Storie originali > Soprannaturale > Licantropi
Segui la storia  |       
Autore: LazySoul    30/09/2017    1 recensioni
Trama:
Diana ha 17 anni, è la secondogenita dell'Alpha ed è trattata da tutti come una bambina.
Nel tentativo di dimostrare di essere grande abbastanza per combattere e difendersi da sola, chiederà aiuto alla persona che più la confonde, suscitando in lei sentimenti contrastanti, Xavier O'Bryen.
Tra uno spasimante indesiderato, una migliore amica adorabilmente pazza e un assassino in circolazione, riuscirà Diana ad accettare i sentimenti che prova per Xavier?
Estratto:
«Sei giovane, ancora non hai imparato che spesso gli odori celano delle emozioni», spiegò, appoggiandosi al materasso con le mani e avvicinando il viso pericolosamente al mio: «E sai cosa mi sta urlando il tuo odore in questo preciso istante?», mi chiese, anche se era palese che non si aspettasse una risposta.
«Prendimi», sussurrò ad un soffio dalle mie labbra.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 

Capitolo VIII: Oggetti volanti


 

Le lezioni del martedì si trascinarono con la solita lentezza. Biologia, filosofia, matematica, arte, la transumanza da un'aula all'altra, le chiacchiere con Sab, quelle con Jules e Frida, le frecciatine con Francine. Tutto noiosamente monotono.

Unica cosa positiva di tutta la giornata fu che non incrociai il nuovo professore di educazione fisica da nessuna parte, così da concedere a me stessa un po' di tregua e al mio povero corpo la purificazione necessaria.

In mensa con Sab discutemmo della questione "Festa di sabato sera" e io provai a convincerla che andare a dormire nel bosco con un lupo mannaro omicida non sarebbe stato poi così tanto pericoloso.

«Vorrei ricordarti che tuo padre ti ha fatto promettere di non metterti nei guai», aveva cercato di dissuadermi lei, puntandomi contro la forchetta.

«Ha detto che non vuole che vada nel bosco da sola», le ricordai, sorridendole furbescamente: «Se ci andiamo insieme non ci dovrebbero essere problemi. Inoltre vorrei ricordarti che anche tu ed io siamo lupi mannari».

A quella mia osservazione non era riuscita a rispondere in modo convincente e la conversazione era caduta nell'oblio.

L'unica lezione che sembrò sfuggire dalle regole temporali che vigevano a scuola - ossia la strana equazione che permetteva ad un minuto di durarne cinque - fu l'ultima, quella di letteratura inglese.

Dopo quelli che mi parvero venti minuti scarsi, la lezione era già giunta al termine, obbligando noi, poveri studenti, a consegnare la verifica e ad uscire dall'aula per tornare a casa.

Non avevo idea di come fosse andato il compito, ero fiduciosa però e speravo nella sufficienza.

Una volta tornata a casa non ebbi nemmeno il tempo di posare lo zaino, che mamma - uscita prima dal lavoro, per mia immensa sfortuna - mi mise in mano scopa e spazzolone e mi disse con tono concitato di lavare il pavimento in cucina e salotto.

«Devo andare a fare la spesa, altrimenti non so proprio cosa preparare per cena. Ci vediamo presto, tesoro!», mi salutò lei, prendendo la borsa, le chiavi della macchina e uscendo di casa.

«Bentornata a casa, Diana!», mi dissi, gettando lo zaino sul divano, subito seguito dal giubbotto: «Com'è andata oggi a scuola? Tutto bene?»

Sospirai e alzai gli occhi al cielo.

Lavare per terra non era nella lista delle cose che avevo messo in programma di fare quel giorno, ma non potevo protestare in nessun modo, mamma ormai mi aveva incastrata.

Iniziai col passare la scopa in cucina e, quando ormai avevo quasi finito, venni raggiunta dalla nonna che, con in mano il suo cestino di vimini studiò brevemente le mie mosse, prima di informarmi che mi avrebbe aspettata fuori.

Avevo assolutamente bisogno di passare del tempo da sola con nonna; volevo parlarle e chiederle qualche consiglio senza avere nessuno intorno.

Così iniziai a lavorare con convinzione, decisa a finire il più in fretta possibile.

