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Autore: Nonoime    02/10/2017    0 recensioni
Arabella si è uccisa in una notte di febbraio. A distanza di un mese, Arden ne sente ancora la mancanza come un pugno nello stomaco. Era il suo ragazzo, avrebbe dovuto salvarla, avrebbe dovuto aiutarla, avrebbe dovuto impedirglielo. Non lo ha fatto, e i giorni sono trascorsi senza di lei. Ma adesso, contro ogni logica, Arabella sembra essere tornata. Però, non è più ciò che era prima. E forse, neanche Arden.
Genere: Fantasy, Horror, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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ARABELLA
 
 
 
 
Chi sei, realmente?
 
Arden correva.
Correva con affanno, con la mano premuta sopra al petto squarciato e i piedi nudi e graffiati che scivolavano sulla neve. Aveva nevicato molto nell’ultima settimana, e i marciapiedi di Hanover altro non erano che lastre di ghiaccio, ora. Lastre che rallentavano la sua fuga.
È un incubo, pensò. Solo un incubo.
Ma le sue ferite pulsavano e il suo corpo ululava di dolore, dove era stato aperto come una bestia. Non dormiva, né sognava. Non giaceva nudo sul suo letto come ogni sera, nella sua stanza illuminata da vecchie luci natalizie, gli occhiali calati sulla punta del naso e un libro tra le mani, mentre le dita tamburellavano assenti sulla copertina malconcia. L’aria non era gravida dell’odore dolciastro della marijuana o di quello più aspro della birra, la stessa che Jonathan e Reeves versavano quasi ogni sera, ubriachi o fatti, sul suo tappeto consumato – i suoi migliori amici, adesso morti. Uccisi. Sì, ma da cosa?. No, l’unica cosa reale, adesso, era il sangue che gli ricopriva le mani, la spalla lussata e i tre profondi tagli che gli aprivano lo stomaco. 
…ARDEN!
Una voce.
Il giovane si bloccò, piantandosi sull’asfalto congelato come un chiodo in un’asse di legno. Tremava, come tremano soltanto le foglie in autunno prima di staccarsi dal ramo e morire, trasportate dal vento.
Si voltò.
La strada era buia, come qualunque altra cosa a Hanover passate le sei del pomeriggio. Era il problema delle cittadine più piccole, sperdute tra le alte montagne del New Hampshire e al confine col verde selvaggio del Vermont. Non erano molto illuminate. E probabilmente, perché niente accadeva mai, lì. Niente di brutto, niente di pericoloso. Era un posto noioso e monotono, seppur pieno di giovani. L’università li attraeva per il prestigio, la promessa di un futuro lavorativo ricco e la bellezza del paesaggio quando l’autunno tingeva le foglie di un rosso così intenso. Non per altro. Però, in una sera di tardo inverno come quella, tutte le belle promesse sembravano non esistere nemmeno. Le luci della Liberty – la vecchia torre della biblioteca – brillavano deboli, non abbastanza forti da illuminare le dense ombre che circondavano Arden. Bones Gate era lontana, la festa un ricordo, la birra un sapore amaro in bocca. Era solo, lì, adesso.
O forse no.
«Cosa vuoi…», mormorò. La testa gli doleva, e gli occhi erano gonfi di pianto. Aveva visto troppe cose, in una sola sera. Troppe cose, per un ragazzo di appena venti anni «Cosa vuoi da me…».
Un movimento.
Arden sussultò.
Un’ombra si staccò dall’oscurità della notte. Aveva fattezze umane, ma qualcosa nel modo in cui camminava, in cui muoveva il corpo, gli parve spezzato, sbagliato, sconnesso. Come se i muscoli, i tendini e le ossa non sapessero più come muoversi insieme, come se il vuoto, l’assenza di un’anima in quel corpo aberrante, gli avesse tolto fluidità, armonia, equilibrio. Aveva lunghi arti scarni, e il rumore delle sue unghie sull’asfalto ogni qualvolta strusciava i piedi lo costrinse a indietreggiare, terrificato. La paura gli incideva il corpo in profondità, come una lama conficcata sotto i muscoli, sotto la sua pelle smembrata da artigli. Avrebbe voluto muoversi, o scappare. Andarsene, svanire nel nulla come un fantasma. Chiudere gli occhi e dimenticare dove fosse.
