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Autore: Shireith    24/09/2017    1 recensioni
Non è colpa di Daichi se Suga, due anni prima, si era risvegliato tutto solo in una triste stanza di ospedale e aveva scoperto di essere stato sottoposto a un’amputazione che gli aveva salvato la vita. Non è colpa di Daichi se, piuttosto che “fortunato” – come avevano detto i medici –, Suga, steso su un letto di ospedale, impossibilitato a muoversi e libero di piangere la sua frustrazione, si sentiva condannato a scontare una sorta di pena. Per un atleta, del resto, non c’è pena più grande che rinunciare allo sport per cui si vive.
{DaiSuga; future!fic // Questa storia partecipa al contest "Humans +" a cura di Fanwriter.it!}
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Daichi Sawamura, Koushi Sugawara
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Iniziativa: Questa storia partecipa al contest “Humans +” a cura di Fanwriter.it!
Numero Parole: 3597
Prompt/Traccia: #6. B deve far accettare ad A che la sua vita non è perduta anche se non è più del tutto… umano.


Iridi brune, capelli cinerei – un’altra volta tu colora la mia vita



 Il locale è quasi vuoto.
  Suga entra silenzioso, quasi a chiedere il permesso – è come un serpente che striscia in un territorio che conosce, ma che lo fa sentire estraneo. Dall’altra parte dell’angusta stanza, un uomo anziano, prima intento a lucidare un bicchiere di cristallo, alza lo sguardo su di lui. Suga ricambia l’occhiata, che – loro lo sanno – assume il significato di un saluto; tuttavia non si avvicina, non gli parla. Si va a sedere al suo solito posto – un angolo distante dal bancone, dove una luce soffusa gli concede una tranquilla e piacevole lettura.
  Accomodatosi, il giovane fa scorrere lo sguardo su tutto il locale – gli ci vuole poco, è piccolo e poco frequentato: i clienti, non c’è da stupirsi, sono sempre i soliti. Come primo dei pochi riconosce il ragazzo che dall’aspetto dimostra poco più di vent’anni e che, come lui, è un universitario. Poi c’è una donna bionda, che crede non abbia né marito né figli, perché quasi tutti i giorni la vede prolungare la sua permanenza in quel locale, come lui.
  La realtà è che, per Suga come per quei pochi altri che lo frequentano, il locale è come un luogo al di là del tempo e dello spazio dove essi si recano costantemente per fuggire – fuggire dalla società, dalla gente. Ma, soprattutto, fuggire da loro stessi. Il solo fatto di recarsi in quel locale con cadenza regolare è la prova silenziosa della loro solitudine.
  Suga ha come l’impressione che essa lo accompagni, sempre – la sente come una melodia triste che gli riecheggia nella mente incessantemente, sulla stessa frequenza su cui sono sintonizzati gli altri.
  Suga conosce i loro volti, e loro conoscono il volto di Suga. Si reca lì da due anni, da quando, dopo aver subìto un grave incidente, ha scoperto il posto; alcuni sono lì da prima, altri sono arrivati dopo, ma ognuno di essi sa come sono fatti gli altri.
  Tutti conoscono tutti, si potrebbe dire; tuttavia Suga sa che, in verità, nessuno conosce davvero qualcuno. Si vedono, si osservano, forse riescono a dedurre qualche sfumatura della vita dell’altro da un particolare, ma non si parlano. Gli basta sapere che altri sono lì per sapere che anch’essi stanno fuggendo da qualcosa, non gli interessa altro.
  Questa consapevolezza e il senso di anonimato che il posto gli concede fa sentire Suga tranquillo: nessuno pretende niente da lui, non deve sentirsi schiacciato da una società indifferente alla sua stessa esistenza; allo stesso tempo, però, Suga soffre. Alle volte avverte quel luogo come un inferno in cui lui e le altre anime si recano a scontare le proprie pene.
  “Chi sei? Che cosa ne stai facendo della tua vita?”, sembra urlargli quel posto.
  Suga non lo sa.
  La parte strana, però, è che è lui stesso che di sua spontanea volontà si reca in quel locale, anche se, alla fine dei conti, gli fa più male che bene.