Una volta terminato con la scopa, riempii un secchio d'acqua calda e ci versai dentro il detergente e lo straccio. La maggior parte della superficie la lavai con l'ausilio dello spazzolone, ma dovetti accucciarmi a terra e sfregare lo straccio con le mani quando arrivai alla mattonella su cui Edith aveva pensato bene di versare il latte caldo col miele, nel tentativo di togliere più in fretta la patina appiccicosa che la ricopriva.

«Signora...», la voce di Xavier si interruppe, facendomi voltare verso di lui: «Sei tu», disse semplicemente, rimanendo fermo a pochi passi da me, il suo profumo che iniziava a diffondersi nell'ambiente.

Quella mattina avevo di nuovo annusato le coperte per cercare il suo odore, proprio come avevo fatto la sera prima per addormentarmi. Ci avevo impiegato un giorno intero per disintossicarmi e ora lui compariva così dal nulla, rovinando tutto quanto. Che rabbia.

«Mamma è andata a fare la spesa», lo informai, capendo subito chi stesse cercando, mentre tornavo a dedicarmi con ostinazione alla mattonella.

«Ah», aggiunsi: «Vedi di uscire, se lasci impronte fresche qua dove ho appena lavato ti sbrano».

Una volta finito con la mattonella mi alzai, tornando ad impugnare lo spazzolone.

Sapevo che lui era ancora lì, a pochi passi, più in corridoio che in salotto, proprio alle mie spalle. Oltre all'odore, ne percepivo la presenza.

«Diana», mi chiamò, facendomi automaticamente alzare lo sguardo su di lui. Ma il suo tono di voce e l'espressione che lo accompagnava mi fecero paura, così cercai di ignorarlo, tornando a concentrarmi sul mio lavoro.

«Potresti spostarti?», gli chiesi soltanto, in modo da poter lavare anche le mattonelle su cui si ostinava a sostare.

Fece due passi indietro senza protestare: «Diana», mi chiamò di nuovo: «Potresti fermarti solo un minuto?»

"No, non posso fermarmi", pensai, gli occhi inchiodati al pavimento e allo straccio rosa acceso: "Ho paura dello sguardo che ha in questo momento, è lo stesso che aveva ieri sera, dopo che l'avevo quasi baciato".

Gettai lo straccio nel secchio, lo strizzai e poi tornai al mio lavoro: «Come vedi, sono impegnata al momento».

"Codarda!", urlò una parte di me, facendomi serrare con forza la mascella: "Cosa potrebbe mai dirti di così terribile?"

"Meglio non saperlo", ribatté una seconda vocina nella mia testa e decisi che aveva maledettamente ragione. Era meglio non saperlo, non in quel momento, non prima di essermi consultata con nonna e aver chiesto il suo parere.

Ma fu più forte di me e alla fine alzai lo sguardo, proprio quando finii di lavare per terra. Lui era da una parte della stanza, io dall'altra, il pavimento ancora bagnato a dividerci.

«Devo raggiungere la nonna», dissi semplicemente, asciugandomi le mani umide contro i pantaloni scuri.

I suoi occhi chiari studiarono ogni mio movimento, lo sguardo serio: «Hai intenzione di ignorarmi? Di ignorare il legame che c'è tra di noi?»

Apprezzavo la sua schiettezza, il suo modo diretto di pormi le domande, di mettermi a conoscenza dei suoi pensieri. Ero però dell'opinione che la vera domanda da porsi era: "Si poteva ignorare un legame simile?"

«No», ammisi, facendo un passo indietro, verso la porta alle mie spalle, che dava sul retro.

I suoi lineamenti si addolcirono e spuntarono le sue stupende fossette. Quello però era un colpo basso; doveva averlo capito ormai che quelle fossette erano la mia rovina. Lo faceva apposta? Le sfoderava per mettermi in difficoltà? Come un guerriero sguainerebbe una spada?

Aprì bocca, quasi volesse aggiungere altro, ma lo precedetti: «Ora devo andare, mi lanceresti la giacca?».

Recuperò dal divano - che si trovava alla sua sinistra - il mio cappotto, spostò il braccio all'indietro, poi lo mosse di colpo verso di me, con forza. La giacca mi colpì in pieno viso mezzo secondo dopo.

Quando puntai il mio sguardo offeso e furioso su di lui, vidi chiaramente che si stava trattenendo dal ridere.

