitto tu, sei l’ultimo che può parlare di cose del genere. E comunque sì, gli altri stanno tutti bene, e quel cuoco di merda ancora non ha capito che deve starmi alla larga o finirà col collo spezzato” rispose mentre metteva piede sulle scale mobili che portavano al piano superiore della stazione.
“Dici così, ma alla fine lo sano tutti che non gli faresti mai del male. Hai smesso di allenarti? Ti vedo diverso.”
“Mi fai finire di parlare?!  I tuoi fratelli li vedo un giorno sì e l’altro pure, e no, non ho smesso di allenarmi” rispose stizzito. Borbottò qualcosa che somigliava ad un “devo fare di più” e iniziò a camminare in una direzione che, capì Luffy, era stata scelta totalmente a caso.
Come non detto: venti minuti, numerose imprecazioni e una risata di Luffy dopo, finalmente riuscirono ad abbandonare la stazione; per fortuna di entrambi, Zoro aveva parcheggiato non molto distante da questa, così che poterono riporre la sola valigia del ragazzo e andare via immediatamente, diretti verso casa. Zoro rimaneva il silenzio mentre Luffy straparlava riguardo a ciò che aveva fatto in quei mesi di assenza. Gli era mancata l’atmosfera di città, con le strade affollate di auto e non un minuto di silenzio. Era stato in un paese isolato, non molto caotico e pieno zeppo di campi e anziani, e ce ne aveva messo di tempo per abituarsi. Lui era nato in una città caotica, dove di giorno era fin troppo normale sentire le auto percorrere la strada di fronte casa sua, il vociare dei pedoni e il trillo dei campanelli delle biciclette. Per non parlare della notte: era sempre stato abituato a convivere con la vita notturna di quell’intrico di strade e abitazioni che aveva un concetto di silenzio diverso da Coby o Hermeppo. Gli schiamazzi dei ragazzi si sentivano ovunque, e lui stesso con i suoi amici non era solito tornare a casa presto –beccandosi ogni volta delle occhiate contrariate da Sabo che aveva il sonno leggero e si svegliava ogni volta che rientrava.
“E poi c’era un ragazzo sul treno che mi ha tenuto compagnia per due delle tre ore di viaggio” disse per concludere il discorso.
Solo a quelle parole Zoro sembrò prestargli attenzione. “Possibile che ovunque tu vada faccia amicizia? E dimmi un po’, scommetto che lo hai fatto così intensamente che ti ha guardato anche lui.”
“Forse” rispose.
“Posso quasi sentire la voce di tuo fratello: Luffy, non iniziare a viaggiare con la fantasia, è già successo fin troppe volte” commentò scimmiottando suo fratello Ace.
“Ti assicuro che guardava me! C’era una ragazza accanto a me per cui Sanji avrebbe perso la testa” iniziò a ribattere, ignorando Zoro che Sanji perde la testa per qualsiasi donna “ma lui guardava verso di me! Te lo dico io, quello era interessato a me. Te lo assicuro.”
“Certo, hai ragione tu” gli assicurò l’amico mentre parcheggiava abilmente l’auto davanti casa sua. “Questa sera usciamo, e non voglio scuse.”
Luffy lo vide accennare ad un saluto col capo prima di ripartire. Si voltò verso la porta di casa, mentre l’adrenalina gli scorreva nelle vene e sentiva le gambe pronte a scattare come molle. Di per sé era una villetta anonima uguale a tutto le altre in quel quartiere. Se non fosse stato per il murales a lato della porta –un teschio pirata con un cappello di paglia, una collana di perle rossa e dei tubi di piombo al posto delle ossa- che aveva fatto Ace, allora sarebbe stata tremendamente noiosa e difficile da riconoscere. La casa era loro, potevano farci quello che volevano, e personalizzarla era stata l’dea migliore che avessero avuto. C’era anche una casa sull’albero del giardino retrostante, ma ormai era diventata piccola e non la usavano più. Suonò il campanello e già si poteva immaginare Ace alzarsi in fretta dal divano e correre alla porta. Sorrise non appena lo vide, con la sua zazzera di capelli neri, le amate lentiggini spruzzate sul viso e gli occhi caldi che lo guardavano.
“Luffy!” salutò contento mentre lo stringeva in un abbraccio soffocante e lo sollevava da terra.
Guardando alle sue spalle, Luffy vide Sabo spuntare dalla cima delle scale. Si era lasciato crescere i capelli, alla fine. Ora i fili dorati gli incorniciavano meglio il viso, accendendo un po’ gli occhi neri. Sorridendo, Sabo si fiondò verso di loro unendosi a quell’abbraccio che sapeva di casa; uno di quegli abbracci caldi di cui il ragazzo aveva sentito la mancanza durante la sua assenza e che sapeva avrebbe ricevuto solo dai suoi fratelli. Perché in fondo Luffy lo sapeva che, nonostante ad Ace piacesse prendersi gioco di lui e Sabo fosse un damerino che aveva sempre qualcosa di noioso con cui ribattere ad ogni sua uscita, nessuno avrebbe potuto sostituire quei due.
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Non era andata diversamente da come si era aspettato. Dopo il primo momento iniziale di smancerie, Ace lo aveva trasportato come un sacco di patate in salotto e Sabo era andato a prendere da bere. Per quanto avessero parlato, Luffy non lo sapeva. Aveva scoperto che Ace aveva un nuovo tatuaggio –che aveva ottenuto gratis visto che il tatuatore stava sbagliando a scrivere il suo nome, credendo che fosse “Ase”. L’altro dei suoi fratelli l’aveva presa malissimo quando aveva visto la sua iniziale sbarrata, credeva che lo avesse cancellato dalla sua vita- e che Sabo si era finalmente deciso a chiedere a Koala di uscire. Aveva sentito degli ottimi risultati di quest’ultimo all’università, mentre per Ace la solita routine del lavoro non era minimamente cambiata. Dal canto suo, aveva raccontato le stesse cose che aveva riferito a Zoro, compreso l’incontro con Law. E mentre Sabo sembrava essere contento, Ace aveva reagito proprio come il suo amico aveva previsto, aggiungendo che non era sicuro che fosse sceso alla sua stessa stazione.
“Lo sai che è probabile che non sia nemmeno sceso qui, vero?”
“Certo che lo so, sei una piaga, bastardo. Mi distruggi ogni speranza di rivederlo.”
“Dai Ace non essere così pesante, è appena tornato. Però ha ragione, Luffy”commentò poi, guadagnandosi un’occhiata seccata dal fratello e un’espressione di assenso da Ace. “Ma puoi sempre vedere il bicchiere mezzo pieno, nessuno te lo vieta” aggiunse alzando le mani in segno di resa.
