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Autore: Echocide    23/09/2017    2 recensioni
Dai lombi fatali di questi due nemici
toglie vita una coppia d'amanti avventurati,
nati sotto maligna stella,
le cui pietose vicende seppelliscono,
mediante la lor morte...

Agreste e Dupain sono due famiglie nobili di Paris, una città ricca di mistero e magia.
Una notte, il patriarca degli Agreste condanna i Dupain alla morte e dalla strage della famiglia, una bambina si salva: il suo nome è Marinette.
Genere: Drammatico, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Adrien Agreste/Chat Noir, Altri, Marinette Dupain-Cheng/Ladybug
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Titolo: Inori
Personaggi: Adrien Agreste, Marinette Dupain-Cheng, Altri
Genere: fantasy, romantico, drammatico
Rating: PG
Avvertimenti: longfic, AU
Wordcount: 2.347 (Fidipù)
Note: Prima o poi ritornerò alla vecchia gloria, quando sapevo cosa postare e in che giorni, magari non appena mi sarò un po' ripresa e il mio unico pensiero fisso non sia dormire. E dormire. E dormire. Intanto, altalenante come solo un dondolo sa essere, continuo ad aggiornare le storie con un po' di fatica. Ma lo faccio. E si ritorna in quel di Paris, sulle note di You raise me up cantata dalla bravissima Lena Park con un capitolo che è un po' di collegamento e ci porta un poco avanti nella storia: qualcuno decide, qualcuno ha un confronto e altri...beh, sono semplicemente in balia degli eventi.
Come sempre, vi rimando la pagina facebook per ricevere piccole anteprime e restare sempre aggiornati. E vi do appuntamento a ciò che aggiornerò in questi giorni, dato che sono un genio e ho lasciato tutto alla fine della settimana
Per concludere, voglio dire grazie a tutti voi che leggete, commentate e inserite le mie storie nelle vostre liste!
 

L’incessante chiacchiericcio del cognato era diventato una fonte di sofferenza per Gabriel e più volte si era domandato se il cognato fosse cosciente di quanto dolore gli arrecassero le sue ciarle continue: incurante di tutto, compreso il fatto di trovarsi a teatro nel balcone privato degli Agreste, l’uomo continuava inesorabile a parlare.
E parlare.
«Ho sentito una voce» mormorò a un certo punto il cognato, mentre Gabriel cercava di concentrarsi sul dramma in atto sul palcoscenico e domandandosi di quale disturbo fosse affetto il parente e perché, fino a quel momento, nessuno aveva pensato di curarlo.
«Che voce?» domandò Gabriel, più per inerzia che vera e propria curiosità, poggiando il viso contro il pugno chiuso e tenendo lo sguardo fisso sul palco, mentre la mente vagava e ai rapporti che i mandanti dell’assassinio di Armand Lahiffe avevano lasciato: l’uomo e la sua famiglia erano ancora vivi, protetti dai sostenitori dei Dupain.
Coloro che erano ancora devoti a Tom Dupain, avevano impedito a lui di uccidere un personaggio scomodo.
Ma ciò che lo impensieriva, ben più di un possibile nemico politico ancora in piedi, era la dichiarazione di una fanciulla fra i sostenitori dei Dupain.
Possibile che fosse la figlia di Tom Dupain? Possibile che quel fantasma era tornato dal passato proprio ora?
«Alcuni si stavano domandando cosa farà adesso che Adrien se n’è andato, voltando le spalle alla corona…»
La voce di suo cognato penetrò i suoi pensieri, riportandolo al presente mentre puntava lo sguardo chiaro sull’uomo e notava il sorriso fasullo che gli piegava le labbra: «Adrien è…» si fermò, non trovando parole che non fossero una scusa alle sue stesse orecchie: «…un traditore» concluse, serrando con forza la mascella e fissando avanti a sé, senza voltarsi verso il cognato.
Non voleva vedere il sorriso che aveva in volto l’altro.
«Immagino che non sarà più il vostro erede» Gabriel non rispose, continuando a tenere lo sguardo avanti a sé: «E chi se non meglio di un parente?»
«Dove volete andare a parare?»
«Beh, mio figlio è un congiunto della vostra defunta moglie, mia sorella» Gabriel strinse la presa sui braccioli della poltrona, inspirando profondamente a alzando il mento: «Non è forse più consono dichiarare Nathaniel come vostro erede piuttosto che uno sconosciuto qualsiasi?» l’uomo si fermò e sogghignò appena: «In fondo l’avete detto voi stesso, che vostro figlio è un traditore.»
Gabriel socchiuse gli occhi, respirando appieno l’aria del teatro e poi riaprendo le palpebre, osservando gli attori che si muovevano sul palcoscenico: «Sì, mio figlio non può essere il mio erede» dichiarò, voltandosi con lentezza verso il parente e piegando le labbra in un sorriso: «Nathaniel potrebbe anche essere meglio di lui. Lo nominerò mio erede.»
«Sono felice di ciò. E lo sarà anche Nathaniel. Ne sono certo.»


