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Autore: you_are_my_Evangeline    27/09/2017    2 recensioni
Dal testo:
"Sai che ti mollerebbe due calci sulla faccia se ti vedesse crollare in questo modo. Tu che sei (eri) la sua roccia.
Ma, Beka…
Da quanto non urli così?
Da quanto non ti bei di questo senso di pace apparente, quello che solo un azione del genere è capace di sprigionare?
Da quanto non permetti che sia questa sensazione, seppur effimera, a giovare al tuo animo distrutto, alle tue membra stanche?
Da quanto hai finito di pensare anche a te?"
-
Questa è nata dall'unione tra una grande voglia di scrivere, una grande tristezza, due canzoni e la notte.
Non avrei mai pensato che, dopo quattro anni, sarei tornata a scrivere grazie ad una canzone di Gigi D'Alessio, che di solito non ascolto.
E l'altra canzone si è inserita completamente da sola, in realtà.
Sono molto arrugginita, e per questo chiedo venia fin da subito.
Grazie a tutti quelli che leggeranno.
_you_are_my_Evangeline.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Otabek Altin, Yuri Plisetsky
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Tο πρώτο Aστέρι  - La Prima Stella 

 

 

Potessi avere io le ali

per scavalcare il cielo

volare oltre l’universo

ed arrivare dove niente è più lo stesso

 

 

Sei sdraiato lì sul tuo letto ormai da ore. Sorridi amaramente, quando ti rendi conto di come hai mentalmente definito quell’oggetto. 

Tuo, non vostro

Fino a quel momento non l’avevi mai fatto. 

E il tuo viso si contrae in una smorfia, quando capisci di provare sollievo, nel realizzarlo. 

Un’unica lacrima cade dal tuo occhio destro. Lambisce la tua guancia, per poi proseguire il suo viaggio lungo la mascella contratta, lambendo la linea del collo, il pomo d’Adamo, per poi scomparire, annullata dall’incontro con il leggero tessuto della tua canottiera. 

Che stia iniziando a finire? 

Ridi. 

No, non può finire. Non può andare via. 

Niente può cambiare. 

Decidi che non puoi farti ingannare da una lacrima. Che non puoi pensare di stare finalmente “accettando” la cosa. Non si può accettare. Lui non può andare via, o meglio, tu vorresti che non se ne andasse. Lui, il tuo nuovo amore, il tuo nuovo ed unico compagno di vita. Che è allo stesso tempo salvatore e carnefice, inferno e paradiso. Il dolore. Ultimo scoglio, ultimo ed estremo balsamo per l’anima. 

Una delle ultime cose che ti sono rimaste di lui. 

Pensi di aver già perso abbastanza, di non meritare che ti venga tolto anche quello che è diventato il tuo ultimo mezzo per sentirlo, anche se fa un male cane. 

Non importa. 

Basta che ci sia lui. 

Il suo ricordo. 

Vuoi che non se ne vadano, nessuno dei due. 

 

Vorrei farti vedere il viso mio com’è cambiato

qualche ruga mi ha graffiato

come vedi gli anni passano

 

Tre anni. 

Tre anni, ma non riesci ancora a fare a meno di lui. 

Del suo pensiero, del suo ricordo. Del dolore che ti sconquassa il petto, perché hai realizzato da tempo, che ormai è l’ultimo modo per poterlo sentire. Sentire sul serio. E ormai, non riesci più a farne a meno. 

Come un drogato senza l’eroina, o un fumatore senza Malboro, impazzisci se non è con te.

Così, ricordi. 

I fili d’oro tra le dita, lunghi e morbidi come seta, caratterizzati da quel delizioso e inebriante odore di miele e cannella. Quell’odore che ti ricorda casa, che sapeva di amore e di domeniche mattina, che nella tua mente si mischia all’aroma di tè nero e al sapore dei baci a fior di labbra dati appena svegli, con il sonno negli occhi e gli arti ancora intorpiditi. 