«Scusa», disse, alzando le mani a mo' di resa, continuando a sfoggiare un luccichio divertito negli occhi chiari: «Pensavo lo prendessi».

Avrei voluto lanciargli in faccia qualcosa, mi sarebbe piaciuto vedere la sua reazione, ma non avevo nulla a portata di mano, tranne lo spazzolone o il secchio e non mi sembrava il caso...

Un'idea improvvisa mi fece comparire un sorriso malizioso sulle labbra.

Avrei potuto lanciargli... No, mi imposi un minimo di contegno e distolsi lo sguardo, decisa a uscire, raggiungere la nonna e passare un po' di tempo con lei, da sole.

«Pensavo mi avresti tirato contro lo spazzolone», disse lui, appoggiandosi allo stipite della porta, incrociando le bracci al petto.

La vocina dispettosa nella mia testa mi consigliò di accontentarlo e io, senza pensarci due volte decisi di assecondarla. Incastrai la giacca in mezzo alle mia gambe e gli lanciai un sguardo di sfida mentre infilavo le mani sotto il mio maglione.

Vidi la confusione dipingersi sul suo volto, insieme a un malcelato interesse per la striscia di pelle della pancia che le mie manovre lasciavano scoperta: «Cosa stai...?», iniziò, ma non riuscì a finire la frase perché ricevette in pieno viso il mio reggiseno.

«Ora siamo pari», dissi, indossando in fretta la giacca, un sorriso a trentadue denti a illuminarmi la faccia.

Si tolse il mio indumento intimo dal viso e lo strinse tra le dita: «Lo considero un regalo».

Aveva la voce roca e gli occhi torbidi.

All'improvviso non ero più del tutto certa che quella fosse stata una buona idea.

«Fa come ti pare», gli dissi, prima di scomparire oltre la porta.

Scesi le scale della veranda e raggiunsi nonna, appoggiata al tronco del melo.

«Andiamo?», le chiesi, chiudendo la giacca e nascondendo le mani nelle tasche.

«Cominciavo a temere che ti fossi persa», si lamentò, stringendosi nel cappotto e iniziando ad incamminarsi verso il bosco.

I primi minuti li trascorremmo in silenzio, mentre ci addentravamo per il sentiero battuto.

Ebbi così modo di pensare a quello che era appena successo con Xavier e a chiedermi perché diavolo avessi deciso di ascoltare quella stupida vocina nella mia testa. Avrei dovuto lanciargli lo spazzolone, non il reggiseno!

Sospirai e nonna si fermò, guardandomi: «Penso che il nostro ospite sia interessato a te».

La sua schiettezza mi ricordò quella di Xavier poco prima e sorrisi, involontariamente.

«Lo penso anche io, nonna», le diedi ragione, accovacciandomi accanto a lei per raccogliere le viole che coloravano il verde praticello ai piedi di un grosso abete.

«E penso che tu non sia indifferente alle sue attenzioni», continuò, studiando il mio viso a pochi centimetri dal suo.

«No, non lo sono», confessai, portandomi una mano ai capelli, nel tentativo di tirarli indietro: «Nonna, non so cosa mi sta succedendo».

Mi sedetti su una radice sporgente, appoggiando i gomiti sulle ginocchia e il volto tra le mani. Avrei voluto sfogarmi ancora, dirle tutto quello che mi passava per la mente, dirle che sentivo il forte desiderio di lasciarmi andare quando ero con lui, di essere me stessa, nel bene e nel male, senza pormi troppe domande.

La sua mano tiepida mi accarezzò la testa, facendomi sollevare lo sguardo: «Alla tua età io ero esattamente come te», disse, sorridendomi con calore: «Uno spirito libero, pronta a seguire l'istinto e a ignorare gli ordini; mio padre non riusciva a limitare le mie decisioni, per quanto ci provasse. Quelli erano tempi diversi, pieni di tradizioni antiche e sciocche; le ragazze lupo come te erano costrette a scegliere un compagno e donarsi a lui entro il loro diciottesimo compleanno. Io andai contro le leggi e quando mi venne chiesto di unirmi all'uomo che mio padre aveva scelto per me, al cospetto del capo branco e della luna piena, mi rifiutai e decisi che l'esilio era meglio di essere imbrigliata a vita».