Nino rimase sulla soglia della stanza, le mani intrecciate dietro la schiena, mentre spostava il peso da un piede all’altro e lo sguardo seguiva febbrilmente la ragazza che si affaccendava nella stanza: «Posso dare una mano?» domandò titubante, stirando le labbra in un sorriso incerto che traballò quando la ragazza si fermò, al centro della camera, con lo sguardo rivolto verso di lui: «Vorrei rendermi utile, finché staro qui…»
Si fermò, ben sapendo cosa significano quelle parole: l’anziano mentore dei Dupain, aveva avvisato lui e i suoi genitori del pericolo che correvano lì a Paris.
Armand Lahiffe aveva compreso appieno la portata di tutto ciò e così aveva deciso di sparire dalla circolazione, fino a che il governo della città non fosse stato soverchiato, decidendo di andare nella lontana Marsiglia e rimanere lì, fino a che le acque non si fossero calmate e il ritorno dei Dupain al potere non fosse divenuto reale.
Nino si era preparato a dover dire addio al suo migliore amico, a lasciarlo a Paris mentre lui fuggiva assieme ai suoi genitori, ma così non era stato e Armand aveva pensato bene di lasciare Nino lì, protetto dagli accoliti dei Dupain: «Magari puoi renderti utile non stando lì impalato» sbottò la ragazza, posando delle lenzuola piegate sulla sedia che, assieme a letto e armadio, completava lo spartano arredamento della stanza: «E aiutarmi a rifare il letto dove tu dormirai.»
Il giovane annuì veloce, avvicinandosi e osservando i teli, rimanendo poi immobile e cercando di ricordare cosa facessero con quelli le serve: le aveva viste tante volte affaccendarsi per la sua camera, mentre il valletto lo aiutava a finire di prepararsi, ma doveva ammettere che non era per nulla sicuro di come muoversi.
In un letto c’erano due lenzuola: uno sopra e uno sotto.
E fin lì non dovevano esserci problemi.
Doveva semplicemente prendere uno e metterlo sopra il materasso, poi un altro e posarlo sopra al primo.
Non sembrava complicato.
Prese uno dei teli, aprendolo e, con le braccia aperte, si voltò verso il materasso, addossato in un angolo della stanza: «Non hai mai rifatto un letto, vero?» gli domandò la voce della ragazza, parole seguite poi da un sospiro; Nino abbozzò un sorriso imbarazzato, conscio della sua inettitudine e osservando la giovane togliergli di mano il lenzuolo: «Voi ricchi siete tutti uguali» continuò lei, scuotendo la stoffa e lasciandola scivolare sopra il materasso, chinandosi poi in avanti e iniziando a togliere le pieghe che si erano formate, rincalzando poi gli angoli sotto al materasso: «Pensate di essere i padroni del mondo, ma in verità non sapete nemmeno vestirvi senza servitori.»
«So vestirmi» dichiarò piccato Nino, portandosi le mani alla giacca e strattonandola leggermente: «Certo, Remier è il migliore nell’allacciare le cravatte, però…» si fermò, stirando le labbra e abbassando le spalle, rimanendo in silenzio mentre la ragazza sistemava il letto in cui lui avrebbe dormito.
Non vedeva Alya Césaire da parecchio tempo, eppure lei non era cambiata: diretta come quando era alla taverna, seccata dalla sua presenza come ogni volta che lo vedeva.
Era rimasto stupito quando, una volta giunto in quella casa, l’aveva scorta fra i volti di chi li avevano accolti e lo stesso poteva dire di lei: aveva visto lo sguardo nocciola sgranarsi e la bocca disegnare un O mentre lui faceva la sua entrata nella stanza; Adrien gli aveva poi battuto una mano sulla spalla, attirando su di sé l’attenzione e, una volta che Nino si era nuovamente voltato, la fanciulla era sparita.
Non l’aveva più rivista, almeno fino a quella mattina: dopo aver salutato i suoi genitori, scortati a Marsiglia da uno degli uomini di Fu, l’anziano padrone di casa l’aveva poi affidato alle gentili cure di Alya che, fra uno sbuffo e l’altro, l’aveva accompagnato fino a quella che era la sua futura stanza.
«Invece di stare immerso nei tuoi pensieri, potresti osservare come si fa» borbottò Alya, riportandolo nuovamente al presente e fissandolo con il secondo lenzuolo fra le mani: «Non so quanto rimarrai qui e puoi sognarti che venga a rifarti il letto ogni mattina.»
«Sì. Certo.»
Alya lo fissò, quasi Nino poteva vedere l’esasperazione materializzarsi come un’entità separata, e subito si mise a studiare i movimenti della giovane che, pratica e veloce, stava sistemando anche il secondo telo: «Theo è un bravo uomo» dichiarò, tirando appena la stoffa candida: «Ed un ottimo soldato, sono certa che terrà al sicuro i tuoi genitori.»
«Grazie» mormorò il giovane, stirando un poco le labbra e poggiandosi con gli avambracci al bandone del letto: «E’ tutto così strano, fino a poco tempo fa la mia vita era tranquilla e quasi monotona: ero il miglior amico del principe, andavo a palazzo a trovarlo, mi divertivo con lui…»
«Venivi a disturbare in taverna.»
«Poi dal diciottesimo compleanno di Adrien tutto è cambiato.»
«E’ perché era il diciottesimo compleanno anche della principessa» mormorò Alya, prendendo il cuscino e stringendolo a sé, lo sguardo fisso in avanti: «Il giorno in cui avrebbe compiuto diciotto anni, la verità le sarebbe stata detta e tutto sarebbe cambiato. Lo sapevo, eppure non ero preparata» si fermò, inspirando profondamente e voltandosi verso il ragazzo: «Così come te, non ero pronta a tutto ciò che sarebbe venuto…»
Nino annuì, inspirando e voltandosi verso la finestra aperta, ascoltando i rumori che provenivano da fuori e riconoscendo il suo metallico delle spade che s’incontravano: «Sapevo di mio padre, sapevo che era un accolito dei Dupain e, per questo, ho suggerito ad Adrien di venire qui, quando è fuggito.»
«Hai fatto bene. Hai salvato il tuo amico così.»
«Mi chiedo se non dovevo fare altro, se non avessi dovuto agire diversamente.»
«Ti penti di ciò che hai fatto? Così tanto da toglierti il sonno?»
«No. Non credo.»
«E allora significa che hai fatto la cosa giusta» dichiarò Alya, sorridendo appena e sistemando il cuscino, avvicinandosi poi all’armadio e tirandone fuori due coperte: «Fu dice sempre che i rimpianti non portano a nulla se non a scelte future dettate dalla paura.»
«Mi chiedo quando tutto tornerà alla normalità…»
«Il mondo che conoscevi, mi dispiace dirtelo, ma non tornerà mai più.»