Quell’odore che tempo prima sognavi solo di sentire, nel letto della tua casa di Almaty, che agognavi e desideravi come l’aria. 

Che poi tornava ad ammaliarti, seppur quasi interamente coperto dall’odore altrettanto familiare di aeroporto, di treno, della calca e della fretta dei passeggeri. 

Ma non ci facevi caso. 

Non ci facevi mai caso. 

Ti concentravi su quelle iridi verdi, ambiziose e dolcissime, capaci sia di ferire a morte, sia di concentrare in uno sguardo tutto l’amore del mondo, ma in quei momenti così piene di sonno e stanchezza. E notavi quanto fossero annebbiate, quanto lui non si stesse reggendo in piedi, anche se non l’avrebbe mai ammesso ad alta voce. E finiva sempre così, che lo guidavi verso il taxi, e appena seduto crollava sulla tua spalla, iniziando a russare come quando era stanco morto, con la bocca aperta e le narici estremamente dilatate. 

Ma dopo 4 ore di treno da San Pietroburgo a Mosca e 5 ore di volo da Mosca ad Almaty, era perfettamente comprensibile. 

Così ti limitavi a coccolarlo, e lo abbracciavi come avresti voluto fare sempre, per ogni minuto fino alla fine. 

E quando tornavate a casa, arrivava la parte più bella. 

Quando si risvegliava disteso sul tuo letto, con quella dolcissima espressione confusa che faceva quando non aveva ben chiara una situazione. 

Ogni volta ci volevano esattamente tre secondi affinché prendesse nuovamente contatto con la realtà, e realizzasse di aver di nuovo sprecato un prezioso e raro pomeriggio con te a dormire. 

E gli improperi, e le bestemmie, e i “Cazzo ma è mai possibile? Dovrei esserci abituato, e invece no! Peggio di Katsudon! Beka io voglio stare con te, voglio scopare, non voglio dormire!”

Ma tu non lo ascoltavi, non ti importava nulla. 

Perché eri nuovamente concentrato su due preziose gemme smeraldine, che ricordavi sporche, ora lucidate e rese nuovamente splendenti dal sonno ristoratore. Brillanti non di rabbia, come poteva invece far intendere la situazione, ma di grande gioia. 

E di amore. 

Perché tutte quelle volgarità, quelle eresie, stavano solo a significare una cosa: Tengo a te, Beka. Tengo così tanto a te che anche se stavo morendo di sonno, avrei preferito continuare a fare lo zombie ambulante, solo per stare con te

E sapevi che questa era una delle più belle dichiarazioni d’amore che potessi mai sperare di ricevere da lui. 

E ricordi anche le linee morbide dei fianchi, stretti e dipinti di un pallido color di luna, che avevano sempre mantenuto la forma acerba di un corpo ancora in fase di crescita. 

Che ancheggiavano, torturavano, seducevano, si dimenavano solo per te. 

E le gemme che si sporcavano di nuovo, la superficie resa sporca da irrefrenabili istinti, fomentati da un’irrefrenabile lussuria. 

Perché lui poteva sembrare dolce e carino quanto voleva, agli occhi del mondo.

La fata della Russia, il gattino delle Yuri’s Angels. 

Ma in camera da letto, diventava un piccolo e perverso maniaco. 

Gli piaceva provocarti, farti raggiungere il limite per poi abbandonare i giochi, con quegli occhi da finto angioletto che avevano il solo potere di farti eccitare ancora di più. 

E ci teneva particolarmente a ricordarti di come lui fosse solo tuo. 

Quando era a cavalcioni su di te, e passava delicatamente le punte dei polpastrelli lungo tutto il torace, accarezzando gli addominali, risalendo su fino a fermarsi ai bicipiti, lasciando un bacio volutamente timido proprio sotto il tuo orecchio, continuando a sussurrare quelle frasi oscene. 