Avevo gli occhi sbarrati e le labbra socchiuse, mentre ascoltavo con attenzione, decisa a non lasciarmi sfuggire nessun dettaglio della storia. Nonna non mi aveva mai raccontato della sua gioventù, di solito era piuttosto schiva, evitava di parlare di se stessa, preferendo puntare il riflettore sugli altri. Doveva costarle molto mettere da parte la sua natura e parlarmi della sua adolescenza a cuore aperto. Gliene ero grata.

«Mio padre cercò di concedermi un'ultima possibilità, non voleva perdermi, ero la sua figlia più piccola, quella che avrebbe sempre visto come una bambina. Gli spezzai il cuore, questo è l'unico rimpianto che ho. Avrei voluto evitargli tutto quel dolore, ma non potevo assecondarlo. Durante la notte me ne andai, riempii una sacca con qualche vestito e del cibo, rubai un cavallo e lasciai che fosse l'istinto a guidarmi».

Sul suo viso comprare uno sguardo triste, le rughe si infittirono, creando una ragnatela delicata intorno ai suoi occhi e bocca.

«Non fu semplice, ma era una decisione che avevo preso e che avrei portato a compimento. Testarda e orgogliosa com'ero la resa non era un'opzione. Viaggiai molto, vidi posti incantevoli che posso ancora rievocare nella mia mente. Montagne, boschi, laghi... Vivevo nei boschi, facevo delle grotte che incontravo la mia casa, cacciavo cervi e mi lavavo nei torrenti».

«Era raro trovare altri lupi solitari, ma quando succedeva, facevo attenzione a non farmi scovare e a tenerli alla larga. Per circa due anni vissi da sola, in mezzo alla natura e, per quanto sentissi la mancanza di casa, non volevo tornare indietro; ero finalmente libera, Diana, libera di essere me stessa, di correre se avevo voglia di correre, di digiunare se non avevo abbastanza fame e di passare ore in acqua a osservare il cielo sopra di me».

Era difficile immaginare nonna in un contesto diverso da quello in cui la vedevo immersa ogni giorno da quasi diciotto anni, ma non impossibile. Riuscivo quasi a sentire come si doveva essere sentita, l'ebrezza della libertà, l'eccitazione e la paura folle. Mi ritrovai a provare una punta di invidia nei suoi confronti.

«Poi sul mio cammino trovai una piccola cittadina e decisi di provare a inserirmi nella vita di quel paesino. Cercavano un'insegnante per i bambini più piccoli e io decisi di propormi. Coi soldi che guadagnavo affittavo una stanza in una pensione al limite del bosco, mi compravo nuovi vestiti e del cibo. Inizialmente credevo di essere l'unica lupa mannara della zona, poi un giorno, mentre facevo una corsa nel bosco, incontrai tuo nonno e il suo branco».

Nonna smise di raccontare, si alzò in piedi e continuò a camminare lungo il sentiero, lo sguardo a terra, alla ricerca di primule e viole. Mi alzai anche io di scatto: «E poi?», le chiesi, nel tentativo di incitarla a continuare. Non poteva interrompersi sul più bello.

Nonna sospirò, accovacciandosi nuovamente; davanti a lei una decina di primule coloravano il terreno. Mi accucciai accanto a lei, aiutandola a porre i fiori nel cesto.

«E poi tuo nonno tentò di uccidermi, quello era il suo territorio e io non avevo il diritto di passare. Per fortuna nel periodo che avevo passato da sola nel bosco avevo imparato qualche tecnica di difesa e riuscii a sfuggirgli. Lo incontrai sotto forma umana due giorni dopo, era alla fiera del paese e mi riconobbe all'istante. All'inizio i rapporti furono tesi, io lo evitavo e lui faceva lo stesso, ma lo sentivo che qualcosa di profondo ci legava e per quanto ci provassi, ignorarlo fu quasi impossibile. Eravamo entrambi orgogliosi e testardi, riuscire a non sbranarsi dopo cinque minuti di conversazione era dura, eppure finì per farmi innamorare».

Non avevo avuto la possibilità di conoscere il nonno, era morto quando io ancora non ero nata e tutto ciò che sapevo su di lui era stato gentilmente offerto dai racconti di papà, quasi mai dalla nonna.

Presi coraggio e decisi di farle altre domande, troppo curiosa per continuare a tenermele dentro.

«Com'era il nonno?»

Un sorrise triste comparve sul viso di nonna: «Tuo nonno era burbero, orgoglioso e testardo. Era forte, mai impulsivo, ponderava sempre le sue decisioni, un po' come tuo padre».

«Nonno aveva gli occhi come i miei?», chiesi.

Scosse la testa, puntando lo sguardo prima nel mio occhio grigio e poi in quello color nocciola: «No tesoro, tu sei unica».

«Perché nessuno si rende conto che sono grande? Mi trattano tutti come se avessi due anni!», mi lamentai, decidendo di passare alla seconda questione che avevo l'impellente bisogno di discutere con lei.

Nonna sorrise divertita: «Io ero la più piccola in famiglia, so come ti senti. Non puoi fare nulla per cambiare la loro visione delle cose; sei piccola, vai protetta, fine della questione».

«Mi potresti dare lezioni di lotta? Magari se mostrassi loro che sono in grado di difendermi, forse...»

La risata divertita di nonna mi interruppe: «Tesoro sono vecchia, tutto quello che posso insegnarti è: mai dare le spalle al nemico. Posso provare a sciorinarti tanta teoria, ma con la pratica temo di non poterti essere utile».

L'entusiasmo di poco prima svanì, sostituito dalla rassegnazione.

«Potresti provare a chiedere a qualcun altro, qualcuno a cui non scricchiolano sinistramente le ossa ogni volta che fa un movimento leggermente diverso dal solito», mi sorrise, puntando i suoi occhi nei miei: «Potresti provare a chiedere al nostro ospite, Xavier O'Bryen».

Inciampai in una radice sporgente e recuperai all'ultimo l'equilibrio, evitando di cadere rovinosamente a terra. Aveva detto...?

«Sei seria?»

«Direi che abbiamo raccolto abbastanza fiori, possiamo tornare verso casa», mi informò, avviandosi verso il sentiero a pochi metri dal prato in cui ci eravamo fermate a raccogliere viole e primule.

Per il resto del tragitto verso casa non disse più nulla, facendomi capire che lei rimaneva ferma nella sua convinzione: se volevo aiuto dovevo chiedere a Xavier.

Arrossii al ricordo di come gli avevo lanciato addosso il reggiseno meno di un'ora prima. Con che coraggio l'avrei guardato negli occhi e gli avrei chiesto di aiutarmi a diventare più forte nel combattimento corpo a corpo?

Una smorfia comparve sul mio viso. Di sicuro avrebbe cominciato a fare battute idiote, doppi sensi. Me lo immaginavo squadrarmi dalla testa ai piedi e farmi l'occhiolino: «Corpo a copro, eh?»

Sospirai e decisi di pensarci su. Per una volta non volevo essere impulsiva, ma ponderare i pro e i contro.

Arrivate a casa trovai lo zaino proprio dove l'avevo lasciato sul divano, lo recuperai e feci un gesto di saluto a nonna mentre mi dirigevo verso camera mia.

Non avevo compiti per il giorno dopo, ma ne avevo per giovedì, così decisi di darmi da fare e portarmi avanti con il lavoro.

Indossai dei pantaloni della tuta e un maglioncino color giallo canarino che mi era stato comprato da mamma quando andavo alle medie e che, grazie al mio fisico da eterna bambina, mi andava ancora bene.

Gettai le scarpe in un angolo della camera e mi buttai a peso morto sul letto, fissando il soffitto per qualche istante, persa nei miei pensieri.

Quello che mi aveva raccontato nonna a proposito della sua adolescenza, della sua fuga e del modo in cui lei e nonno si erano conosciuti e poi innamorati, mi infondeva speranza. Lei era andata contro tutte le regole, aveva seguito l'istinto e aveva realizzato il suo destino, aveva incontrato il suo compagno per la vita e aveva trovato la felicità.

Mi rotolai sul copriletto, affondando il volto nel punto in cui l'odore di Xavier era più forte, inspirai a fondo e chiusi gli occhi, lasciandomi cullare dal senso di protezione e appartenenza che mi trasmetteva.

"Diana, ma chi vuoi prendere in giro? Davvero hai bisogno di pensarci?"

Mi coprii il viso e iniziai a ridere.

Dimenticai i compiti per giovedì e tutto quello che avevo pensato fino a poco prima a proposito di "ponderare le decisioni" e mi alzai in piedi. Indossai le ciabatte pelose e uscii in corridoio. Non c'era nessuno in giro, la via era libera. Mi diressi verso le scale che portavano alla stanza degli ospiti, che occupava l'intera mansarda. Salii i gradini cercando di non fare troppo rumore e, una volta arrivata, bussai piano alla porta.

«Avanti», sentii dire dall'interno, così entrai nella stanza, chiudendomi l'uscio alle spalle.

Xavier era seduto alla scrivania, aveva il computer acceso davanti e un quaderno tra le mani.

I suoi occhi verde chiaro incontrarono i miei con un misto di sorpresa e interesse: «Non ho intenzione di restituirti il reggiseno», disse, posando il quaderno sulla superficie di legno accanto a sé, prima di abbassare il monitor del computer, così da impedirmi di vedere cosa stesse facendo.

«Non sono qui per quello», ammisi, le gote arrossate per la sua insinuazione.

«Ah, no?», chiese, alzandosi in piedi: «Perché sei qui allora?»

«Voglio che tu mi insegni a combattere», vomitai le parole senza ponderarle, senza valutare i pro e i contro. Era più forte di me, non riuscivo ad andare contro la mia natura e probabilmente non ci sarei mai riuscita.

Un'espressione stupita comparve sul suo volto: «Combattere?», ripeté, studiandomi con attenzione.

«Sì, voglio dimostrare a tutti di essere forte, di...», Xavier alzò la mano, interrompendomi.

Osservò lo schermo del cellulare, e fece una smorfia: «Ora non ho tempo, devo andare a vedere un appartamento, mi hanno anticipato la visita».

Senza degnarmi di ulteriori attenzioni, indossò la giacca e recuperò un paio di converse alte nere, infilandole ai piedi. Rimasi ad osservarlo, indecisa su come comportarmi.

«Il tuo è un modo strano e atipico di dire di no?», chiesi, aggrottando le sopracciglia.

Xavier alzò lo sguardo su di me e sorrise: «Ci devo pensare».

"Ah, già", pensai, sentendomi una stupida: "Di solito la gente normale fa anche queste cose prima di prendere una decisione".

«Va bene», dissi, aprendo la porta per uscire di lì; l'odore di Xavier era ovunque e rischiavo di fare qualcosa di altamente sconsiderato e folle se fossi rimasta un minuto di più.

«Diana?», mi richiamò lui, smettendo di stringere i lacci delle scarpe: «Avrai una risposta al più presto».

Annuii, non riuscendo a dire nulla e uscii dalla stanza, correndo giù per le scale come una pazza.

Mi chiusi in camera mia, appoggiando la schiena contro il legno della porta. Sentii chiaramente i passi cadenzati di Xavier che scendeva le scale, percorreva il corridoio e usciva di casa.

Un enorme sorriso idiota comparve sulle mie labbra.

Ci avrebbe pensato, non aveva detto "no", non mi aveva riso in faccia e non aveva storto il naso per il fastidio. Cavolo, non aveva nemmeno fatto battute stupide!

Con la testa leggera raggiunsi la scrivania e recuperai il libro di matematica dallo zaino, decidendo che ero abbastanza di buon umore per poter affrontare la mia acerrima nemica; l'algebra.

Avevo quasi finito l'ultimo esercizio, quando sentii qualcuno bussare alla porta.

Esitai per qualche secondo, chiedendomi se oltre il legno ci fosse Xavier, poi decisi di smetterla di fare la stupida e invitai ad entrare chiunque si trovasse in corridoio.

Kyle entrò in camera mia e si richiuse la porta alle spalle, guardandomi con aria circospetta.

Aggrottai le sopracciglia. Ce l'avevo ancora con lui, mi aveva trattata da bambina davanti a mezzo branco, facendomi sentire stupida. Cosa voleva adesso? Essere sbranato?

«Mi dispiace disturbarti», disse, incrociando le braccia al petto e muovendo qualche passetto fino alla cassettiera, appoggiandocisi contro col sedere: «Dobbiamo parlare».

Continuai a studiarlo, rimanendo impassibile. Voleva parlare? Bene, io non gli avrei reso le cose facili.

«Io...», iniziò, fissando un punto imprecisato sopra la mia spalla: «Ecco, volevo solo dirti che ieri ho esagerato», borbottò, grattandosi il mento e il velo di barba che lo ricopriva: «Non avrei dovuto dire quelle cose davanti a tutta quella gente».

I suoi occhi chiari si puntarono nei miei, quasi in attesa di un commento da parte mia, commento che non arrivò.

«In mia discolpa posso dire che ero molto preoccupato e arrabbiato perché non avevi fatto come ti avevo chiesto», aggiunse, incrociando nuovamente le braccia al petto, mettendo in risalto i muscoli delle braccia.

Rimanemmo in silenzio per qualche secondo, poi decisi che aveva strisciato abbastanza. Non sarebbe mai riuscito a dire "ho sbagliato" o "mi dispiace", era troppo orgoglioso, così mi accontentai di quel poco che era riuscito a dire.

«Sei stato uno stronzo», gli dissi, sorridendo.

Lui sbuffò e sollevò gli occhi al soffitto. Poi sorrise anche lui: «Pace?»

Annuii: «Pace».

Pensai che se ne sarebbe andato, lasciandomi continuare i compiti di algebra, ma lui rimase col sedere attaccato alla mia cassettiera per qualche secondo ancora, sorprendendomi: «Vuoi dirmi altro?», gli chiesi.

«Cosa sei andata a fare in mansarda?», domandò, assottigliando lo sguardo.

Non volevo dirgli che volevo prendere lezioni di lotta da Xavier. Non sapevo come avrebbe potuto reagire e poi, per il momento, volevo che fosse un segreto. Avrei potuto parlargliene quando avrei cominciato a essere abbastanza brava da poter provare la mia indipendenza e forza.

«Niente», dissi semplicemente, sollevando le spalle.

L'espressione di mio fratello era colma di scetticismo: «Niente?», ripeté, avvicinandosi alla porta di camera mia: «Sicura?»

«Sì», dissi semplicemente, continuando a mantenere un'espressione impassibile.

«Mi prometti solo una cosa, Diana? Questa volta per davvero», chiese, con un tono di voce serio è preoccupato: «Fai attenzione».

La sua espressione e il modo in cui l'aveva detto mi fecero sentire una stretta al cuore.

«Va bene», promisi, sorridendogli, nel tentativo di rassicurarlo.

Kyle annuì, rispondendo alla mia espressione rilassata con una altrettanto distesa: «Ora ti lascio continuare in pace», disse semplicemente, prima di scomparire in corridoio.

Tornai a fissare il libro di matematica di fronte a me con un sorriso sulle labbra; ero contenta di aver fatto pace con mio fratello. Temevo che ci avremmo impiegato di più, eravamo entrambi terribilmente testardi e orgogliosi.

Due minuti dopo avevo finito i compiti, mi stiracchiai la schiena, che era rimasta ingobbita sul libro per troppo tempo e meritava un po' di riposo; così decisi di abbandonare la scrivania per buttarmi sul letto.

Recuperai dalla tasca dei pantaloni il cellulare, non avevo chiamate perse o messaggi non letti, così lo abbandonai sul comodino, decisa a chiudere gli occhi e schiacciare un pisolino.

Prima di addormentarmi però, mi raggomitolai in modo da percepire l'odore di Xavier che, come immaginavo, ebbe il potere di cullarmi fino a farmi finire in un dolce dormiveglia e poi, in fine, giunse il tanto agognato sonno.




 

****

Ciao adorati lettori e adorate lettrici! 😘

In questo capitolo scopriamo qualcosa sulla gioventù di nonna Diana (penso che ora sia ancora più chiaro da chi abbia preso il carattere la nostra protagonista), Kyle a modo suo "chiede scusa" per quello che è successo nel bosco e si chiarisce con sua sorella, mentre Diana - tanto per cambiare - lascia che l'impulsività prenda il sopravvento, decidendo di chiedere a Xavier di insegnarle a combattere. Che dite, le dirà di sì?

Spero che questo capitolo vi sia piaciuto e che abbiate voglia di lasciarmi un commento per farmi sapere la vostra opinione.

Vi dò appuntamento al prossimo sabato per l'aggiornamento!

Un bacio,

LazySoul

 
  
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Soprannaturale > Licantropi / Vai alla pagina dell'autore: LazySoul