  Suga poggia la borsa tracolla su una sedia e ne tira fuori un libro: L’arte di correre, di Haruki Murakami. Anche il libro, come il locale, è pari a una tortura gratuita; ma non può fare a meno di rileggerlo, gli piace troppo. L’amore dello scrittore per la corsa, la sua soddisfazione alla fine di ogni traguardo raggiunto gli ricordano di lui e la pallavolo.
  Se chiude gli occhi, gli viene naturale udire lo scricchiolio delle scarpe da ginnastica contro il legno lucidato della palestra; il rumore della palla che si infrange sulle mani dei giocatori, per poi cadere a terra; le urla concitate dei giocatori incitarsi e sostenersi a vicenda. Sente come se fosse di nuovo insieme a Daichi e a tutti gli altri a combattere per poter rimanere in campo fino alla fine e provare poi la soddisfazione di un campione. Ma sa che niente di tutto ciò è vero, che non è altro che un sogno destinato a non vedere mai la sua realizzazione.
  Ritorna alla realtà in modo brusco e violento, dandosi dello stupido per essersi fatto nuovamente trascinare dai bei ricordi del passato.
  Un sospiro sconsolato gli affiora sulle labbra, mentre scuote la testa e distoglie la sua attenzione dal libro.
  Torna allora a guardarsi intorno; anche con un’occhiata poco attenta – è più che altro perso nelle sue elucubrazioni mentali –, Suga nota una nuova presenza. È girato di spalle e gli si vedono solo i capelli castano scuro tagliati molto corti, ma, intuisce, si deve trattare di un uomo non più vecchio di venticinque anni.
  Suga si distrae un attimo nell’osservarlo, poi ritorna al suo libro. Anche se rievoca in lui momenti che mai più sarà in grado di rivivere, lo adora: in meno di un minuto vi si è già immerso completamente, perdendo contatto con la realtà.
  «Suga?» La voce giunge alle sue orecchie istantaneamente, investendolo come una forte corrente d’aria in una giornata già fredda di per sé.
  Alzando la testa, i suoi occhi color nocciola ne incontrano un paio della stessa cromatura, ma più scuri. «Daichi…» soffia sulle labbra, incredulo di vedere l’ex compagno di squadra proprio in quel bar. Il suo nome è tutto ciò che riesce a dire.
  «Ero sicuro che fossi tu, ma non mi sembrava possibile! Che incredibile coincidenza, eh?»
  Suga annuisce, forzando un sorriso. «Che cosa ci fai tu qui? E non intendo in questo bar, ma proprio qui a Tokyo. Pensavo vivessi ancora a Sendai.»
  «Infatti è così; sono qui per lavoro.»
  «In questo bar?» domanda ironico.
  Daichi si massaggia imbarazzato la nuca. «Mi sono perso e volevo chiedere informazioni.»
  Suga ride come non fa da settimane.
  «Sendai è grande, ma Tokyo è tutta un’altra cosa.»
  «Non hai tutti i torti» gli concede dopo qualche secondo, quando finalmente smette di ridere. «Comunque, dove dovevi andare?»
  Daichi prende posto al suo tavolo, proprio di fronte a lui, dove la terza sedia è libera. «Non lo so, avrei dovuto incontrare un mio ex collega che si è trasferito qui un anno fa dalla stessa azienda di Sendai per cui lavoro anch’io. Se tutto va bene, riuscirò anch’io a ottenere una promozione qui a Tokyo.»
  «Vuoi trasferirti a Tokyo?»
  «Ci spero. Anche se ho dei legami a trattenermi a Sendai, sento che sarebbe un gran salto di qualità. La paga è molto più alta, sai, e mi permetterebbe di vivere bene anche in una città costosa come Tokyo.»
  «Sta’ solo attento a non perderti di nuovo» ridacchia Suga.
  «Puoi sempre farmi da guida tu» lo rimbecca Daichi. Il corvino non fa caso alle parole che dice, non sa quanto dolore possano provocare nel suo amico di vecchia data.