E non riuscivi ad evitare di venire stregato da quegli occhi pieni di perversione, da quei fianchi che danzavano al tempo della melodia dei gemiti di lui, sopra di te. Non riuscivi, e perché mai farlo? Era tuo, tuo, solo tuo, non ti trattenevi, non voleva che ti trattenessi. A ripensarci, sembrava che fosse accaduto millenni fa. Altre lacrime, che si susseguono veloci, come se stessero facendo a gara. 

 

Ho mille sogni ancora da inseguire

ed il più bello so a chi regalare

il tempo perso da restituire

a chi mi deve un giorno perdonare

 

Sono ore ormai, che rifletti, che rimurgini, su questi tre anni. 

Cosa hai fatto in tutto questo tempo, oltre desiderare di sentirlo? 

Oltre a ricordarlo, oltre a crogiolarti nel tuo dolore, traendone un malsano piacere? 

Ti sforzi, porti le dita alle meningi, dolorosamente contratte da tanto tempo, nemmeno tu sapresti dire da quanto. 

Piangi lacrime piene di orrore, capendo finalmente che non hai fatto nulla

Che hai passato tre anni della tua vita chiuso in casa, casa vostra (ecco che ritorna, il voi), a Mosca. Vivendo del suo profumo, che impregna le sue magliette. 

Profumo di miele e cannella, che inizi a non distinguere più molto bene. 

Incredibile come, respirandolo, tu riesca a sentirti così vivo. E incredibile pensare che per un periodo, ne avessi vissuto letteralmente. Non potrai mai dimenticare le facce di Georgi e Mila, dopo aver spaccato la porta di camera tua (vostra), e averti visto. Dopo tre mesi. Dopo tutto quello che era successo. E dopo aver passato tre giorni senza mangiare nulla. Sdraiato sul letto e sommerso dai vestiti dell’amore della tua vita. 

E non dimenticherai mai nemmeno cosa urlasti contro di loro…

<<  Chiudete subito quella porta! Il profumo… Si perde il profumo… Non posso lasciarlo andare via…  >>

Erano settimane che ti aiutavano come potevano. 

Venivano a farti la spesa, a cucinare, o pulire. Ma pulire non aveva senso, perché non lasciavi mai la tua (vostra) camera. 

Quante volte ti avevano detto di esserci, di potersi confidare... Di sfogarsi… Non avevi mai voluto. Ringraziavi educatamente da dietro la porta, salutavi, e uscivi solo quando era certo che i due fossero andati via. 

Era più facile, perdersi da solo nel suo ricordo. 

Non volevi condividere nulla con nessuno. 

Quei momenti erano tuoi, erano vostri, non ti potevano chiedere di dimenticarli.

Peccato Beka, che loro non volessero questo. Si erano allarmati, quando avevano visto che non toccavi più niente del cibo che ti procuravano. 

Erano veri amici. E se pensi a come li hai trattati… 

Ha avuto senso? Ne è valsa la pena? è stato un bene rinchiudersi in quella fortezza di miele e cannella? All’improvviso una consapevolezza.

Mi avrebbe preso a calci in culo.

Ridi, e per un attimo sembra una risata genuina, sincera. Se solo non stessi continuando a piangere. 

Si, mi avrebbe proprio cazziato. Mi sembra quasi di sentirlo urlare. “Beka, ma che cazzo combini?! Hai venticinque anni porca puttana, non ti resta molto! Non posso davvero credere che tu stia lasciando vincere quel coglione, megalomane ed egocentrico di Leroy da tre anni di fila. E tutto perché devi frignare per me.”

Ma lui non capisce… Non capisce come sia difficile. O forse no. Forse lo sa benissimo, e questo è il suo modo di farti svegliare. 

Già, più probabile.

È sempre stato così, il tuo Yura. Lui non consola piano. Lui urla, sbraita e provoca. Urlava. Sbraitava. Provocava. 

Hai proprio ragione Yura, sono un’idiota. Ma è così dannatamente difficile trovare un senso.