Non ci riuscì.
ARDEN.
L’ombra era praticamente davanti a lui ora. Illuminata dal bagliore della luna riflesso sulla neve bianca, Arden ne riconobbe finalmente gli occhi. Erano scuri, adesso – pozzi profondi carichi di disperazione e odio. Eppure, seppur nascosti dietro lunghi capelli color petrolio, il giovane non aveva più dubbi. Tolse la mano dallo stomaco dilaniato e l’avvicinò al volto del mostro che aveva fatto strage dei suoi amici in una sola sera. Ne accarezzò la guancia, candida alla luce delle stelle, e sorrise appena, incerto. Sentiva il proprio cuore pulsare, un sistema in allarme bisognoso di soluzione. Lentamente scostò una ciocca nera, rivelando il lato destro di quel viso che conosceva così bene, ma lì non c’era più carne, solo ossa pallide e tanta rabbia.
Arden scattò indietro.
Troppo tardi.
Il mostro si avventò su di lui.
 
E perché chiami me, mostro?
 
Disteso sul letto disfatto, Arden si chiese perché avesse deciso di iniziare a bere così presto.
«Ehi, Arden! Amico, svegliati!».
Uno schizzo di vodka sulla faccia lo costrinse ad aprire gli occhi. Jonathan rise, gettando la testa indietro. Un altro fiotto di alcol si versò sul tappeto ai piedi del giovane, allargandosi in una pozza scura e affatto profumata. Arden si limitò a guardare il suo amico, scuotendo appena la testa. Non era una novità. Lentamente, borbottando per la stanchezza, si tirò su, a sedere sul letto, i piedi scalzi penzoloni sopra a un delirio di bottiglie vuote e bicchieri di plastica usati. Qualcuno, non ricordava quando, si era impossessato del suo portatile, e ora una musica acuta e martellante rimbombava per tutta la stanza. Non era a suo agio, si rese conto. Avrebbe voluto dormire, lasciare che la brutta sensazione che gli artigliava la bocca dello stomaco sin da sveglio si spegnesse tra la nebbia dei sogni. O incubi; ultimamente, ne aveva molti. Ma non poteva. Un gruppetto di almeno otto persone occupava la sua stanza, perlopiù sconosciuti.
«Tutto bene?».
Una ragazza si era seduta accanto a lui. Aveva lunghi capelli castani e grandi occhi verdi, quel tipo di verde che dovrebbe appartenere solo alle piccole foglie da poco germogliate in primavera e non a una giovane studentessa. Arden ne rimase incantato per alcuni secondi, prima di rendersi conto che non le aveva ancora risposto. Sorrise appena, annuendo piano, rallentato.
«Sì», disse. «Solo un po’ stanco. E ubriaco».
Lei rise.
Aveva quel tipo di sguardo che sembrava sorridere sempre, anche quando c’era più dolore che gioia nel cuore. Arden si ritrovò a offrirle da bere. Aprì il mini-frigo ai piedi del letto e prese due birre fredde, affettò del limone e lo premette giù per il collo delle bottiglie. Lei lo fissò con occhi sognanti, sperando forse che la loro serata si concludesse in qualcosa di più intimo. Ma quando le loro dita si toccarono tutto ciò che Arden sentì fu un profondo senso di disagio. Un brivido gelido gli risalì lungo la schiena tesa e il suo stomaco si chiuse come un portellone in avaria. Rapido, tirò indietro la mano e si voltò. La giovane sembrò delusa; Arden percepì la sua confusione come una vibrazione sulla pelle. Ma non gl’importò. Altri pensieri lo stordivano adesso. Pensieri in cui un viso gentile gli sorrideva e dita morbide lo accarezzavano.
Qualcuno si buttò a sedere accanto a lui, rimbalzando sul letto. «Non ci crederai mai», fece Reeves.
Arden si voltò per guardarlo; la bottiglia di birra già vuota. Ne prese un’altra. Il suo amico era evidentemente fatto ma i suoi occhi tradivano ugualmente un misto di comprensione e tristezza. E forse, anche stupore.