Marinette inspirò profondamente, sentendo il dolore correrle lungo le braccia mentre teneva lo sguardo sul suo avversario che, completamente rilassato, roteava la spada con la mano destra, prima di sistemarsi nuovamente in posizione: «Sei già stanca, principessa?» le domandò Adrien, piegando le labbra in un sorriso e facendo un passo di lato, lo sguardo verde che seguiva ogni movimento della ragazza: «Sinceramente preferirei che tu non dovresti mai avere a che fare con situazioni che richiedono la spada…»
«Hai detto che volevi insegnarmi» lo riprese la giovane, inspirando profondamente e cercando di ignorare la fatica che faceva nella semplice azione di sollevare la spada.
«Sì, perché tu sembri determinata a metterti in pericolo. Come è successo qualche giorno fa per i Lahiffe.»
«Io…»
«Posso comprendere che, in qualità di unica erede di Tom Dupain, tu debba guidare i tuoi sostenitori, ma…» Adrien si fermò e sorrise dolcemente, mentre Marinette sapeva benissimo quale discorso stava per iniziare, sicura che le parole sarebbero state le stesse che le ripeteva da quando si erano incontrati sul balcone subito dopo aver salvato i Lahiffe: «…potresti delegare a me la questione, soprattutto se ci sposassimo ed io entrassi nella cerchia dei Dupain.»
«Ti ho già spiegato che mia madre non accetterebbe mai una cosa del genere.»
«Ma io non sono un Agreste» ribatté tranquillo Adrien, rilassando la propria postura e poggiando il piatto della spada sulla spada sinistra: «Ho rinnegato il mio nome, ricordi?»
«Sinceramente mi piacerebbe sposarmi ed essere certa che mia madre non mi renda vedova il minuto dopo» borbottò Marinette, infilzando la spada nella terra brulla, inclinando poi il capo e intrecciando le braccia al seno: «Hai davvero delle tendenze suicide, lo sai?»
«Il tuo discorso…»
«Adrien.»
«Praticamente hai accettato a sposarmi, ma vuoi accertarti che tua madre non mi uccida e ti renda una vedova» il ragazzo annuì con la testa, sorridendo divertito: «Beh, in effetti, anche a me non piacerebbe morire subito, almeno dopo la prima notte di nozze. Se proprio devo scegliere un momento per la mia dipartita.»
«Co-co-co-cosa?»
«Calma, principessa. Stavo scherzando» dichiarò Adrien, avvicinandosi a lei e fermandosi a pochi passi: le punte delle loro scarpe si toccavano e Marinette poteva sentire il respiro di lui sulla pelle del volto, rendendosi conto per l’ennesima volta di quanto era sensibile alla sua presenza: «Avevo pensato di sposarti anche quando pensavo che tu fossi una semplice fornaia, per te ho abbandonato il mio nome, quindi non pensare che le tue reticenze o tua madre mi possano fermare, Marinette.»
«Hai tendenze suicide…» mormorò la ragazza, quasi come se fosse una constatazione di fatto, tenendo lo sguardo fisso sul petto di Adrien e sentendosi incapace di incontrare il suo sguardo in quel momento, nemmeno quando lo sentì ridacchiare piano e poi il calore del suo corpo più vicino e le labbra poggiarsi delicate sulla sua guancia.
«Andiamo, principessa. Hai un allenamento con la spada da finire.»
«Non era finito?»
«Non sperare di distrarmi con queste proposte di matrimonio, signorina. Il mio maestro, D’argencourt, diceva sempre che lo spadaccino che si distraeva facilmente era uno spadaccino morto.»
«Hai fatto tutto da solo.»
«Oh? Davvero? Sbaglio o eri tu quella che parlava di vedove subito dopo il matrimonio?»