Continui a piangere, ed ogni lacrima è un urlo straziante. Un urlo tanto silenzioso quanto disperato, ma che risuona forte nel tuo animo, crudele, imponente. Paragonabile solo al boato di una bomba, e all’urlo di terrore di chi ci muore sotto. Sai che ti mollerebbe due calci sulla faccia se ti vedesse crollare in questo modo. Tu che sei (eri) la sua roccia. 

Ma, Beka… 

Da quanto non urli così? 

Da quanto non ti bei di questo senso di pace apparente, quello che solo un azione del genere è capace di sprigionare? 

Da quanto non permetti che sia questa sensazione, seppur effimera, a giovare al tuo animo distrutto, alle tue membra stanche? 

 

Da quanto hai finito di pensare anche a te?

 

Te ne rendi conto piano, poi la consapevolezza arriva tutta d’un colpo. 

In tre anni, hai solo pensato a lui. 

E ti sei scordato di essere Otabek Altin, eroe del Kazakhstan, pattinatore artistico di grande fama e talento. 

Che per tre anni, ti sei sentito (o hai trovato più facile sentirti) Beka, il dolce ed enigmatico Beka, compagno di Yuri Plisetsky. 

E solo adesso capisci quanto Yuri, anche se è solo nella tua testa, abbia ragione. Quanto sia stato stupido abbandonare il ghiaccio, dove la vostra unione si è creata e rafforzata. Siete caduti, vi siete rialzati, avete continuato con le vostre sequenze di passo. 

Sempre insieme. Sempre.

Hai il terrore di perdere Yuri.

Ma cosa può avvicinarti a lui, come pattinare? 

Come vincere? 

Come dedicargli ogni nuovo sogno, ogni nuova medaglia?

 

Vorrei 

gli occhi tuoi nei miei

per guardare insieme 

tutto quello che

tu forse non hai visto

 

Già ti immagini il tutto.

La folla, le luci, i giornalisti molesti. L’odore del ghiaccio che penetra a fondo nelle narici. I costumi attillati, l’ansia, le preoccupazioni. La musica nelle cuffie sparata al massimo, il canticchiare durante lo streching. 

E poi la magia. 

Il segno dei pattini sul ghiaccio. 

Il passaggio, il marchio, dei campioni.

Tutti determinati a segnare la storia, oltre che il ghiaccio. 

Nessuno che si rende conto di averne già scritto un pezzo. 

L’incoraggiamento dei fan, l’imbocca al lupo dei telecronisti. Sai già che non te ne farai nulla, perché manca quello più importante, anzi, l’unico che sia mai contato davvero. Ma non importa, e questa volta sul serio. Pattinerai per te stesso, per voi due. 

Si, anche per lui, anche per i suoi sogni, per il suo solco nella storia che anche se dannatamente breve è stato profondo, profondissimo. D’altronde, chissà quando nascerà un altro quindicenne capace di battere il record mondiale di Viktor Nikiforov. 

Cioè, di Yuri Plisetsky

Sai che la concorrenza sarà spietata. 

Che non pattini da anni.

Ma devi provarci. 

Per te stesso. 

Per Yuri. 

Per quel desiderio di rivalsa che adesso sta bruciando dentro di te come se fosse l’inferno. 

Ti tiri su dal tuo letto. E la smetti di piangere. Cammini, barcollando un po’. Raggiungi sano e salvo la porta in legno scuro della tua camera da letto, e la apri. Cammini velocemente, quasi corri, verso il portone di casa. 

Hai lasciato la porta della camera aperta.

Non importa.

Ritorni al rink, a parlare con l’allenatore, e tutti sono così curiosi di vederti lì. Georgi e Mila ti guardano sottecchi, ricordano di certo di come li hai scacciati via, un giorno, affermando di potercela fare da solo. Di non aver bisogno di alcun aiuto. Ricominci già il giorno dopo. 

E avevi ragione cazzo. 