«A cosa?».
Reeves gli mostrò il cellulare.
«La madre di Arabella si è uccisa».
Arden trasalì.
Lo schermo del telefono mostrava un titolo a caratteri cubitali da prima pagina e una serie di immagini tanto raccapriccianti da chiedersi perché fossero lì, sotto al suo naso. Stordito, allontanò il cellulare di Reeves con una spinta e si alzò. Lasciò la stanza e corse a rifugiarsi in bagno. Un gruppo di ragazze ridacchiava davanti allo specchio e Arden le scacciò senza troppa gentilezza nella voce. Vivere in una confraternita, rammentò, aveva i suoi difetti. In trance, scivolò sul pavimento di bianche mattonelle, sporche e fredde, e chiuse gli occhi. Il whisky, la vodka e la birra si fecero sentire con prepotenza, sciaguattando nel suo stomaco come una zattera alla deriva. Si chiese perché gli era così difficile controllarsi e subito dopo scoppiò a piangere.
Reeves bussò alla porta. «Ehi, amico», disse, sconsolato. «Mi dispiace. Non volevo turbarti così…».
«Vattene», sussurrò Arden.
Il ragazzo si zittì, e poco dopo si dileguò, senza aggiungere altro. Arden sentì il rumore dei suoi passi mentre tornava nella sua stanza. Respirò a fondo. I ricordi sono imprevedibili, si disse. Tornano per ucciderti quando meno te lo aspetti. Strinse i pugni e li premette contro le palpebre chiuse con forza, quasi cercasse di cacciare via le immagini che continuavano a tormentarlo. Fantasmi di momenti trascorsi, vivi e pieni di luce, che tutt’ora lo svegliavano nel cuore della notte, un promemoria di come la sua vita era stata e di ciò che aveva stretto tra le mani.
Arabella.
«Arabella».
Un ragazzo ubriaco spalancò la porta del bagno con un calcio e Arden batté la testa contro lo spigolo del ripiano davanti a lui. Per pochi istanti il mondo si colorò di mille luci mentre una voce sbiascicata farfugliava scuse affatto convincenti. Il giovane si alzò barcollando, la testa dolente, e dopo un secondo di esitazione piazzò un pugno in faccia allo sconosciuto – Arden conosceva i volti e i nomi di tutti i confratelli di Bones Gate e lui non era uno di loro – che inciampò sul bidone della spazzatura alle sue spalle e cadde a terra come un sacco di patate.           
«Coglione», mormorò Arden.
Uscì dal bagno, massaggiandosi la fronte. Un rivolo di sangue gli sporcò i polpastrelli, che pulì distrattamente sui jeans. Si sentiva stordito, alterato, confuso dall’alcol che continuava a scorrergli sotto la pelle e dentro le vene. Era una sensazione piacevole in realtà. Ne aveva abusato spesso nell’ultimo periodo. Era la miglior medicina contro il veleno impetuoso dei ricordi.
Nel frattempo, la festa si era spostata nel corridoio. La sua camera era vuota – le bottiglie e i bicchieri gli unici indizi di cos’era successo lì dentro. Jonathan gli posò un braccio intorno alle spalle, ridendo con sguaiatezza e spintonandolo verso le scale e il seminterrato, dove il festino sarebbe proseguito. Arden si lasciò trascinare, già più spaesato e leggero di quanto non fosse pochi secondi prima. La notizia della morte della madre di Arabella si rintanò in un angolo del sua mente, sotterrata sotto svariati strati di pensieri del tutto inutili o frivoli. La ragazza di poco prima lo affiancò, sorridendogli angelica. Si era legata i capelli ondulati e una lunga serie di immagini occupò la testa di Arden, risvegliando il suo istinto animale. Le sorrise, anche se non avrebbe dovuto, seppur un altro volto spingesse per farsi largo tra la confusione.
«Cos’hai in mano?», gli domandò lei.
«Come ti chiami?», replicò lui, guardandola.
Lei sorrise. «Maria».
Arden fece scorrere gli occhi lungo il suo collo e poi più giù, sfacciato come soltanto l’alcol riusciva a renderlo. «Maria», ripeté, provandolo sulle labbra e indugiando quando la M le chiudeva. «Mi piace».