 
Ottobre
Alzò il boccale di birra verso il soffitto e gli altri lo imitarono, brindando alla salute e, come facevano sempre, alla fortuna. Come ogni sabato sera, si erano rintanati in quel locale un po’ squallido alla periferia della città, in cui c’era puzza di chiuso e di birra. Probabilmente le finestre di quella stanza non venivano aperte da mesi, e l’aria risultava stantia e, a primo impatto, sgradevole. Ma Luffy e i suoi amici, oltre che quasi tutte le persone che conosceva, andavano da sempre in quel locale a trascorrere le loro serate in compagnia, tanto che il proprietario –un uomo anziano di nome Rayleigh che tanto anziano non sembrava visto il fisico allenato e la barba curata ad arte- ogni tanto offriva loro l’intera serata. La moglie Shakki non sembrava esserne molto contenta, ma bastavano due parole del marito e una sigaretta per farle passare qualsiasi cosa. Se Luffy avesse potuto fare la stessa cosa ogni volta che Nami si lamentava con lui di quello che le succedeva, avrebbe avuto molte meno grane per la testa e soprattutto non avrebbe dovuto accompagnarla per tutto il pomeriggio nel centro commerciale per sollevarle il morale. Non che a Luffy Nami desse poi così tanto fastidio –con i suoi capelli arancioni, gli occhi dolci castani e quel viso da bambina era impossibile per lei avere nemici- ma sapeva veramente trasformarsi quando le cose non andavano come lei voleva. E Luffy alla sua testa ci teneva, grazie tante, non la voleva piena di bernoccoli. L’antitesi di Nami era Robin, che aveva i capelli scuri e gli occhi azzurri. Era di una freddezza a tranquillità irreale e poteva passare ore intere seduta su una poltrona a leggere un libro. Come facessero lei e Nami a essere così amiche Luffy ancora non lo sapeva, ma più volte la corvina gli aveva spiegato che non era poi così diverso dal rapporto che legava lui e Zoro.
Una delle poche cose in cui sia Nami sia Robin erano portate era reggere l’alcool. Certo, Nami ne dava sfoggio quanto Zoro, mentre Robin se ne stava più sulle sue, ma Luffy non poteva nemmeno immaginare di bere così tanta birra senza iniziare a straparlare e avere le allucinazioni. Ci aveva provato una volta a casa con i suoi fratelli, ma ricordava solo vagamente la serata; aveva retto così poco che Ace aveva creduto che la birra fosse avvelenata, e poi lo aveva preso in giro tutto il giorno. Il sopracitato ragazzo era ora in un angolo del locale insieme a suo fratello Sabo e al loro gruppo di amici, mentre Luffy stava dal “suo lato” del locale.
Bevve tutto d’un fiato il primo e ultimo boccale di quella sera, commentando con Usopp come Sanji e Zoro litigassero per ogni singola cosa arrivando alle mani i tre quarti delle volte, come se i due diretti interessati non fossero accanto a loro. In men che non si dica, infatti, il capo biondo di Sanji si voltò per guardare verso di loro, evidentemente piccato.
“La colpa è di quello stupido, non ha rispetto per nessuno” disse aggrottando l’unico sopracciglio a ricciolo che non era coperto dal ciuffo ormai troppo lungo. Tra le dita aveva stretta un’immancabile sigaretta.
“Ma sentilo, stupido. Non sai dire di meglio, cuoco di merda?” ribattè a tono l’altro dopo aver bevuto l’ennesimo sorso di birra.
Luffy rise. In breve tempo, Nami sfidò Zoro ad una gara alcolica, Robin finì immersa in una conversazione con Franky e Chopper –due tizi così particolari che il ragazzo non aveva idea di come descriverli- e Sanji era di nuovo finito a parlare con Zeff –il cuoco- di ricette e altre cose di cui solo loro si intendevano. Dal canto suo parlava con gli amici rimanenti –Usopp e Brook, un tizio l’uno opposto dell’altro sotto quasi ogni aspetto, a cominciare dall’altezza.
“Eustass, ancora da queste parti? Credevo di non vederti più ormai” sentì dire da Rayleigh. Inizialmente non diede peso a quelle parole. Non gli interessava minimamente chi fosse Eustass, né il motivo che lo portava al locale quella sera.
“Vecchio” salutò colui che, evidentemente, era Eustass. Entrò nel campo visivo di Luffy che poté notare la chioma di capelli rossi che si portava dietro e le enormi spalle allenate coperte da una assurda pelliccia rossa. Era ottobre, maledizione, non dicembre inoltrato. Suo fratello Ace ancora non accennava a indossare le maniche lunghe –e forse anche quello era fuori dal normale- ma una pelliccia del genere doveva scaldare parecchio e Luffy aveva caldo solo a guardarlo.
“Trafalgar si è deciso a uscire di casa. Gli serve una sbronza colossale per staccare da tutta quella roba di merda che studia all’università.”
“Sei sempre così fine, Eustass-ya. Si tratta di medicina, capisci? Sono quello che un giorno ti salverà il culo da una qualche malattia, portami rispetto.”
“Certo, dottor Law, vuole per caso rivoltarmi come un calzino in questo preciso momento? Finiscila e bevi qualcosa. Vecchio, qui dobbiamo andare sul pesante” sentenziò poi.
Monkey D. Luffy poteva ancora dire di avere un udito attendibile. In quel momento i nuovi arrivati erano diventati tremendamente interessanti. Voltò il capo, estraniandosi dal discorso che fino a pochi secondi prima stava seguendo con attenzione. I capelli rossi e la pelliccia di Eustass passarono immediatamente in secondo piano quando notò che, seduto accanto a lui vicino al bancone, vi era Law. Non aveva dubbi che fosse lui: il cappello bianco maculato, i tatuaggi sulla sola mano scoperta che, dalla sua posizione, riusciva a scorgere. Le gambe lunghe erano parzialmente coperte da un cappotto lungo che era stato aperto e abbandonato lungo i fianchi e oltre. Ora che lo vedeva meglio, non appoggiato sul comodo sedile di un treno, poteva meglio osservare la curva delle sue spalle e constatare che, no, non era massiccio quanto il suo amico, ma di certo non doveva tirarsi indietro di fronte ad una sfida fisica.
Sorrise e si morse leggermente il labbro inferiore mentre chiamava Ace e Sabo, giusto per far notare loro che quella volta avevano sbagliato, che quel ragazzo era sceso alla sua stessa stazione e in quel preciso momento si trovava a meno di dieci passi da loro. Lo indicò con un cenno del capo non appena gli furono accanto, ma non si voltò verso di loro per osservarne le reazioni.
“Scherzi, Luffy? Law?” domandò Ace con fare sorpreso. Sabo sghignazzò, colpendolo sulle spalle quasi come se si stesse complimentando con lui che, in realtà, non aveva fatto proprio nulla. Zoro, anche lui nel suo campo visivo, seguì il suo sguardo fino a scorgere il ragazzo e imprecare; estrasse dei soldi dal suo portafogli e li passò a Sanji, che sorrideva contento.
“Siete dei bastardi. E tu come lo sai?” domandò rivolto verso il biondo, staccando solo per un secondo gli occhi dalla schiena di Law, di Trafalgar, ogni modo di chiamarlo sembrava perfetto.
“Me lo ha detto Zoro. Diceva che non lo avresti visto più, io sostenevo il contrario. Una bella scommessa non ce la poteva togliere nessuno”  spiegò con un sorriso divertito sulle labbra, mentre Zoro dall’altro lato del tavolo sembrava stesse per alzarsi e prenderlo a pugni.
Sentendo il suo nome, Trafalgar Law si voltò verso il loro tavolo. Gli schiamazzi dei suoi amici –e anche dei suoi fratelli- sembrarono immediatamente sparire; rivide quegli occhi grigi, e loro si tuffarono nuovamente nelle sue sfere nere. Era più stanco, constatò Luffy. Le occhiaie erano più marcate, forse era anche un po’ più pallido. C’era però una cura nascosta, come se quei capelli neri fossero stati sistemati appositamente in modo da sembrare disordinati, come se quelle occhiaie fossero sempre state sotto ai suoi occhi a segnargli il viso. Le labbra sottili non erano piegate in alcun modo, quasi si nascondevano. O almeno, inizialmente; in un momento si piegarono in quello che sembrava un sorriso divertito, quasi non credesse di averlo incontrato di nuovo. Sorrise di rimando, sfoderando un’espressione così felice che avrebbe fatto vacillare qualsiasi persona, mentre si portava una mano al cappello di paglia. Trafalgar Law accavallò le gambe e bevve un sorso di alcool, non staccando gli occhi da lui nemmeno per un istante.
“Ti sei imbambolato? Basta un bicchierino ormai a mandarti giù di testa” parlò la testa rossa che Luffy odiò all’istante. D’accordo, era esagerato, ma non avrebbe dovuto parlare proprio in quel momento.
Come se fossero entrambi riemersi dal mare, entrambi spostarono lo sguardo verso i loro compagni di serata. “Ti piacerebbe, Eustass-ya” sentì dire da Law.
“Te lo dico io, è più grande di Luffy di almeno cinque anni” sentenziò Ace con fare fiero.
“Assolutamente no, non più di tre. Ma lo vedi? Uno di ventisei anni non beve in quel modo” ribattè Zoro.
“Veramente” si intromise il corvino “tu bevi molto più di me e abbiamo la stessa età. Non puoi proprio parlare.”
“Ah! Ace batte Zoro ancora una volta!”
Luffy credeva, in realtà, che il comportamento di Ace in quel momento non fosse proprio adatto alla sua veneranda età di ventiquattro anni –Sabo sì che era una persona responsabile e con le idee chiare in testa. Ace sembrava di più una versione di sé più grande , questo non solo a detta del fratello responsabile, ma anche del nonno Garp, di Makino  e di qualsiasi altra persona che li conoscesse da anni.
“E comunque” disse Ace prima di allontanarsi e tornare dai suoi amici “Non è detto che abiti nei dintorni. Sai, la città è grande. E non mi rifilare la scusa del bar, ti ricordo che anche noi non abitiamo poi così tanto vicini a questo posto.”
Luffy sbuffò e lanciò un’ultima occhiata al bancone: Law era ancora lì, parlava con il tizio dai capelli rossi. Sorrise ancora: oh no, quello non sarebbe stato un buco nell’acqua.
 
Novembre
Lo era stato eccome, un buco nell’acqua. Ottobre aveva lasciato il posto a novembre e le ultime tracce di caldo erano scomparse. E mentre Ace aveva finalmente sostituito le maniche corte con quelle lunghe, Sabo aveva posato nell’armadio la giacca leggera per una più pesante, lui non accennava a togliere il suo cappello di paglia ormai fuori stagione per indossarne uno più pesante. Non che gli altri anni lo avesse fatto, e non che non si fosse detto le stesse identiche cose, ma ormai era diventata una routine per Luffy dire a sé stesso che no, non era più periodo per quel cappello, ma che in fondo non gli importava più di tanto. E mentre il damerino studiava e il bambinone lavorava, Zoro lo trascinava fuori casa ad ogni minima occasione –e nel frattempo discuteva con Sanji-, lui non aveva ancora deciso cosa fare della sua vita da quando era sceso da quel treno.
Novembre stava poi per cedere il posto a dicembre. Si chiese per quanto ancora avrebbe dovuto aspettare prima di vederlo di nuovo. Si passò le mani sul viso; stava di nuovo pensando a lui. Ace glielo aveva detto che avrebbe finito col perderci la testa, ma non poteva certo controllare i suoi pensieri. Non era colpa sua se gli capitava fin troppo spesso di ricordare un paio di occhi grigi e un dannato cappello maculato. Certe volte avrebbe voluto tornare indietro e dire anche solo una parola a quel ragazzo, a Trafalgar. Si era ripetuto così tante volte quel cognome –perché aveva l’aria di essere tale, Law doveva necessariamente essere il nome, anche perché la ragazza sul treno lo aveva chiamato in quel modo- da storpiarlo in “Torao”, ma persino in quel modo risultava perfetto.
Ace aveva ragione, stava decisamente perdendo la testa.
Rotolò sul suo letto fino a trovarsi prono; affondò il viso nel cuscino e sospirò, credendo che mai sarebbe riuscito a pensare a qualcosa di diverso. E nemmeno frequentava luoghi dove, magari, avrebbe potuto vederlo: di certo non andava al centro commerciale –dove Nami lo obbligava ad andare anche quel giorno per aiutarla a migliorare il suo umore, che era sinonimo di mi serve qualcuno che mi ascolti quando parlo a vanvera- e nemmeno nei bar in cui Zoro si ostinava a portarlo per avere un suo parere sull’alcool del posto. Per non parlare di quando Sanji lo invitava a casa sua per assaggiare i suoi piatti : non che di quello Luffy si lamentasse, ma c’era lo zero percento di possibilità che Trafalgar Law andasse a casa di Sanji per un pomeriggio tra primi di pasta e secondi di pesce.
La vibrazione del suo cellulare gli fece notare che Nami era arrivata e che era giunto il momento di alzarsi. Non voleva, in realtà, ma se proprio doveva andare al centro commerciale, almeno ci voleva andare senza un bernoccolo in testa. Così di alzò, rispose a Nami che sì, stava scendendo, e in due minuti era fuori casa, nell’auto della ragazza diretto verso quel posto caotico che, sicuramente, non gli avrebbe dato quello che cercava. Chissà, magari Nami gli avrebbe offerto qualcosa da mangiare, anche se era così tirchia che non ci sperava più di tanto.
-
“Rosso o bianco?”
“Cosa?”
“Lo smalto. Rosso o bianco?”
“Non lo so. Bianco.”
“D’accordo, rosso.”
Non aveva idea del perché Nami lo chiamasse con lui se poi ascoltava meno di un quarto dei suoi consigli. Lui si impegnava anche a darle il suo parere, e lei calpestava ogni sua iniziativa: ma Nami era così, poteva passare dall’essere la migliore delle amiche alla più grande delle approfittatrici, anche se fortunatamente per la maggior parte del tempo era la miglior parte di lei, o era la peggiore scherzando.
“Avevo detto bianco” le fece notare sorridendo.
“Lo so, ma vedi, costa di più. Me ne sono accorta ora” rispose.
Erano in quel dannato edificio da due ore e la ragazza non accennava a voler uscire. Aveva comprato di tutto, però, e ad un certo punto aveva persino acconsentito a prendere un carrello invece che far portare tutto a Luffy. Avevano incontrato Robin che, con Chopper, era andata nella libreria del posto per prendere qualcosa di nuovo, come se non avesse letto ogni libro di quel negozio; Sanji lo avevano incontrato, invece, vicino all’uscita: era andato a comprare nuovi completi eleganti, perché raramente indossava altro. Non che fosse una di quelle persone che teneva chiusa la giacca sopra camicia e cravatta: aveva un talento unico nell’indossare vestiti eleganti e di classe –che normalmente andrebbero indossati di sera- e farli sembrare perfettamente normali e per niente ricercati. Sorrise pensando a quante volte aveva discusso con Zoro per quella ragione.
Quel sabato il centro commerciale non era particolarmente affollato. Forse per le basse temperature, forse perché erano tutti malati, in ogni caso era una di quelle volte in cui si poteva camminare tranquillamente senza rischiare di inciampare in qualche sacchetto dimenticato o di scontrarsi con un bambino urlante. Non c’era la fila ai bar e nemmeno alle casse: era piacevole passare da un negozio di trucchi ad uno di abbigliamento, e aveva anche comprato qualcosa per sé che, in quel momento, era sommerso dalle cose comprate da Nami. Il riscaldamento permetteva di non soffrire del freddo, anche se non rendeva meno fuori stagione il suo cappello. Se chiudeva gli occhi poteva già immaginare le decorazioni che da lì a poco avrebbero preso possesso di ogni angolo disponibile: stelle enormi che pendevano dal soffitto, serie di lucine bianche e verdi che correvano lungo le pareti dei negozi, e ovviamente non un centimetro libero per camminare a causa della corsa ai regali e dei saldi.
La voce squillante di Nami che lo chiamava lo distolse dai suoi pensieri. Si voltò per guardarla, scoprendo che si erano fermati davanti ad un negozio di intimo per donne e immediatamente sgranò gli occhi. Messaggio ricevuto: non poteva entrare, doveva restare lì fuori ad aspettare per i prossimi venti minuti che lei provasse almeno metà del negozio per poi uscire con due miseri sacchetti.
“Hai capito? Se scopro che mi stai guardando ti riempio di pugni” gli disse con far minaccioso.
Alzò gli occhi al cielo. “Ho capito, stai tranquilla. Me ne starò qui, immobile. Anzi no, vado a sedermi, non voglio stare qui impalato. Non ci mettere troppo però, muoio di fame.”
“Non ci metto mai troppo!” ribattè Nami mentre già si avviava nel negozio e lo lasciava da solo.
Sbuffò, spinse il carrello e arrivò velocemente a delle panchine su cui potersi riposare. Guardandosi intorno e notando che non c’era nessuno, si concesse la possibilità di mettere anche le gambe su questa, in modo da stare più comodo –per poi pentirsene pochi secondi dopo e tornare alla posizione iniziale. Estrasse il cellulare dalla tasca dei pantaloni, e stava giusto per rispondere ad un “Bar stasera?” di Zoro, quando sentì che quel nome veniva pronunciato.
“Dai, Law, cammina più in fretta! Non riuscirò mai ad andare in tutti i negozi se cammini così e mi guardi in quel modo, metti ansia!”
Voltò il capo nella direzione da cui aveva capito provenisse la voce. Se Luffy avesse avuto qualcosa tra le mani, probabilmente lo avrebbe fatto cadere. Oh, ma lui effettivamente aveva qualcosa: il cellulare sbattè contro il pavimento producendo un rumore preoccupante, ma che fece voltare Torao nella sua direzione. Luffy riconobbe al volo la ragazza seduta con lui sul treno che si allontanava, mentre il ragazzo si fermava e faceva incontrare i loro occhi per la terza volta. Con le occhiaie più marcate, il viso pallido e lo sguardo di un disperato che necessita di dormire, Trafalgar Law si trovava davanti a lui finalmente a pochi metri di distanza. Gli occhi grigi, perfetti per quel periodo dell’anno, sembravano a tratti sull’orlo di spegnersi, a tratti più accesi che mai mentre un sorriso divertito gli piegava le labbra e gli faceva venire voglia di alzarsi e correre verso di lui.
Non sapeva se fosse arrossito, Luffy. Vedere di nuovo quegli occhi, quel dannato cappello maculato e quelle occhiaie lo aveva fatto vacillare; forse i suoi occhi brillavano, e per una volta sperava di essere vestito decentemente perché quel dannato cappotto nero lungo fino alle ginocchia che Law stava indossando era maledettamente perfetto e non voleva assolutamente essere da meno. Sperava di risultare calmo e divertito come lui, e non un ragazzo che si era imbambolato ed era arrossito come se avesse ricevuto un regalo di Natale in anticipo di un mese –cosa che effettivamente era.
Si chiese se la pelle di Trafalgar Law fosse bollente quella di Ace o gelida come quella sua e di Sabo. Non poteva essere una via di mezzo, perché non era un ragazzo del genere. Lo aveva capito, Luffy, che per Torao il mondo aveva solo due possibilità. O sì o no, o bianco o nero, o caldo o freddo. Non c’era possibilità di “forse”, “mite” o “grigio”. Era ironico visto il colore dei suoi occhi. Non sapeva bene come avesse fatto a capirlo, ma gli sembrava la cosa più logica da pensare per una persona come lui. O forse era per il cappello bianco e nero, il suo modo di bere tutto d’un sorso e mai un po’ per volta, il fatto che, a giudicare dalle occhiaie, o studiava un capitolo intero o non lo iniziava.
Le mani tatuate erano sepolte nelle tasche del cappotto, così che Luffy non poteva vedere i tatuaggi che le marchiavano. Lo sorprese in pensiero di voler tracciare con le dita ogni linea nera che correva sul suo corpo, in modo lento e senza parlare. Pensava al fortunato tatuatore che poteva fare scorrere le proprie mani su quelle braccia, anche se con la consapevolezza che le avrebbe segnate per sempre. Per un attimo, il pensiero di diventare uno di loro gli attraversò la mente. Si rese poi conto che non avrebbe avuto senso toccare e sfiorare in modo così intimo e infinito altre braccia che non fossero quelle del ragazzo che ancora aveva gli occhi immersi nei suoi, come nuotandoci.
Sorrise e chiuse gli occhi nel momento in cui Law voltò il capo, chiamato dalla ragazza che nemmeno si era accorta avesse smesso di camminare, e si affrettò a raggiungerla. Si volò, prese il cellulare –che era rimasto sul pavimento- e rispose al messaggio di Zoro con un “Ci puoi scommettere.”  Quando Nami tornò, lo trovò ancora seduto su quella stessa panchina, gli occhi chiusi un sorriso sulle labbra.
“Hai per caso avuto una visione di cibo? Ti offro qualcosa dai, poi facciamo un altro giro!”
Aprì gli occhi e sorrise. Una visione di cibo? Quello che aveva visto era molto meglio.
 
Dicembre
Dicembre per Luffy arrivava solo nel momento in cui gli addobbi venivano riesumati dagli scatoloni e posizionati in tutta la casa. Tutto quel verde, quel rosso, quell’oro lo rendevano terribilmente euforico, molto più del solito. Zoro lo voleva far fuori almeno cinque volte ogni serata, Ace e Sabo ci mancava poco che lo cacciassero di casa per farlo poi rientrare dopo le feste. Ed era normale, se ci rifletteva: se uno di loro due lo avesse svegliato alle sette di mattina perché “Dobbiamo mettere gli addobbi, devo prendere i regali, ma quando cade la neve, ho fame” anche lui, forse, lo avrebbe odiato. Forse, perché non gli era mai capitato di incontrare qualcuno di più energico e affamato di lui.
In quel momento, dunque, non era ancora dicembre nella mente del corvino gironzolante per casa dopo essersi appena svegliato. Ace si ingozzava di latte e cereali in cucina e poteva sentire Sabo dirgli di andare più piano o gli sarebbero andati di traverso. Dal canto suo il ragazzo era perfettamente ordinato mentre mangiava, o meglio, in qualsiasi cosa facesse. Non a caso era lui che faceva la maggior parte dei lavori domestici, sebbene Ace e Luffy lo aiutassero abbastanza da non permettergli di avere motivo di lamentarsi di loro. Dopotutto lo capivano: tra l’università, la casa e loro due era già tanto che non fosse diventato pazzo. Loro ci provavano a farlo stressare il meno possibile, soprattutto perché sapevano quali fossero le conseguenze di una tensione eccessiva per lui: incubi quando era più leggera, insonnia invece quando era più pesante, oltre a mancanza di appetito, difficoltà di concentrazione e attenzione. Lo avevano visto poche volte, per fortuna, e da quasi due anni entrambi si impegnavano a tenere un comportamento accettabile e solo a volte Sabo era costretto ad alzare la voce per riportare l’ordine. Guardandolo dal salotto e tornando a uno di quei momenti –quando i suoi fratelli avevano discusso così pesantemente che Ace se ne era andato di casa per un periodo, e il biondo aveva sensi di colpa tali che ogni minima cosa era troppo da sopportare- Luffy riusciva ancora a ricordare lo stato di Sabo: il viso pallido e sudato, le grida durante la notte che poi si erano trasformate in occhi spalancati nel buio, il cibo lasciato nel piatto e poi direttamente non preparato nei giorni in cui toccava a lui cucinare. Ci era voluto Sanji con il suo talento per cucinare qualcosa di così buono da fargli tornare l’appetito, e lentamente la tensione del fratello si era allentata fino a sparire. E ovviamente ci era voluto il ritorno di Ace, o non sarebbe mai uscito da quella situazione.
Guardando il fratello, promise a sé stesso che mai più lo avrebbe visto ridotto in quello stato, poi andò a sedersi con loro attorno al tavolo per fare colazione. Sorrise quando vide che era già pronta per lui la sua tazza preferita colma di latte.
“Grazie” disse.
Sabo sorrise. Rivolse poi lo sguardo ai fogli davanti a sé, probabilmente studiando ancora prima di andare all’università. “Non credi che studiare di prima mattina sia poco salutare?” gli chiese Ace una volta finito di mangiare.
“Non cambia poi molto” rispose mentre si alzava per riporre la propria tazza nel lavabo. Guardò velocemente l’orologio e annuì a sé stesso. “Devo andare.”
“Vengo a prenderti, oggi” gli disse. “Facciamo quattro passi insieme.”
Sabo lo guardò contento, e Luffy si sentì scaldare il cuore. Notò Ace sorridere allo stesso modo, per poi alzarsi in piedi e dire che anche per lui era arrivato il momento di andare. “Il vecchio mi scuoia se arrivo tardi” disse.
E così Ace lasciò la casa dopo aver indossato le sue scarpe anti infortunistiche e, finalmente, un giaccone; Sabo fece lo stesso dopo aver preso al volo la borsa con i libri dell’università. La casa era silenziosa, ma Luffy non aveva la minima intenzione di farla rimanere tale. Voleva compagnia, o si sarebbe sentito solo, come quando aveva quindici anni e nessuno lo voleva attorno per quel suo carattere esuberante. Ci mise poco a prendere il telefono, selezionare il numero e attendere. Sapeva che, nonostante fosse presto, lui era sveglio; lo sapeva perché era mattiniero, lo era sempre stato.
“Sanji?”
“Presente. Come mai così presto? Successo qualcosa?”
“No, ma sono usciti tutti. Non hai nessuna ricetta da sperimentare oggi?”
“Arrivo.”
Sorrise. Non appena si parlava di cucina, donne o amici, Sanji correva sul posto. Non gli restava che aspettare, e magari far trovare la stanza in ordine, senza la tazza bianca di Sabo, quella con il leone di Luffy e quella con il fuoco di Ace abbandonate nel lavello al loro destino. Sanji, pensò, si sarebbe infuriato se le avesse trovate in quello stato.
-
Quando aveva detto a Sanji di sperimentare con tutto ciò che avevano in casa, non intendeva “tutto” nel vero senso della parola. Insomma, qualcosa per i suoi fratelli doveva pur lasciare, o gli sarebbe toccato di nuovo andare a fare la spesa e cucinare per loro. Il ragazzo invece lo aveva preso alla lettera, e allora aveva pensato di correre a comprare qualcosa prima di passare per l’università e andare da Sabo. Lo aveva fatto, ma nel tragitto di ritorno aveva incontrato Usopp tutto intento a trasportare carichi fin troppo pesanti per il suo fisico. Così non ci aveva pensato due volte ad aiutarlo, portando di corsa le cose comprate a casa e uscendo nuovamente.
Lanciò un’occhiata all’orologio da polso e constatò che, sì, era in ritardo come sempre e questa volta suo fratello non l’avrebbe presa bene. In quel preciso istante stava correndo, nonostante il suo cappotto lungo a righe bianche e rosse non gli permettesse di muovere le gambe come desiderava. Per non parlare poi di quel dannato paraorecchi giallo che si abbassava sugli occhi di tanto in tanto, rischiando di farlo scontrare contro qualcuno lungo quei marciapiedi straripanti di persone infagottate quanto lui. Se pensava che Ace aveva iniziato a indossare la giacca solo in quel periodo riusciva a percepire un brivido correre lungo la propria spina dorsale fino alla base della nuca.
Svoltò all’ennesimo dannato incrocio, vedendo finalmente l’enorme edificio svettare lungo il corso della via. Una quantità imprecisata di ragazzi già si riversava lungo i marciapiedi, diretti a casa, chi in compagnia chi da solo. Guardando velocemente da ogni parte, non riuscì a scorgere il fratello: era facile, con quel suo dannato cappello e il cappotto nero che gli stava così perfettamente da sembrare fatto su misura. Sperò con tutto sé stesso che, anche quella volta, si fosse fermato a parlare con un amico, o con Koala, o con qualsiasi persona che gli avrebbe fatto perdere tempo.
Arrivò davanti al cortile dell’edificio ansimando. Velocemente vagò con lo sguardo sul cortile, fino a scorgere la testa bionda di Sabo che oltrepassava in quel momento il grande portone dell’università. Prese un profondo respiro e sorrise, contento di essere arrivato in tempo. Vide il fratello guardare verso di lui e fargli segno di aspettare, così si rilassò e si prese il tempo necessario per riprendere fiato. Immerse le mani nelle tasche del giaccone, guardando davanti a sé e cercando il più possibile di non pensare al freddo pungente che si infilava sotto la pelle del viso, o all’odore di pioggia che si stava diffondendo nell’aria. Il cielo grigio minacciava di esplodere da un momento all’altro, e lui non aveva la minima intenzione di correre sotto la pioggia -nonostante da bambino lo trovasse divertente oltremisura. Aveva perso il conto di quante volte lui e i suoi fratelli avevano fatto infuriare Makino per una bambinata del genere.
Sabo ancora non accennava muoversi quando, in un attimo e solo per un secondo, un familiare lungo cappotto nero gli passò davanti agli occhi. Sorpreso, sgranò i propri e, probabilmente, fece la figura dell’idiota pronunciando un “oh” come se avesse visto un essere supremo. Non che il ragazzo non lo fosse, diciamolo, ma non ci teneva a farglielo sapere in quel modo. Un’uscita del genere avrebbe sicuramente distrutto ogni cosa e niente più occhi grigi, niente più cappello maculato e niente più viso spigoloso e perfetto da poter osservare millimetro per millimetro durante i loro incontri che attendeva con ansia. Mai aveva pensato che potesse frequentare quell’università, nonostante sapesse dei suoi studi di medicina. Ma andiamo, tra tutte le scuole della città quante probabilità c’erano che frequentasse quella? A Luffy non era passato nemmeno per l’anticamera del cervello.
Eppure eccolo lì, Trafalgar Law, che, Luffy ne era certo, gli era passato davanti per attirare la sua attenzione. Il solito sorriso divertito gli illuminò il viso pallido dalla stagione e segnato dalle occhiate. Doveva ancora star studiando, quel pazzo, come se non lo facesse evidentemente tutti i giorni e come se non soffrisse evidentemente di insonnia. Dal canto suo era certo di avere il viso arrossato per via della corsa e del vento freddo, e forse aveva anche le labbra secche -oltre alla gola, ovviamente. Ricambiò istintivamente il sorriso, forse diventando paonazzo, forse sentendo le sue emozioni e i suoi pensieri sovrapporsi l’uno all’altro come se facessero a gara a quale dovesse prevalere. Sembrava un incontro di boxe, con l’adrenalina che sfidava la timidezza e la sfacciataggine che lottava con l’imbarazzo. Di una cosa era certo: Trafalgar Law lo aveva visto appena quattro volte e le aveva mandate a terra, dichiarandosi unico e indiscusso vincitore della lotta interna tra le sue emozioni, anche se in realtà in quel combattimento non aveva nulla a che fare.
I ragazzi che parlavano attorno a lui sembravano solo un vociare lontano, mentre attorno a loro si chiudeva una cupola di vetro che li isolava. Guardò ancora una volta, cercando di farlo con contegno e discrezione, la linea del suo viso, del suo collo, delle sue spalle, per poi risalire e concentrarsi sullo sguardo maledettamente intenso e le labbra ora serie; Luffy sapeva di essere a sua volta osservato, sapeva che anche Trafalgar Law pensava di lui quelle cose. Non poteva dire nulla riguardo alle sue emozioni, ma sapeva di essere trovato attraente. Lo capiva dal suo sguardo, lo capiva dal fatto che si fosse fatto notare appositamente quel giorno. E sapeva che qualcosa c’era tra loro, una sorta di connessione pronta a spiccare non appena si fossero parlati. Perché Luffy di sguardi ne aveva ricevuti, ne aveva dati; di sguardi ne aveva vissuti e mai nessuno aveva dilatato il tempo come quelli, mai nessuno lo aveva fatto estraniare da ciò che lo circondava come quegli occhi grigi e quel viso perfetto.
Dicono che, a volte, basti un secondo per cambiare una vita intera. Dicono che basti una singola cosa per spazzare via tutto il resto, come un tornado che annienta ogni cosa davanti a sé. Luffy non percepiva quella sensazione, ma di certo quello non era uno sguardo come gli altri. Con i suoi occhi grigi, quel Trafalgar Law che aveva casualmente incontrato sul treno lo stava scrutando attentamente, quasi come se stesse scavando al suo interno. Monkey D. Luffy non era una di quelle persone che lascia scorrere i momenti senza viverli; per lui ogni attimo andava vissuto al massimo, ogni occasione andava presa al volo, ogni delusione andava affrontata di petto. Per questo motivo cercava di imprimere nella sua memoria il modo in cui gli occhi di quel ragazzo si immergessero nei suoi come se ci stessero annegando. Forse stava amplificando troppo le emozioni –Ace glielo diceva che si lasciava trascinare troppo da ogni singola cosa- ma al diavolo tutte quelle parole. In quello spazio non c’erano più centinaia di ragazzi che parlavano tra loro, non c’era suo fratello con il suo cappello da damerino, non c’era il freddo, né il copri orecchie giallo che si abbassava sui suoi occhi: c’erano solo lui, Torao e una dannata voglia di aprire bocca e parlare, o forse di saltare tutti quei passaggi e baciarlo lì, sotto il cielo grigio che minacciava pioggia e che rendeva straordinariamente perfetti quei due occhi del medesimo colore.
Luffy lo aveva capito di aver perso la testa per lui. Lo aveva forse capito dal primo momento, quando ancora si trovava sul treno diretto a casa e i suoi occhi lo avevano visto per la prima volta di quattro. E gli sembrava assurdo, perché non si poteva perdere la testa per una persona dopo averla vista così poco e, soprattutto, senza nemmeno averci parlato. Ma lui sentiva di conoscerlo, Trafalgar Law: sapeva dei suoi studi, sapeva della sua visione del mondo, sapeva della sua insonnia, sapeva della sua testardaggine e del suo probabile odio verso gli ordini che gli venivano imposti, perché uno come lui non poteva obbedire a nessuno che non fosse sé stesso. Sapeva che probabilmente odiava il freddo, e che odiava i luoghi affollati come il centro commerciale, eppure doveva voler bene così tanto a quella ragazza da accompagnarla. E lo sapeva, Luffy, che probabilmente anche lui doveva aver capito molto sulla sua persona, sul suo carattere e, chissà, magari delle sue abitudini: Trafalgar era di certo una persona portata per l’osservazione.
E mentre gocce di pioggia cominciavano a cadere dal cielo, Sabo correva verso di lui con un ombrello sulla testa e tutti si allontanavano dai luoghi scoperti, entrambi alzarono gli occhi verso le nuvole scure. Cedendo ancora una volta alle sue emozioni, dando libero sfogo ai suoi pensieri, Luffy si chiese se quello non fosse altro che una risposta a quell’incontro. Stava forse piangendo, il cielo, perché anche quella volta si erano guardati, ma non avevano osato parlare?
 
Gennaio
Sfregò le mani l’una contro l’altra nel tentativo di scaldarle. Si maledisse per aver dimenticato i guanti gialli come il paraorecchie a casa, sopra al caldo termosifone che era solo un’utopia lontana. Le strade della città erano deserte in quel periodo, con la neve che bloccava qualsiasi movimento delle auto e il freddo pungente che si abbatteva su chiunque uscisse –lui compreso. Ma non aveva potuto fare a meno di lasciare casa, perché quel suo caro amico chiamato Zoro aveva insistito per incontrarsi in quel dannato bar in periferia cui assegnava il titolo di migliore della città. Non poteva chiamarlo semplicemente il bar di Rayleigh, doveva ovviamente dire le cose in grande. Zoro si spostava con la sua dannata auto, mentre lui doveva farsela a piedi la strada. E se la sua voglia di camminare lungo tutta la città era pari a zero, quella di farlo attraverso la neve non esisteva nemmeno. Se c’era una cosa che aveva capito di Zoro, però, era che otteneva sempre quello che voleva in qualche modo. Che fosse con la promessa di qualcosa o grazie alla semplice capacità di parlare, il suo amico era peggio di un re viziato e doveva assolutamente fargli provare ogni singolo bar della zona, per poi ovviamente tornare al solito e bere qualcosa di decente.
Non che Zoro fosse una persona tremendamente approfittatrice o manipolatrice; era uno degli amici più cari a Luffy, nonostante gli orrendi capelli verdi –che, forse, orrendi non erano- e una strana e inquietante abilità con i coltelli e lo scasso. Della seconda lo aveva scoperto anni prima, quando l’amico aveva dimenticato il cellulare nella palestra della scuola e ci aveva impiegato non più di due minuti ad aprire la porta chiusa a chiave. Il giorno dopo, ricordava, avevano loro parlato dell’accaduto, senza sapere chi fossero i responsabili.
Della prima lo aveva scoperto quando, poche volte, sia chiaro, aveva aiutato Sanji a cucinare per uno dei loro pranzi in compagnia. Era forse l’unica occasione in cui i due andavano d’accordo, perché per il resto del tempo si urlavano contro in continuazione come fossero cane e gatto. Lo sapeva che, in realtà, si sostenevano l’un altro: Zoro conosceva Sanji alla perfezione e viceversa. Avevano solo due caratteri che non coincidevano, e, nulla da fare, neanche dopo tanti anni di conoscenza e amicizia riuscivano a rimediare.
Sanji era decisamente più responsabile e, forse, affidabile di Zoro. Si poteva star certi di non sbagliare mai a contare su di lui. Luffy credeva che fosse perché, a forza di cucinare e sperimentare, la sua memoria doveva essere migliorata notevolmente, ma non ne era sicuro. In ogni caso, conosceva a menadito le strade della città, a differenza della testa verde che a stento sapeva quale fosse la via di casa sua. Era un miracolo che riuscisse ad arrivarci da solo senza arrivare da tutta altra parte della città ogni volta. Era uno dei motivi per cui Sanji lo prendeva più in giro, insieme ai capelli verdi. Doveva pur difendersi in qualche modo dagli insulti che riceveva dall’altro, e non sempre aveva voglia di iniziare uno scontro tra i suoi calci e i pugni dell’altro.
Quando non era un totale cretino, Zoro era orgoglioso e tremendamente protettivo, anche se cercava di nasconderlo, verso le persone a cui teneva. Si erano conosciuti così, quando Luffy di amici ne aveva pochi, i fratelli erano impegnati e lui rimaneva da solo. Zoro era stato il primo a trovare quella sua indole schietta e rumorosa interessante invece che fastidiosa. Negli anni si era forse ricreduto, ma mai più Luffy si era abbandonato da quando aveva iniziato a stare al suo fianco. Dopo Zoro era arrivata Nami, poi Usopp con le sue mille paure, Sanji e le sue sigarette, Chopper con la passione per i dolci, Robin con i suoi libri, Franky e Brook con la loro esagerata altezza e stranezza. E allora Luffy non solo si era sentito diverso, meno solo, ma si era sentito compreso. E anche i suoi fratelli lo avevano notato, quel cambiamento, e ne erano stati felici. Avevano potuto finalmente tirare un sospiro di sollievo e pensare alla vita del corvino come a una strada in discesa e non come una corsa ad ostacoli.
Ora, loro erano solo le persone più vicine a Luffy; con il tempo – in realtà pochi anni- ne aveva conosciute di persone che lo apprezzavano, e in quel momento si poteva definire felice. Aveva tutto ciò che un ragazzo potesse desiderare, eccetto un termosifone a due centimetri da lui per scaldarlo dal freddo e un morbido materasso sotto la sua schiena. Seriamente, quell’aria stava iniziando a fargli perdere la sensibilità delle dita, e lui voleva continuare ad averne dieci.
Il cappotto bianco e rosso era scosso dal vento, e continuava a rimpiangere il paraorecchi poco comodo che, anche se avrebbe continuato a cadergli davanti agli occhi, sarebbe stato utile. D’altra parte lui non aveva minimamente pensato a togliersi il cappello di paglia che, in quel momento, gli cadeva sulla schiena senza volare via grazie al comodo laccio bianco che Nami aveva avuto la grande idea di ricucire quando aveva notato che si era rotto. Sentiva di avere il naso totalmente rosso e forse per quello si sentiva leggermente ridicolo. Non era come Ace, al quale il rosso stava fin troppo bene.
Il momento in cui entrò nel bar e si lasciò il freddo alle spalle lo avrebbe ricordato probabilmente per il resto della sua vita. Salutò Rayleigh e Shakki, poi andò a sedersi al solito tavolo lontano dalla finestra impolverata e piena di ragnatele, perché fuori non aveva nemmeno voglia di buttarci l’occhio. Sentendo le mani iniziare a scaldarsi, e soprattutto iniziando di nuovo a sentire le dita, estrasse il cellulare dalla tasca del cappotto; sentì un brivido di terrore correre lungo la sua schiena quando notò che il suo famoso amico gli aveva mandato un messaggio. Poche parole, un solo obiettivo: dargli buca.
Oh, Luffy avrebbe lanciato il cellulare contro la parete più vicina immaginando di avere tra le mani una delle amate bottiglie storiche di liquore del suo amico. L’immagine dello schermo in frantumi non avrebbe riprodotto fedelmente quello delle bottiglie, ma sarebbe stata sufficiente.
In realtà tutto quello che si limitò a fare fu abbandonare nuovamente il telefono in una delle tasche e incrociare le braccia come un bambino capriccioso, mentre il vecchio proprietario lo osservava divertito. Era sempre stato così, Reyleigh: molto presente nelle faccende dei suoi clienti. Era un amico, ma la differenza era che lui non dava mai buca dopo aver chiesto tutte quelle volte di uscire di casa.
“Sei venuto da solo? “ gli chiese mentre indossava un cappotto e si preparava ad uscire. Shakki alle sue spalle sembrava già pronta da un pezzo, e lo guardava nel mentre che fumava un’immancabile sigaretta. Come anche solo pensassero di abbandonare il caldo che c’era in quella stanza per immergersi nel freddo, Luffy non lo sapeva.
“Quello stronzo di Zoro mi ha mollato. Non è stato semplice arrivare fino a qui!” si lamentò prima di sbuffare.
Il vecchio rise. “Dai un’occhiata al locale mentre noi non ci siamo, tanto non credo tu voglia uscire di nuovo. Prendi quello che vuoi.”
Non era in realtà la prima volta che il ragazzo rimaneva da solo nel bar. Nel silenzio di quelle quattro mura, Luffy chiuse gli occhi per appoggiarsi allo schienale della sedia e cercare di riposare. L’istinto omicida nei confronti di Zoro era ancora presente e ogni tanto ancora aveva voglia di farlo davvero fuori, ma con il passare dei minuti tornò a rilassarsi. Almeno aveva un intero bar di alcool a sua disposizione, per non parlare degli stuzzichini che, in teoria, erano stati preparati per la serata. Ma con quella neve non sarebbe venuto sicuramente che qualche temerario, e in ogni caso non in quel momento. Shakki avrebbe avuto modo di prepararne ancora, no? poteva alzarsi e andare a mangiare qualcosa.
No. Dovette ricredersi.
Non si era neppure mosso di un millimetro, quando la porta si aprì e un ragazzo fece il suo ingresso nel suo castello di silenzio e tranquillità. Castello che venne immediatamente abbattuto dopo aver riconosciuto quella persona, quella dannata persona. Luffy credeva veramente che quella volta non sarebbe riuscito a uscire vivo di lì. Quel posto doveva avere qualcosa di straordinariamente magico, perché altrimenti non si spiegava come avessero potuto incontrarsi, lui e Trafalgar Law, lì per due volte.
Aveva ancora quel giaccone, ancora quel cappello, ancora quelle gambe chilometriche e ancora quel viso perfetto. Per la quinta volta, Monkey D. Luffy sentì le sue emozioni destarsi una ad una, reagendo alla comparsa del ragazzo in troppi modi diversi che nemmeno riusciva a seguire. Sorrise, forse troppo, ma Trafalgar Law sembrò apprezzarlo; fece la stessa cosa, ma in modo diverso dalle altre volte. Non era divertito, era sincero: era contento di vederlo quanto lo era lui, e il corvino riuscì a sentire il suo cuore esplodere e tornare normale quando si rese conto di quello che stava accadendo.
Quella volta non c’era nessuno. Non c’era Nami, non c’era la ragazza del centro commerciale, niente Eustass Kidd con la sua esagerata pelliccia, niente fratelli, niente uomo dai capelli biondi e camicia con i cuori. C’erano lui e Law, soli, con fuori fin troppa neve per permettere a qualcuno sano di mente di uscire di casa. Perché lo aveva capito, Luffy, che Trafalgar Law non era una persona comune e ordinaria. Glielo si leggeva in faccia, ma era stato troppo distratto per notarlo. O forse lo aveva sempre saputo.
Nulla impediva al ragazzo si alzarsi in piedi, sorridere e, finalmente, camminare verso l’altro. Probabilmente gli brillavano gli occhi, ma non volle dare importanza a quello. La sola cosa che voleva era parlare con Torao, sentire la sua voce sicuramente perfetta espandersi nella stanza senza essere coperta dal suono di risate e altre voci. Ma per una storia particolare aveva bisogno di un esordio particolare: così pensò di dire la prima cosa che gli venne in mente.
“Vedo che ancora non riesci a dormire decentemente.”
“A quanto pare no.”
La sua voce era l’unica cosa che Luffy avrebbe voluto sentire fino alla fine dei suoi giorni. Profonda, chiara ma oscura allo stesso tempo, un miscuglio tra bianco e nero. Grigio. Grigio come le poltrone all’interno del treno, grigio come i vetri delle finestre, grigio come le panchine del centro commerciale e le mura dell’università. Grigio come i suoi occhi.
Lo aveva capito, Luffy, perché non era riuscito a fare nulla da quando era sceso dal treno quel giorno di settembre.
“Eustass ha ragione, devi uscire più spesso.”
“Tuo fratello ha ragione quando dice che sei uno sprovveduto ad uscire senza ombrello.”
Lo avevano capito anche i suoi fratelli, in realtà. Lo aveva capito Nami, e anche Sanji e forse anche quella testa vuota di Zoro, contro cui non aveva più nulla ormai.
“Sono Luffy” gli de  isse sorridendo.
Le pareti sembrarono sparire, ora Luffy non sentiva più freddo. Le sue emozioni non lottavano più dentro di lui, non facevano a gara su quale dovesse prevalere. La felicità aveva già vinto.
Lo aveva capito perché non aveva fatto nulla. Stava aspettando, Luffy. Lo aveva aspettato per tutto il tempo.
“Trafalgar Law.”




Note autrice*
​Ecco quindi il secondo racconto, questa volta sulla coppia che adoro di più in tutto il fandom: Lawlu! Questi due sono perfetti a mio parere, proprio sono la vita. Sperando che questa storia piaccia, vado a chiedermi perchè pubblico qualcosa alle dieci di sera.
​Grazie a tutti coloro che leggeranno, significa moltissimo per me.
-Final

 
   
 
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