È dura, durissima, quasi ti eri dimenticato di come fosse. Ma ti fa sentire così dannatamente vivo. I mesi passano così, fino a quel giorno. 

In tutte le gare di qualificazione a cui hai preso parte, hai vinto l’oro. Nel punteggio dello short program, sei in prima posizione. Puoi sentirli ovunque, i cronisti e i giornalisti, commentare il tuo ritorno sul ghiaccio. Acclamarti, dipingerti come un genio capace di incantare qualunque pubblico. Non ti importa quello che dicono. Eccolo, il tuo vero obbiettivo. 

La finale del Grand Prix. 

Il libero. 

Il nostro sogno, Yura. 

Istintivamente, ti guardi intorno. Ti sembra quasi di poterlo vedere lì, a fare streching piegato contro il muro, con indosso la sua migliore espressione da tanto-sai-che-vincerò-quindi-cazzo-partecipi-a-fare. Ti scopri a ridere di gusto.

Quanto vorrei che fossi qui.

Volti lo sguardo, verso la pista. Tutto quel bianco, etereo, la superficie ancora pura e intoccata dalle lame. Una pagina bianca. Lo vedi, lì. Volteggiare, vestito di bianco, il tuo agape. Spiccare il volo, atterrare, come solo lui sapeva fare, con quella maestria che nessuno avrebbe mai creduto potesse appartenere ad un ragazzo tanto giovane. 

E il mondo ne voleva di più di quella maestria. 

Voleva più amore, più sentimenti, più passi e coreografie. Voleva più Biellman, la sua specialità. Voleva di più da quel genio che solo gli stupidi osavano chiamare “ragazzino”, evidentemente ignorando quanto avesse inciso la storia, che l’avesse plasmata come voleva, di più di come abbiano fatto molti altri in passato. Il mondo continuava a chiedersi cos’altro avrebbe creato, quanti altri muri avrebbe abbattuto, quando avrebbe smesso di sorprendere, e se mai lo avrebbe fatto. 

Già, era uscito dall’ombra di Viktor Nikiforov da parecchio tempo. 

Lo aveva superato in tutto. Se solo avesse avuto più tempo, sarebbe rimasto lui lo Zar in carica del pattinaggio. 

Diciannove anni. 

Troppo poco tempo, per chiunque. 

Continuava a volteggiare, con un sorriso bellissimo dipinto sul volto, uno di quelli che era impossibile vedergli indosso, durante una gara. Era uno dei bellissimi sorrisi che offriva solo a te. Quelli di quando, durante le festività natalizie, vi concedevate di trasgredire, almeno una volta all’anno, le rigide regole sull’alimentazione dettate da Lilia, e preparavate la cioccolata calda. 

E puntualmente, dopo sei tentativi andati male, la ordinavate alla caffetteria all’angolo. 

Appena arrivava, vi mettevate sul divano a seguire uno di quei brutti film anni ’80 pieni di cliché sul Natale, inzuppando i marshmallow nella cioccolata e sporcandovi a vicenda. E finiva sempre che il film nemmeno sapevate di che parlasse, che la cioccolata si raffreddava, che le vostre mani esploravano i corpi l’uno dell’altro in adorazione, che le vostre lingue si cercavano in maniera frenetica e desiderosa, e che lì, schiacciati contro quel divano rosso fin troppo piccolo per starci in due, trovavate la vostra felicità, e non cercavate altro. 

È tutto un gioco della mia mente. 

Oh, lo sai. Ma vederlo “lì”, ballare pensando a te, animato da quell’agape che provava per te, solo per te, è capace di darti una forza e una determinazione incredibili. 

È davanti a te. 

Di quel sorriso spensierato e innamorato ora non c’è più traccia, ha lasciato spazio a quello serio, solenne e ambizioso, quello che lo faceva sembrare di almeno tre anni più grande. Quegli occhi, si erano trasformati in quelli di un soldato. 

Non ti azzardare a farci perdere contro Leroy. Non mi accontento di un secondo posto.