Nathaniel osservò il padre, sbattendo le palpebre e assimilando le parole che l’uomo aveva pronunciato da poco, incapace di comprendere se fosse tutto reale o semplicemente un parto nato dalla sua mente, un incubo: «Potete ripetere, padre?» domandò, sentendo la propria voce titubante mentre cercava un qualcosa a cui poggiarsi: fece un passo indietro, sentendo il letto contro le gambe e lasciandosi andare sopra di queste, la mano che si reggeva a una delle colonne del baldacchino e lo sguardo puntato sulle scarpe del genitore.
«Tu sarai il nuovo erede al trono di Paris…»
«Ma io…»
«Quello sciocco di Adrien ci ha fornito l’occasione su un piatto d’argento» Nathaniel strinse le labbra, osservando il sorriso sul volto del padre mentre parlava: «Gabriel non reggerà ancora per molto, e finalmente saremo noi Kurtzberg a regnare su Paris, com’è giusto che sia.»
«Se andiamo a vedere ciò che è giusto o sbagliato, padre, la famiglia che dovrebbe avere quel ruolo è…»
«La nostra» dichiarò il padre, fissandolo in volto e sorridendo, quasi Nathaniel poteva scorgere nei suoi occhi la luce della follia: «Solo la nostra.»
«Sì, padre» mormorò, chinando la testa e sentendo il silenzio calare nella stanza: una manciata di minuti bastarono al padre per sentirsi a disagio e andarsene senza dire una parola: Nathaniel rimase immobile mentre sentiva i passi dell’uomo allontanarsi, la porta aprirsi e richiudersi, infine nuovamente il silenzio.
Con un profondo respiro, alzò la testa e lo sguardo si posò sulla tela che, poggiata sul cavalletto, dominava la zona vicino alla finestra della propria camera da letto; con calma si alzò dal letto, avvicinandosi al dipinto ancora incompiuto e lo sguardo carezzò le forme del viso e del corpo che, lentamente, stava prendendo vita: essere l’erede di Gabriel, non solo significa prendere il posto di Adrien nella vita politica della città, ma diventare anche una pedina nei giochi che regolavano le relazioni fra le famiglie importanti di Paris.
Significava diventare il promesso di lei, della fanciulla che stava disegno.
Di Chloé Bourgeois.

   
 
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