Lei arrossì. «Ma non hai ancora risposto».
Allora, il giovane guardò in basso. Stringeva un cacciavite nella mano destra. Il manico era di plastica rossa e la punta a stella. Ricordava di averne visto uno uguale, nel bagno, sopra il ripiano del lavandino. Forse era lo stesso. Ma non ricordava perché mai avrebbe dovuto prenderlo. Scosse la testa e se lo infilò in tasca, commentando con una risata. Maria lo fissò con un sorriso incastrato tra le labbra piene, su cui gli occhi di Arden si soffermarono più a lungo di prima.
Jon lo strinse con forza. «Si prospetta una serata entusiasmante», fece, l’accento inglese più marcato del solito.
L’amico rise.
Avevano raggiunto il seminterrato. I due amici corsero giù per le scale appiccicose di alcol e chissà che altro. Un attimo prima di aprire la porta però, ad Arden parve di scorgere una faccia familiare nel piccolo oblò di vetro, l’unica finestra sul quel mondo proibito e ridicolo che era il seminterrato di Bones Gate. Un volto cadaverico, dove due occhi scuri e profondi si incastonavano come pietre. Lo sguardo che gli rivolse era di puro odio. Distratto, Arden mancò l’ultimo gradino e scivolò verso la porta. Arrestò la caduta con entrambe le braccia, ma adesso i suoi occhi erano a un palmo dall’oblò. Il volto era sempre lì, i loro sguardi ora vicini, troppo vicini. Qualcosa in quelle iridi sconosciute e terrificanti gli provocò un senso di familiarità. Ma l’alcol scorreva ancora insolente nel suo sangue e l’istante in cui sbatté le palpebre, la pallida figura era scomparsa. Affatto gentile, Jonathan lo spinse via e spalancò la porta. Un fiume di almeno quindici persone gli passò accanto, sfociando nelle promesse alcoliche del seminterrato. La musica che rimbombava tra le pareti rivestite di scritte erano le stesse che avrebbero ascoltato in qualunque altra confraternita. Ma Bones Gate sapeva il fatto suo. Arden li guardò confuso, domandandosi cosa fosse appena successo. Stava forse impazzendo?
Maria lo prese per mano. Stava ridendo, e aveva in mano una lattina di birra. Arden lasciò che lo conducesse oltre la porta ora aperta, immergendolo tra i corpi caldi e appiccicosi dei suoi compagni e il puzzo nauseabondo del seminterrato – un misto di sudore, birra, piscio e vomito. Gli passarono un bicchiere. Qualcuno gli sorrise. Apparentemente c’era qualcosa di buono, dentro. Arden buttò giù la bevanda in poche sorsate, quasi strozzandosi quando gli accarezzò la gola. Qualunque cosa fosse, era forte. D’un tratto, la stanza iniziò a girare e il suo corpo a scaldarsi come un ceppo sul fuoco. Si sfilò il maglione, lasciandolo cadere da qualche parte, e cominciò a ballare. Maria si strinse a lui, le mani audaci e maliziose che gli toccavano il petto nudo, infilandosi sotto la maglia, affatto intimorite dalla reputazione che macchiava il nome di Arden da un mese – il fidanzato di Arabella, la ragazza suicida; quello che non era riuscito a salvarla; il ragazzo che non le era stato accanto, il colpevole. Ma forse, pensò il giovane, in un istante di lucidità, Maria neanche sapeva chi avesse davanti. Forse, era una matricola arrivata al Dartmouth College di recente. Forse, solo il suo corpo l’aveva stregata.
Nient’altro.
Corpi sconosciuti lo spintonarono via da lei. In una confusione di luci e rumori, si ritrovò a un passo da Reeves. L’amico gli sorrise, sbronzo quanto chiunque altro attorno a loro. Con un cenno, gli offrì un sorso di vodka, che Arden buttò giù senza pensare. La serata avrebbe preso una piega rovinosa, già lo sapeva. Tre anni in confraternita insegnavano soprattutto questo.
D’un tratto, un ricordo si fece largo nella sua mente, artigliandosi alle pareti per arrivare in superficie.
«Ti diverti?»