Ridi, il pollice alzato.

Davai. 

Davai.

 

 

 

 

             —-———————-———————————————

 

 

 

 

E poi sei lì. 

Apparentemente solo.

Quando delle note, il suono di una chitarra, ti risveglia dai tuoi pensieri.

Si va in scena.

Le note della canzone che hai scelto per il tuo libero iniziano a risuonare per il palazzetto gremito da una folla immensa. 

È stata una scelta molto discussa la tua. 

“Melodia difficile da coreografare", ti hanno detto. 

“Dovresti scegliere qualcosa di più classico”. 

Ma quale canzone migliore, per rappresentare il tuo tema? 

Per descrivere quei tre anni, non potevi di certo scegliere “Il Lago dei Cigni” o simili. 

È una canzone particolare. 

Un “in bocca al lupo”, un incoraggiamento. 

Scritta da un uomo che si era perso, per gente nella stessa situazione. 

Scritta anche per te. 

Un inno alla vita e al vivere, perché siamo ancora qui. Vivi, e più forti di prima, continuiamo ad andare avanti sempre, per assaporare quanto bello possa essere realizzare di avercela fatta, ancora e ancora. 

Dimostrando che nonostante tutto quel che può succedere nella vita, siamo ancora pronti a viverla. 

E pattini pensando a lui, pensando a te, pensando a vivere il momento. 

Assapori la durezza fredda del ghiaccio sotto di te, e ti chiedi come mai sembra così confortante adesso. Come quel vento freddo, anzi ghiacciato, assomigli più ad una carezza calda. E come l’odore che ti penetra le narici assomigli più a quello del tè alla mattina, che al misto di angoscia, competività ed eccitazione che avvertivi prima. 

Non esiste nulla di questo. 

Stai solo immaginando tutto.

Non c’è nessuno ad accarezzarti il viso, non è mattina e non c’è il té. 

Ma stai danzando. Sei sul ghiaccio, pattini ai piedi, e stai incantando il mondo. Adesso non ti importa di cosa è vero e di cosa è finto, se c’è qualcuno con te o no. Non vuoi pensare a certe sciocchezze. 

Ti sei ripreso la tua vita, sei caduto in un baratro ma ti sei rialzato. 

C’è voluto tempo, tanto tempo. 

Ci sono voluti amici e psicologi, allenatori e critici. 

Ma ora sei qui. 

E ti sei fermato a pensare anche per troppo tempo. 

Per quanto quel sogno potesse essere bello, per quanto quella vita fosse più facile da vivere… 

Hai capito che non ne vale la pena

Che hai molto altro. Che non aveva senso. 

Ci hai messo tre anni per capirlo. 

Tre anni buttati alle ortiche, in cui tu ti sei buttato tra le ortiche, quelle annaffiate dalle tue lacrime d’amore. 

Ma hai finito di annaffiarle, non vuoi più permettere loro di crescere e intrappolarti. Non vuoi più smettere di guardare quello che ora vedi, dopo aver iniziato ad estirparle. 

Il panorama è troppo bello, per privarsene di nuovo.

I tre minuti e quarantaquattro del tuo libero sembrano volare via. Un boato ti scuote le membra, e lo vedi ancora, appoggiato al muro. Un pollice alzato. Un sorriso orgoglioso. 

Non capisci cosa stia accadendo, ma tutto diventa chiaro subito dopo, al kiss and cry.

Medaglia d’oro. 

Leroy secondo, dopo tre anni.

Sei fiero di te. È fiero di te. Lo sai.

Perché stai respirando da solo.

Ma capisci che per continuare a farlo, devi staccarti

Non allontanarti, no, quello mai.

Ma distanziarti, quanto basta affinché il suo ricordo non ti stenda. Non ti faccia piangere. Non ti faccia rimpiangere, ma anzi, sorridere ripensando a lui, a voi. 

E saranno inevitabili, i sorrisi amari. 

Ma saranno di meno.

E questo, non può essere altro che un traguardo.

E il traguardo lo raggiungi lì, su quel ghiaccio. 

Lo lasci andare, poco poco. 

Ti senti morire, ma sai che è giusto.

E lui ti sorride ancora di più.

 

 

“ ‘Cause I’m still breathing 

‘Cause I’m still breathing on my own ”

 

 

—————————————————————————

 

 

 

Ti sentivi così perso senza di lui, così fuori dal mondo. In uno stato di apatia perenne, che avvolgeva tutto, che costringeva i sentimenti ad annullarsi, come continuava a fare tutto il mondo intorno a te. 

Tutto sfumava, si rimpiccioliva, scompariva, si fondeva e si separava, senza una logica, senza alcun freno. 

Le scale di grigi dominavano tutto, il buio era la normalità anche a mezzogiorno. 

Nulla importava, nulla era degno di occupare i tuoi pensieri, se non lui. 

Eri così disperato. 

Ridi, perché ti rendi conto ancora una volta di come lui possa essere sia il tuo carnefice che il tuo salvatore. 

Capace di portarti via da tutto, dal ghiaccio, per poi restituirti al mondo come se niente fosse. E migliore di prima, per di più. 

Ti costringi a ritornare in te. Non puoi restare ancora qui, sei scappato più di venti minuti fa. Qualcuno verrà sicuramente a cercare il vincitore del Grand Prix, al ricevimento. Uffa, in terrazza si stava così bene. Sorseggi ancora un po’ di champagne, per poi staccarti dal parapetto su cui ti eri appoggiato. 

Giusto in tempo, Mila finalmente ti trova e ti intima di rientrare subito. Le rivolgi uno dei tuoi abituali mezzi sorrisi, e la segui. Dai un ultimo sguardo al cielo, prima di oltrepassare la porta, e vedi un unica stella, brillante nell’oscurità della notte. Ti sembra quasi di sentire una voce.

Vedi che ti tengo d’occhio sempre, stronzo.

Sorridi.

E dopo tre anni, è il primo sorriso sincero.

 

Quante volte ti ho cercato

e ti ho parlato

ed ho sperato

mentre guardavo con gli occhi in su

che la prima stella accesa

quella fossi

 

tu.

 

 

 

 

 

Note dell’autrice:

 

Questo è il frutto di un periodo estremamente triste. 

Mi sono successe cose assurde, che non credevo mai mi potessero accadere.

Inoltre, l’ansia è una cosa orribile.

E conosco un solo rimedio contro quel mostro, la musica.

Non ho mai ascoltato Gigi d’Alessio, non mi piace il suo genere, ma quando ho ascoltato questa canzone a Sanremo, ho pensato che fosse semplicemente stupenda. Mi sa che l’avete ascoltata in molti, ma io intanto la linko :

https://www.youtube.com/watch?v=A4nmmrwvBj8

Come ho già detto, la seconda canzone, “ Still Breathing ” dei Green Day, si è aggiunta praticamente da sola; ho poggiato la penna, ed era lì. 

Se non l’avete mai ascoltata, fatevi un favore e fatelo. Qui c’è il link, con il testo : 

https://www.youtube.com/watch?v=pnTZa4FY_7I

Si, lo so, è praticamente impossibile da adattare per una routine di pattinaggio su ghiaccio.

Ma il significato era perfetto, la prima parte è perfetta, e poi ehi, a confronto con Welcome to the Madness questa è il Gloria che si canta in chiesa.

Aggiungo una cosa infine, prima che le note diventino più lunghe della storia in sé. 

Non scrivo da quattro anni, e sono tremendamente arrugginita. 

So che questa cosa è un mezzo obbrobrio, quindi se avete critiche, le accetto molto più che volentieri, basta che siano costruttive. 

Grazie a chiunque sia arrivato fin qui, spero di non avervi annoiato troppo.

 

you_are_my_Evangeline. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   
 
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