  Suga, di colpo, si incupisce; con la mano destra stringe forte la carne della coscia su cui è posata, ricordandosi che, non appena si supera il ginocchio, la sua gamba prosegue in una protesi. La odia. È uno stupido pezzo artificiale che di un ginocchio ha solo una parte della mobilità: gli permette di reggersi su due gambe e di muoversi, ma lo rende deforme, non umano. Quando cammina, poi, il gesto non è del tutto naturale, ma meccanico; Suga sa che la gente lo nota e lo guarda con compassione.
Perché mi guardate? Non ho niente che non va. Non sono un mostro. Non sono un “povero ragazzo” che ha bisogno di aiuto. Giratevi. Non mi guardate, pensa costantemente.
  «Mi dispiace, Daichi, non posso. Ho un impegno che non posso rimandare» mente, la bocca incurvata all’ingiù. Non è difficile mostrarsi dispiaciuto, perché lo è davvero, anche se per un’altra ragione.
  Sa com’è fatto Daichi, sa come reagirebbe se lo scoprisse. Si sentirebbe costretto a fare qualcosa per lui, come se fosse stato lui quel guidatore ubriaco che l’aveva investito e costretto a perdere una gamba. Non è colpa di Daichi se Suga, due anni prima, si era risvegliato tutto solo in una triste stanza di ospedale e aveva scoperto di essere stato sottoposto a un’amputazione che gli aveva salvato la vita. Non è colpa di Daichi se, piuttosto che “fortunato” – come avevano detto i medici –, Suga, steso su un letto di ospedale, impossibilitato a muoversi e libero di piangere la sua frustrazione, si sentiva condannato a scontare una sorta di pena. Per un’atleta, del resto, non c’è pena più grande che rinunciare allo sport per cui si vive.
  Suga non aveva incentrato il suo futuro sulla pallavolo, così come non avevano fatto Daichi e altri suoi ex compagni, ma la pallavolo, la sua migliore amica, non se n’era mai andata; ci giocava ancora, seppur non a livello agonistico.
  L’incidente, però, l’aveva cacciata via.
  «Capisco», risponde Daichi, «allora vorrà dire che chiederò indicazioni al barista. Però, Suga, che ne dici di vederci, uno di questi giorni? Devo rimanere a Tokyo un paio di giorni; sarebbe un peccato bruciare questa occasione, non credi?»
  «Hai ragione» afferma con finta risolutezza. «Se mi dai la tua mail, vediamo di organizzare un incontro.»
  Daichi annuisce. Tira fuori il cellulare e lo porge a Suga, che annota veloce il suo indirizzo e-mail; poi gli restituisce l’apparecchio elettronico.
  «Allora ci vediamo.»
  Suga lo vede dirigersi al bancone, chiedere informazioni e uscire rivolgendogli un ultimo cenno di saluto.
  Quando ormai se n’è andato, Suga smette di sorridere. Le sua vera intenzione è quella di non contattarlo mai. Ora ha l’indirizzo e-mail di Daichi, ma Daichi non ha niente di lui, che ha cambiato tutti i recapiti. Se anche Daichi ottenesse il trasferimento a Tokyo, Suga preferirebbe smettere di frequentare il bar; è stato lì un’infinità di volte, ma nessuno, nemmeno il proprietario, sa il suo nome, figurarsi il suo indirizzo o l’università che frequenta. Daichi non potrà mai risalire a lui.

  Nemmeno dieci minuti dopo l’incontro con Daichi capisce che non ce la fa più a rimanere seduto a quel tavolo. Rivedere il suo più caro amico è stato l’ennesimo colpo di sfortuna, ma gli ha messo addosso uno strano senso di frenesia.
  Ripone il libro in borsa, la indossa a tracolla e se ne va.
  Uscito dal locale, però, un piede messo male lo fa inciampare. Cade a terra in modo brusco, sostentando il peso del proprio corpo con i palmi delle mani e il ginocchio sinistro. I ciottoli sparsi per terra – l’entrata del bar dà su un vicolo poco conosciuto e curato, che a molta gente sfugge anche alla vista – gli procurano delle lievi ferite là dove la carne ha incontrato il suolo. Suga, messosi seduto, ripercorre i palmi sbucciati con l’indice della mano opposta, un sorriso rassegnato a increspargli le labbra.
  Le ferite sono superficiali; non sono queste, infatti, a interessargli, ma ciò che esse rappresentano: la prova inequivocabile che pur non avendo bisogno di un costante aiuto esterno, quella protesi segna comunque la sua esistenza.
  Controlla che non le sia successo niente; accertatosi che è tutta intera, quindi, si rimette in piedi con un po’ di fatica.
  Un rumore di qualcosa che cade attira la sua attenzione, facendolo voltare.
  Suga vede la scena come a rallentatore: lui che si gira e vede Daichi, capendo che l’ex compagno di squadra ha appena assistito alla patetica scena che riassume bene i suoi ultimi due anni di vita.
  Non sa perché Daichi sia ancora lì, non gli interessa; tutto ciò a cui riesce a pensare è che l’ha visto, che adesso sa.
  La sua espressione è indecifrabile. Ribrezzo? No. Daichi è tante cose, ma è troppo buono e gentile per lasciarsi trasportare da un sentimento del genere. Compassione, immagina poi, convinto che la sua precedente caduta si modelli perfettamente a tale sentimento.
  Ma poi, quando il lungo scambio di occhiate sta per finire, Suga capta qualcosa: oltrepassato l’iniziale momento di sorpresa, i lineamenti del viso di Daichi si contraggono in un’espressione di delusione.
  Suga, se possibile, spalanca ancor di più gli occhi. Non capisce: deluso, perché?
  Le labbra di Daichi si schiudono; sta per dire qualcosa, ma l’occhiata di Suga è un monito a fermarsi – si sono sempre capiti anche con una semplice occhiata d’intesa, loro due. “Non dire niente”, gli sta supplicando.
  Daichi obbedisce, ma non si muove; continua a fissarlo, criptico in volto.
  Suga sente gli occhi pizzicare. Deglutisce e serra le palpebre, riaprendole soltanto dopo essersi voltato e aver lasciato il vicolo.
  Se solo potesse, si metterebbe a correre e griderebbe a squarciagola fino a perdere la voce e crollare esausto sulle sue stesse gambe, ma non può, perché con tutte le probabilità rovinerebbe a terra anche prima dei cento metri. Allora prende a camminare veloce, non dando peso, per la prima volta in due anni, a quanto goffo possa sembrare mentre arranca per le strade brulicanti della capitale.
  Quando finalmente si ferma, non sa dove sia né per quanto abbia camminato. Svolta in un vicolo, più nascosto e angusto di quello in cui si trova l’entrata del bar che è solito frequentare, e si accascia a un muro, strisciandoci sopra il tessuto del maglione che indossa fino a ritrovarsi a terra in ginocchio.
  Il suolo si bagna subito delle lacrime che si riversano copiose dagli occhi nocciola di Suga, mentre la ruvida parete di mattoni contro cui il suo pugno picchia gli sfregia la pelle.



***


Suga agguanta un’altra patatina dal pacchetto, tornando invano con lo sguardo sui libri. Sta cercando di studiare da più di un’ora in vista di un importante esame, ma non è riuscito ad assimilare nessuna delle nozioni lette: le sue iridi scorrono veloci sulle pagine dei libri e leggono ogni parola, ma il loro significato gli sfugge. Nella sua mente, adesso, c’è spazio solo per Daichi.
  Sono passate più di due settimane dal loro incontro. Che cosa avrà pensato di lui, scoperta la verità? Sarà riuscito a ottenere il trasferimento a Tokyo? Oppure sarà tornato a Sendai?
  Suga non lo sa, e anche se cerca di convincere se stesso che non gli importi, la sua mente viaggia costantemente a Daichi in pura autonomia.
  Il trillo del campanello interrompe il suo flusso di pensieri. A Tokyo, Suga non ha mai ricevuto la visita di amici o compagni di università; è sicuro che, come al solito, sia la donna che vive nell’appartamento di fianco, che ha sempre da lamentarsi per cose di cui lui non è nemmeno il responsabile.
L’ultima volta era il cane che abbaiava. Ma io cosa potevo farci? Non era di certo mio.
  Quando apre la porta, però, le sue iridi nocciola non ne incontrano di grigie come quelle che possiede la sua vicina; no, sono castano scuro, quasi tendenti al nero. Ma lui le conosce fin troppo bene per confonderne la cromatura.
  Questa volta, le sue labbra non sono in grado di pronunciare nemmeno il suo nome. Non sa né cosa provare, né cosa dire, né cosa fare.
  «Posso entrare?»
  «Certo» acconsente Suga, aprendo di più la porta e facendogli spazio per passare. «Come…?»
  «… ho fatto a sapere dove abitassi?»
  Suga annuisce.
  «Non è molto difficile rintracciare una persona, al giorno d’oggi. Considerando poi il bar in cui ci siamo rivisti, era scontato che non vivessi molto lontano da lì.»
Ovviamente, si dice. È stato stupido a non pensarci. «Ti vuoi accomodare?» lo esorta, spostandosi di lato e protendendo un braccio in direzione del salotto.
  Daichi annuisce e lo precede, incamminandosi. Non lo può sapere, ma per Suga è già qualcosa: camminare davanti a lui con la protesi, anche solo per qualche metro, sarebbe stata l’ennesima sconfitta.
  L’appartamento è modesto, constata Daichi, ma, come c’è da aspettarsi da Suga, è un’ambiente ordinato e accogliente. Una strana sensazione, però, gli risale lungo lo stomaco come un verme strisciante sotto pelle; sente che qualcos’altro si nasconde in quell’appartamento, ma non riesce a capire cosa.
  «Vuoi che ti porti qualcosa?»
  «No», rifiuta cortesemente, «voglio solo parlare.»
  «Lo immaginavo» dice, sorridendo mestamente e volgendo lo sguardo lievemente in basso, lontano dalle iridi brune di Daichi.
  Dopodiché, nessuno dei due dice più niente. Suga gioca nervosamente con le dita, aspettando che sia Daichi a parlare: anche se volesse, non saprebbe da dove iniziare.
  «Perché non me l’hai detto?»
  Suga spalanca gli occhi, alzando immediatamente lo sguardo sul corvino. «Che… cosa intendi?»
  «Quello che ho detto» asserisce, convinto. «Avresti potuto dirmelo.» Socchiude le palpebre, gli occhi velati di una sfumatura di amarezza, spostando un attimo lo sguardo dalla figura del ragazzo che ha di fronte. «Io ti avrei supportato, lo sai.»
  Non se lo sarebbe mai aspettato, Suga. Daichi non pare offeso o deluso dalle sue bugie, contrariamente alla conclusione a cui era giunto nelle ultime due settimane. Ma non serve che dica altro, perché ha ragione: Suga sa. Tutto ciò che Daichi pretende di sapere è perché non si è fidato di lui, ritenendolo indegno di apprendere la verità.
  Si morde il labbro inferiore e serra la mano sinistra in un pugno deciso, mentre con l’altra raccoglie la stoffa dei pantaloni e li alza, mostrando la protesi. «Guardami, Daichi. Guarda che cosa mi porto dietro ogni giorno. Non posso più giocare a pallavolo, non posso nemmeno camminare come una persona normale che tutti si girano a guardarmi. Una cosa così non passa facilmente inosservata, sai? Allora dimmi perché avrei dovuto caricarti di un peso simile. Dimmelo, Daichi!» grida, non preoccupandosi più di mantenere un contegno. «Sapendo come sei non mi avresti mollato un attimo, infatti eccoti qui.» Il suo sguardo è puntato di lato, non ha il coraggio di indirizzarlo su Daichi.
  Cos’ha di strano quell’appartamento adesso lo sa, Daichi. È spento, triste, anonimo. È come il Suga che ha di fronte adesso, rassegnatosi a condurre un’esistenza che non gli appartiene.
  «Sei proprio uno stupido» dice con tono neutro, e Suga non capisce se sia un insulto o cosa. «Dici un mucchio di cavolate, sai? Non puoi più giocare a pallavolo? E allora? Non sei un’atleta di una squadra nazionale. Non sei Hinata, che in campo corre più di tutti gli altri giocatori messi insieme. Non sei Hinata, già, ma c’è una cosa alla Hinata che il Suga i un tempo avrebbe fatto. Lui avrebbe combattuto, come ha fatto quando ha insistito per imparare a schiacciare. Lui non avrebbe dato peso alla gente, come ha fatto quando c’era chi diceva che, con un alzatore come Kageyama, lui non era altro che un giocatore superfluo. Questo è il Suga che conosco, non quello che ho di fronte!»
  Mai Suga ha visto Daichi comportarsi in questo modo. Diverse volte, quasi sempre a causa di Noya, Tanaka o altri membri scapestrati della Karasuno, Daichi si era comportato come “padre della squadra” e aveva alzato la voce per farsi valere, ma non con così tanta foga. Ma poi, come sempre era successo, Daichi ritorna calmo, com’è nella sua indole.
  Prima alzatosi, ora si risiede, questa volta vicino a Suga, sfiorandogli delicatamente la mano. In un’altra occasione non ne avrebbe avuto il coraggio, ma adesso si sente quasi in dovere di farlo.
  Suga è ancora girato di lato, sebbene le parole di Daichi lo abbiano colpito nel profondo; avverte il palmo caldo del corvino posarsi alla base del suo mento e attirare il suo sguardo a sé.
  «Non sei un’atleta professionista, puoi ancora giocare a pallavolo senza dar conto a nessuno, anche se fai pena e sei più scarso degli altri» scherza.
  «Ehi, guarda che non faccio pena» lo rimbecca, ridendo a sua volta. «Anche se sarò sicuramente arrugginito, questo sì.»
  «E allora? Posso aiutarti io a levare la ruggine» asserisce, lasciando ben intendere qualche altra sfumatura di significato non del tutto casta.
  Suga vuole smettere di esitare. Si protende in avanti quasi timidamente e posa le sue labbra su quelle di Daichi, che le accoglie schiudendo le proprie.
  Il loro primo bacio assume un andamento incerto, con Daichi che tiene gli occhi socchiusi e Suga che non sa dove riporre le mani, se sul collo del corvino, tra i suoi capelli o lungo i fianchi. Decide, infine, di optare per quest’ultima opzione; Daichi, intanto, spalanca gli occhi, desideroso di ottenere di più da quel bacio, e posa una mano dietro la nuca dell'altro, carezzandogli i capelli cinerei.



***


«Sugawara!» chiama la palla un compagno di squadra.
  Daichi osserva Suga in procinto di alzare la palla in avanti, dunque corre a destra, posizionandosi davanti al giocatore che ha chiamato la palla, pronto a saltare. Intanto un altro compagno della squadra avversaria è corso alle spalle di Suga, per confondere il muro avversario, attirando di fatti a sé un componente del muro avversario.
  I due schiacciatori e i rispettivi giocatori della squadra avversaria che li murano saltano: inaspettatamente, Suga finge solo l’alzata, ripiegando poi su un attacco di seconda intenzione. Daichi e altri due dei suoi si buttano in recupero della palla, invano.
  Quando vede la palla cadere nel campo avversario prende a osservarsi incredulo le mani, riscoprendo dentro di sé il brivido di eccitazione che gli risale lungo la schiena quando una sua palla alzata fa punto. Questa volta, poi, sono stati gli schiacciatori, fungendo da esche, a essere di supporto all’alzatore, non viceversa.
Sto di nuovo giocando a pallavolo. E ho fatto punto.
  Suga non può saperlo, ma, in quel momento, assume la stessa espressione carica di gioia e orgoglio che ha visto fare ad Hinata il giorno in cui un vero alzatore – ossia Kageyama – gli ha alzato una palla per la prima volta. A quel tempo, per Hinata ciò non era una cosa scontata, poiché dei veri compagni di squadra non li aveva mai avuti. Allo stesso modo, per Suga fare punto è un grande traguardo, perché per due anni ha vissuto nella convinzione di non poter più essere amico del pallone.
  Per lui, adesso, il locale in cui ha rincontrato Daichi non è più un inferno, ma un purgatorio: per due anni ha fatto i conti con le sue pene, e adesso può finalmente accedere al paradiso.
   
 
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