«Mai, senza di te».
«Non senza alcol, vorrai dire».
Sorrido. «Tu sei più importante».
Lei arrossisce.
«Arden».
Perché l’hai fatto?, pensò. Nella sua testa, Arabella continuava a sorridergli, i tratti asiatici di sua madre ma gli occhi verdi di suo padre. Verdi, come quelli che aveva davanti adesso, distanti pochi centimetri. Si chiese se fosse lei, se stesse sognando disteso in camera sua. Se la serata non avesse mai avuto inizio e quella fosse semplicemente una delle tante notti che trascorrevano insieme, spesso abbracciati o soltanto accanto, vicini abbastanza da sfiorarsi ma senza toccarsi. Arabella sapeva essere delicata quanto il petalo di un fiore, dura come il tronco di un albero e il suo acume era graffiante come la punta di un ago. Arden la amava, e sperò che fossero sue, quelle iridi che lo fissavano. Ma no. Non c’era sagacia, in loro. Non era lei.
Represse il ricordo.
Maria lo baciò. Labbra calde sfiorarono le sue e non ci fu alcuna dolcezza in quello scontro, solo brama e istinto, una passione animale e primitiva, che si staccava da qualunque ideale di amore o intimità, di affinità o dovere. C’era soltanto il desiderio, elementare e forte, una mano che li avvicinava e stringeva entrambi, ma non al cuore. Decisamente più in basso, si disse Arden. Rise tra le sue labbra, esaltato da tutta la birra – e chissà cos’altro – che aveva ingurgitato. Altri corpi si muovevano attorno a loro, ombre sfocate che si perdevano in un mare di sensazioni. La pelle di Maria sotto le sue dita, lucida di sudore e morbida come un boccone delizioso, era l’unica cosa che il suo cervello riuscisse a concretizzare, insieme alla sua lingua e al sapore dolce che gli lasciava in bocca, un misto di ragazza e vodka. Il resto, era caos. Un’accozzaglia di luci e sagome fumose, rintanate ai bordi del suo campo visivo, troppo insignificanti per essere messe a fuoco. 
Arden le accarezzò il collo, lasciando scivolare la mano oltre la nuca e tra i capelli di nuovo sciolti. Ma lì, le sue dita incontrarono altro. Qualcosa di freddo e ruvido, tagliente ai bordi, tanto da farlo scattare indietro. Spalancò gli occhi già aperti, nella speranza di ritrovare un residuo di lucidità, un aiuto contro la nebbia della sfrenatezza, e vide qualcuno, alle spalle di Maria. Una figura, dalla chioma scura, la cui mano sinistra si muoveva tra i capelli della giovane e la destra si avvicinava allo stomaco. Le dita erano lunghi artigli affilati, pronti a trinciare, squartare, tagliare…           
Il giovane scattò avanti.
Maria gridò.
Gli artigli erano dentro la sua pelle, adesso. Premuti nella carne, la dilaniarono come carta e la ragazza cadde a terra, in una pozza di sangue, lo stomaco aperto e il vestito bianco ora rosso, sporco di liquidi e di interiora. Arden era ancora accanto a lei, stordito e paralizzato. La paura non impiegò molto tempo a trovare la sua strada nello sguardo dei presenti. Urla si levarono dovunque, cariche di panico e di terrore. Qualcuno venne calpestato. Qualcuno finì a terra e picchiò la testa contro un tavolo spaccandosi il cranio. Qualcuno inciampò sul corpo riverso a terra di un amico o scivolò su una pozza di birra o di sangue, impalandosi su una stecca da biliardo, la stessa che aveva utilizzato poco prima per dividere le squadre a birra pong. Altri trovarono la salvezza spalancando la porta e correndo via, fuori, oltre la strada che conduceva a Bones Gate. Qualcuno morì sulle scale, pestato. Qualcuno morì per mano del mostro.
ARDEN.
Lui era ancora lì. Premuto contro il muro, circondato da corpi, mentre il sistema d’allarme scattava, da qualche parte, dentro la confraternita. Il corpo immobile di Jonathan giaceva a pochi metri da lui, la faccia dilaniata e il petto squarciato; un’ombra di stupore, tuttora, nei suoi occhi chiari.
         GUARDA COSA HAI FATTO.
                                           GUARDA,
                                                  ARDEN

Arden pianse.
La musica continuava a rimbombare tra le pareti; nessuno si era preoccupato di spegnerla. I cadaveri dei suoi amici lo assediavano, un fossato di corpi e budella che lo divideva dalla salvezza, dalla porta che lo avrebbe condotto via da lì, lontano dal mostro. Nonostante ciò, però, cosa lo tormentava di più era il sangue e i resti stracciati delle vittime con cui l’essere si era divertito. Gambe, braccia e busti straziati, scomposti come pezzi di un puzzle buttati alla rinfusa.
«Perché…», farfugliò.
Il mostro lo guardava. Era acquattato, rannicchiato sopra uno dei tavoli, sporco di sangue, la testa appena inclinata e gli artigli tesi, pronti a tagliare. Era spaventoso e al tempo stesso affascinante. Una creatura surreale, un’idea impossibile, una figura che avrebbe dovuto far parte di un incubo. Non della realtà. Incredulo, Arden sperò che fosse un sogno, un cattivo scherzo della sua mente alterata dall’alcol. Ma il suo cuore continuava a palpitare frenetico pompando ossigeno, pulendogli il sangue e montando l’adrenalina, rendendolo più lucido di fronte a cos’era accaduto. E il mostro era ancora lì. Non tremava, come un’ombra pronta a svanire.
Era lì.
E lo fissava.
«Cosa… sei?», azzardò il giovane.
L’essere balzò giù dal tavolo.
Arden sussultò, e solo allora si rese conto di avere nuovamente il cacciavite in mano. Si era sporcato di sangue, così come i jeans e la maglia. Si chiese quando lo avesse preso, e pensò poi di averlo fatto quando aveva visto la creatura dietro Maria. Aveva cercato di fermarla, di impedirle di attaccarla, di ucciderla, ma era stato lento. Ancora una volta, nella sua vita, era arrivato troppo tardi.
ARDEN.
Il mostro continuava a ripetere il suo nome. Adesso era più vicino. Strusciava lento disteso sul pavimento appiccicoso. Gli arti dinoccolati, lunghi e secchi come radici nodose, pronti a scattare.
Arden alzò il cacciavite.
E la creatura saltò.
 
Non è forse vero
 
«Smettila!».
Arabella sorrideva. Le mani di Arden le solleticavano i fianchi e lei si dimenava, scalciava nel tentativo di fermarlo e liberarsi. Anche lui rideva. Un raggio di sole caldo filtrava dall’unica finestra della camera, illuminando le pareti bianche, tempestate di vinili, quadri e bandiere – due, una della California, una della Dartmouth. Nell’aria, ormai appiccicato alle pareti, aleggiava il classico odore di marijuana misto al profumo pungente della varichina. Il fine settimana era passato, era domenica pomeriggio e i ragazzi di Bones Gate avevano trascorso l’intera mattina a pulire bicchieri, vomito e birra. La festa era stata piacevole. Si erano divertiti.
Arden era felice.
Fissava Arabella mentre sorrideva pigra, distesa nuda sul suo letto, i vestiti sparsi per tutta la camera, gli occhi innamorati e le labbra gonfie per i baci che si erano dati. C’era solo una cosa, che stonava. Dolce, il giovane le accarezzò lo zigomo destro. Lì un piccolo livido nero le macchiava la pelle, altrimenti candida come neve. Lei sussultò appena, percependo una piccola fitta di dolore. Chiuse gli occhi e lasciò che Arden la toccasse con quella delicatezza struggente che era soltanto sua. La loro pelle a contatto era calda, morbida, liscia, un tocco, una sensazione che per entrambi voleva dire sicurezza. Voleva dire conoscersi, voleva dire amarsi.
«Ti porterò via, un giorno», le sussurrò.           
Non c’era bisogno di dire da chi.            
Le voci che giravano sul padre di Arabella erano molte. Il vecchio professore universitario, il neuroscienziato denunciato da alcune giovani alunne per molestie sessuali. Licenziato in tronco, allontanato dalla cattedra e privato di qualunque opportunità di insegnare ancora, picchiava la figlia, si raccontava. E sua moglie. Era depresso, insoddisfatto. Affermava che ogni accusa mossa contro di lui era infondata. Non c’erano prove se non le parole deliranti di quelle ragazze, così convinte, così sicure di qualcosa che non era mai accaduto. Si erano approfittati di lui, diceva, ripeteva ogni giorno, piangendo infelice. Lo avevano ingannato. Ma nessuno gli credeva.
Viveva agli arresti domiciliari, in una casa poco fuori Hanover, con la moglie. Arabella era costretta a visitarli ogni fine settimana, nonostante tutto. Quando Arden la pregava di non farlo, lei rispondeva che non doveva rivelare a nessuno, assolutamente a nessuno, che cosa le faceva, che cosa le aveva fatto. Dopotutto, era suo padre. E lo amava, a modo suo.  
Il giovane poteva soltanto annuire.
Arabella aprì gli occhi. «Lo so», disse.  
Lo baciò. E baciarlo le ricordava il giorno in cui si erano conosciuti. Arden era affascinante agli occhi di molti. Era alto, era gentile, era carismatico, era bello. I suoi occhi erano azzurri come il cielo e il suo sorriso accogliente come un abbraccio caldo d’inverno. Sapeva ridere per mettere gli altri a loro agio e farsi serio quando qualcuno aveva bisogno di discorsi più rassicuranti. La giovane l’aveva amato dal primo istante. Da quando le sue dita l’avevano accarezzata la prima volta.         
Lui sorrise.
Le labbra di Arden erano sempre dolci e gentili contro le sue. Ma poi un fuoco bruciante si allargava dentro di loro, tra i loro corpi, e allora le mani scendevano più in basso e i baci si trasformavano in passione, in frenesia, in eccitazione. Quel pomeriggio, fecero l’amore per molte ore, fermandosi a volte soltanto per parlare, guardarsi negli occhi, mangiare. Arden la portò fuori per cena. C’era un piccolo ristorante, nel centro di Hanover. Ordinarono due hamburger, come al solito – lui adorava la carne – e chiacchierarono. Molti li guardavano e sorridevano. Erano meravigliosi, accanto. Come una coppia di stelle. Ognuna splendeva di luce propria, ma insieme avrebbero potuto illuminare una città intera o dare fuoco a tutta una foresta.  
A sera, lei tornò al suo dormitorio e Arden passò la serata con i suoi amici, bevendo birra e ridendo.
Arabella si uccise due giorni dopo.
Era il 27 febbraio. Il giorno del suo ventesimo compleanno. Non ne trovarono mai il corpo, solo una lettera, lasciata sulla piccola scrivania di legno bianco su cui era solita studiare da quando si era iscritta alla Dartmouth. I manuali di Diritto e Politica ancora lì, lasciati in un angolo, lo zaino aperto, alcune penne raccolte in un cestello di plastica rossa, rossetti e una spazzola posati sul letto sempre sfatto, gli abiti immobili nell’armadio condiviso. Era stata Ronda, la sua compagna di stanza, a trovare la lettera. Era indirizzata a lei, infondo. In un primo momento non aveva riconosciuto la calligrafia della sua amica, sempre impeccabile, tra quelle parole scritte di fretta. Si era domandata se non fosse soltanto un brutto scherzo. Ma poi, un giorno era passato e a sera aveva chiamato Arden. Persino lui non la vedeva da un po’. Allora quel pezzo di carta aveva assunto tutt’altro peso. Aveva chiamato la polizia, i genitori e gli amici. Chiunque. I controlli erano cominciati, giornate di perlustrazioni e di ricerche disperate. Il suo nome era stato urlato tra i boschi che circondavano Hanover. Ma nessuna risposta era mai arrivata. Alla fine, dopo settimane, in molti si erano arresi. La sua scomparsa era stata compianta e il padre accusato della sua morte. L’uomo aveva negato e pregato che lui e la moglie fossero lasciati soli. La loro casa era stata circondata da giovani,  tutti in cerca di giustizia. Arden non si era mai fatto vedere. Molti raccontavano che avesse trovato conforto nell’alcol. Nessuno lo infastidiva. