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Autore: SalvamiDaiMostri    25/09/2017    2 recensioni
Siamo in molti a non aver accettato l'epilogo della quarta stagione: con questa stagione cerco di aggiustare un paio di cosette del finale, chiaramente in chiave Johnlock. Cominciamo con John sul fondo del pozzo che si sta inesorabilmente riempiendo d'acuqa aspettando l'arrivo dei soccorsi, e vedremo dove andremo a finire!
Genere: Drammatico, Fluff, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Quasi tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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John attendeva il ritorno di Sherlock nell’auto parcheggiata presso al Saint Barth: quando erano partiti aveva detto al compagno che sarebbero dovuti passare dall’ospedale e che poi sarebbero andati fuori città. Volle entrare da solo, senza spiegazioni.
In pochi minuti Sherlock fu di ritorno: portava in mano una scatola di cartone marroncino, liscia, con diverse etichette sul coperchio; la depositò nel baule e risalì in auto, sedendo sul sedile del conducente. John, nonostante ignorasse del tutto quale fosse la loro meta, cominciò a maturare un’ipotesi, ma non volle dire nulla.
A poco a poco uscirono dalla città, passando dai quartieri più esterni della capitale, oltrepassarono la zona industriale fino ad arrivare nel pieno della splendida campagna inglese.
Era da poco passato il mezzogiorno e il sole prometteva uno splendido pomeriggio.
I due ascoltavano la radio nazionale in sottofondo, avanzando chilometro dopo chilometro in quello che era un viaggio piuttosto silenzioso, ma nonostante (John stesse capendo che) sarebbe stato discretamente lungo, il silenzio non pesava affatto: la sera prima si erano detti cose di un certo peso ed era innegabile che fossero ancora scossi dagli eventi dei giorni precedenti. Del sano silenzio era del tutto gradito ad entrambi che, senza il bisogno di parlare, comprendevano perfettamente i pensieri dell’altro e gradivano il rispetto reciproco delle loro esigenze.
John aveva inoltre la sensazione che Sherlock si stesse preparando a parlare di nuovo con qualcuno, a dover fare nuovamente un discorso come quello che aveva fatto a Molly il giorno prima e che doveva riuscire ad essere sincero, riuscendo comunque a dire tutto ciò che doveva in un ordine preciso.
Dopo un paio d’ore di viaggio lasciarono l’autostrada e John lesse da cartello sul ciglio della strada che stavano entrando nei confini di Aldershot, e dunque fu chiaro dove si stavano recando: fuori dai confini della cittadina, sorgeva Musgrave, la casa natale di Sherlock ed i soi fratelli.
John rabbrividì un istante nel pensare che stavano tornando in quella zona dove così poche ore prima avevano rischiato la vita: tornarono alla sua mente le immagini di quella notte, poteva sentire l’acqua gelida avvolgere il suo corpo, il gelo penetrargli nelle ossa, la paura paralizzante di non farcela. E nonostante tutto ciò, non disse nulla a Sherlock, non gli domandò perchè diavolo stavano tornando lì così presto, non gli disse che non voleva tornarci: la sua fede in lui gli prometteva che non sarebbe stato di nuovo in pericolo, che stavano andando in luogo sicuro. John si preoccupò quindi soltanto di mascherare bene il proprio timore, forse tradito da un paio di sospiri forse troppo profondi.
Ma non si avvicinarono a Musgrave.
Sherlock parcheggiò l’auto davanti alla recinzione di un piccolo giardino molto curato di una casina estremamente semplice, ma a modo suo molto carina, dagli infissi e la porta d’ingresso rossi.
Scesero entrambi dall’auto e, ancora senza dirsi una parola, si addentrarono nel giardino fino ad arrivare alla porta d’ingresso. Sherlock esitò un secondo davanti al legno rosso, gettò lo sguardo a terra e sospirò. Ma poi guardò John che gli sorrise dolcemente e riuscì a trovare il coraggio di suonare il campanello.
Dopo qualche istante una signora sugli ottant’anni aprì l’uscio: immediatamente le si illuminò il viso e, dirigendo la voce verso l’interno della casa, esclamò:
“Caro! C’è il piccolo William Holmes! Vieni a salutare!” Allora la signora si rivolse a Sherlock che le sorrise; lei sembrava sinceramente felice di vedere il consultive detective “Caro, come stai?? Ti abbiamo visto in televisione spesso…. E…. lei deve essere il dr John Watson, molto piacere...” John fece un cenno di saluto con il capo. Nel mentre si affacciò dalla porta anche un uomo, più o meno della stessa età della signora, altrettanto felice di vedere Sherlock:
“Piccolo dici cara? Ma guarda quanto è cresciuto... È un piacere rivederla William.” Disse porgendogli la mano; Sherlock la accolse con una vigorosa stretta. Poi disse:
“John, questi sono il Signor e la Signora Trevor.”
«Tesi confermata» pensò allora John.
“Molto piacere.” Disse allora il medico, piuttosto compiaciuto per aver dedotto da solo dove si stavano dirigendo, perché e chi fossero le persone che avrebbero incontrato.
La coppia invitò dunque gli inaspettati ospiti ad entrare in casa e li fecero accomodare sul divano del salotto, poi Sherlock cominciò a parlare:
“Signori Trevor, mi dispiace di non essere venuto prima per una visita...”
“Non ti preoccupare, figliolo... sappiamo che con il tempo avevi dimenticato... Tua madre venne a spiegarci tutto...” disse l’uomo.
“È normale che succedesse... Fu molto traumatico... E tu eri davvero molto piccolo...” proseguì lei.
“Io ho recuperato la memoria di Victor solo l’altro ieri, a seguito di una serie di eventi piuttosto complessi da spiegare ora...”
“Oh...” commentò la donna, compatendolo.
“Io sono venuto a scusarmi.” Disse secco Sherlock “Ebbene, mi dispiace di non essere riuscito a trovare Victor in tempo. Mi dispiace che mia sorella l’abbia ucciso. Vi prego di perdonarci.”
Ci fu qualche istante di silenzio in cui alla donna si inumidirono gli occhi, poi rispose:
“Caro, non c’è bisogno di fare delle scuse del genere... Eri un bambino: non hai colpa di nulla...”
“Sì, invece. Avrei dovuto risolvere l’indovinello di Euros e tutto sarebbe andato diversamente.” Fece una pausa per darsi il tempo di ordinare le idee e anche per dare all’anziana coppia modo di commprendere con chiarezza il suo discorso “Io, l’altro ieri, sono riuscito a risolverlo l’enigma. E... Ho trovato Victor.” La signora si portò le mani alla bocca sconcertata; il marito le strinse la spalla con la mano. Entrambi guardavano attoniti il giovane uomo che un tempo era stato il migliore amico del loro bambino disperso e, per un attimo, un assurdo raggio di vana speranza illuminò i loro cuori. Piuttosto messo in soggezione da quella situazione, Sherlock cercò di spostare l’attenzione sul suo compagno: “In realtà è stato il dottor Watson a rinvenirne i resti...” John sorrise imbarazzato, in fondo era stata una malaugurata coincidenza “Ecco... Li ho portati con me. Sono nell’auto. Sono venuto a riportarveli.”
Nuovamente, John confermò la propria ipotesi: la scatola di cartone che Sherlock aveva prelevato al Saint Barth conteneva i resti del piccolo Victor che avevano rinvenuto il giorno prima in fondo al pozzo. John si offrì di andarla a prendere dal baule dell’auto e così fece. Il medico la porse dunque con delicatezza tra le mani dell’uomo che, ancora sconvolto, la accolse con un fremito.
“È completo.” Aggiunse Sherlock “Mio fratello Mycroft ha fatto in modo che la scientifica procedesse il più velocemente possibile con le analisi obbligatorie in questi casi e che le ossa fossero disponibili quanto prima. Sono state ben ripulite e disposte in questa scatola.”
Le lacrime cominciarono a scorrere lungo le guance della signora:
“Il mio bambino... Lo avevamo cercato così tanto... Ovunque! Avevamo perso la speranza di trovarlo e... Dopo tutti questi anni... Tu, me l’hai riportato...” singhiozzò “Grazie… Grazie...”
“Grazie, figliolo...” disse anche l’uomo con voce rotta. Sherlock rispose con un cenno del capo, a labbra strette.
Gli ospiti lasciarono qualche minuto all’anziana coppia per sfogare le loro emozioni, l’uno tra le braccia dell’altra, accarezzavano quella scatola con le mani tremanti.
Poi, la signora si asciugò le lacrime e andò a preparare un tè e, davanti alla bevanda calda e qualche biscotto, la coppia cominciò a ricordare e a raccontare aneddoti riguardo a Victor. Parlarono a lungo dei giochi del figlio insieme a Sherlock, e quest’ultimo a sua volta riallacciava i ricordi e, poco alla volta, cominciava ad aggiungere dettagli segreti alle bizzarre storie che raccontavano.
John, piuttosto in disparte in tale conversazione, osservava la scena abbastanza insolita: le lacrime si mischiavano ai sorrisi, Sherlock e la sua mente brillante in così poche ore avevano recuperato ricordi straordinari di un infanzia dimenticata da oltre trent’anni, di mappe del tesoro disegnate a pastelli, spade forgiate con aste di legno trovate nel pollaio del vicino, tesori fatti di ciambelle sottratte a Mycroft... E John non poteva fare a meno di notare che quei ricordi dolci e allo stesso tempo terribilmente amari stavano avendo un particolarissimo effetto su Sherlock: era come se stesse cambiando, evolvendo, proprio davanti ai suoi occhi, come se quei ricordi di cui parlava lo stessero accrescendo come essere umano nell’atto stesso di raccontarli. Tutto ciò era a dir poco straordinario, e John ebbe l’impressione che per l’anziana coppia quello fosse un regalo inaspettato davvero molto speciale.
“Ho appena avuto un’idea...” disse ad un certo punto la donna rivolgendosi al marito “Se sei d’accordo, caro, io non farei una cerimonia per Victor...” l’uomo annuì vigorosamente “Stavo pensando che potremmo seppellirlo noi... Magari qui ad Aldershot dove giocavate insieme...” e nel dirlo si rivolse a Sherlock.
“Se lo desiderate, potreste farlo proprio nel giardino di Musgrave.” suggerì Sherlock “È lì che abbiamo vissuto le nostre più grandi avventure… E c’è già quel piccolo cimitero accanto alla casa. È un luogo pacifico...” la coppia sorrise con gratitudine. Lei poi aggiunse:
“Se non sbaglio, di sopra ho ancora uno dei suoi vecchi forzieri: dovrebbe essere grande abbastanza e possiamo inciderci sopra ciò che vogliamo...”
“Penso che sarebbe molto appropriato, cara!” esclamò entusiasta l’uomo
“Sarà il nostro tesoro nascosto...” disse lei.
“Il grande Red Beard non avrebbe voluto di meglio...” commentò Sherlock con un amaro sorriso.
 
Poco dopo, una volta cominciato a calare il sole, Sherlock cominciò a dire che lui e il suo compagno sarebbero dovuti tornare: la signora Hudson si stava di nuovo occupando di Rosie ed era ora che le dessero il cambio e, nonostante le insistenze della signora per restare a cena, si congedarono e ripartirono.
Mentre si dirigevano verso la capitale, John sentí la necessità di parlare all’amico, dopo tutte quelle ore che era rimasto spettatore del suo silenzio o del peculiare quadretto a casa Trevor:
“Sei stato bravo Sherlock, credo che tu abbia davvero fatto una bella cosa.” Sherlock annuì appena, molto serio “Ti chiamano William, lo trovo adorabile...”
“È il mio nome.”
John rimase impietrito: era vero. Glie lo aveva detto prima di salire su quell’aereo, sull’orlo di un’overdose: William Sherlock Scott Holmes, that’s the whole of it. Quasi non ci aveva fatto caso quel giorno... Sherlock aveva sempre usato il suo secondo nome, non aveva mai sentito nessuno chiamarlo William, nemmeno i suoi genitori o Mycroft.
“Giusto... E... Come mai, adesso...?”
“Perchè mi faccio chiamare Sherlock?" Sherlock, per ovvie ragioni, teneva gli occhi sulla strada, mentre John si prendeva la libertà di osservarlo di tanto in tanto. "Sinceramente fino ad un paio di giorni fa non lo ricordavo. Pensavo che mi avessero sempre chiamato così... E, infondo, William era un nome banale... Ma poi ho ricordato.” John lo osservava sin troppo coinvolto “Era stata mia madre a scegliere William, come Shakespeare, il suo preferito. E tutti mi chiamavano William o Will o... Billy. E siccome adoravamo i pirati... Così come Victor Trevor era Red Beard perchè aveva i capelli rossi, io ero-”
“Billy Kidd, il pirata scozzese.”
“Appunto.” Disse annuendo “E quando Red Beard morì, credo che il nome da pirata fu la prima cosa che volli strapparmi di dosso, forse l’unica che abbia rimosso volontariamente: era fisicamente doloroso sentirmi chiamare come lui mi chiamava per gioco, quel nome era qualcosa di nostro, quello che usavo in una realtà in cui lui era fondamentale. Non aveva più senso senza di lui. Ricordo che cominciai a sgridare mia madre ogni volta che mi chiamava William, o peggio Bill... Mi mettevo ad urlare... Io sono Sherlock! dicevo... Ed immagino di averli convinti, con il tempo... E poi dimenticai.”
“Capisco... Devo dire che ti si addice.”
“Direi che trent’anni con il nome più ridicolo del mondo non verranno gettati alle ortiche troppo facilmente. Direi che terrò Sherlock.”
“Ti ricordo che volevi che chiamassi così mia figlia.”
“Penso che lei sarà più che felice di aver tenuto i nomi della madre quando sarà più grande.” John rimase in silenzio, pensando al fatto che Rosie non avrebbe mai ricordato la donna di cui portava i nomi. Poi domandò:
“Come ti senti... dopo tutto questo?”
“Io... Beh, tutto d’un tratto ricordo tutte queste cose... Così tanti momenti che avevo seppellito... È come se fossero di qualcun altro. È disarmante. La mia mente è stato il mio più valido alleato, da sempre, uno strumento che conoscevo alla perfezione e che non aveva segreti per me... e, all’improvviso, scopro che mi ha tradito... Per cosi tanti anni... Non ho mai provato una sensazione del genere.” John avrebbe voluto dire qualcosa di confortante, ma non riuscì a trovare nulla di adatto, ma Sherlock proseguì “Grazie per avermi accompagnato, non ce l’avrei fatta da solo.”
“Ma se non ho fatto niente...”
“Il fatto che tu sia con me è sufficiente. Lo è sempre stato.” Nonappena ebbe pronunciato quelle parole se ne pentì terribilmente: tutte quelle emozioni e quei sentimentalisimi lo avevano portato a perdere il controllo durante un breve istante e aveva parlato più del dovuto.
 Arrossirono entrambi e decisero silenziosamente  di non guardarsi a vicenda per un bel lasso di tempo e fingendo di non aver inteso quelle parole con il vero significato con cui erano state pronunciate.
 


 
Dunque andiamo con ordine! In primis: Sherlock restituisce ai Trevor le ossa del piccolo Victor, e penso che fosse molto più che doveroso e necessario. Poi, la teoria del nome! Vi piace? Non è mia chiaramente, sono anni che è in giro la storia di Billy Kidd, sin da quando si sospettava che Red Beard fosse il cane-pirata morto, moltissimi pensavano che Sherlock avesse abbandonato il nome di William perchè troppo legato al mondo dei pirati e dei giochi con Red Beard: direi che adesso Red Beard sia un bambino vero in carne e ossa la rende ancora più plausibile. Davvero ci hanno lasciato senza alcuna spiegazione su sto nome?? Nella terza stagione buttano lì senza alcun ritegno il nome completo (che i fan dei libri già conoscevano) e ci vogliono far credere che una persona nata e cresciuta in questo secolo abbia scelto il secondo nome più astruso della storia da usare principalmente così a caso? Beh non mi va giù.
Ed infine, Sherlock, in vena di sentimentalismi, confessa a John che il fatto di essere anche solo fisicamente insieme è sempre stato abbastanza per lui. Abbastanza per riuscire nell’impossibile... e, anche se forse è un po’ ovvio, a me piaceva l’idea che venisse detto ad alta voce.
Io spero che anche questo capitolo vi sia piaciuto e vi chiedo cortesemente di lasciarmi un commento qua sotto: sono sempre molto utili e mi fa sempre tanto tanto piacere leggerli. Vi ringrazio infinitamente per essere arrivati a leggere fino a qui e vi rimando al prossimo capitolo. Con grande affetto, un abbraccio. _SalvamiDaiMostri
   
 
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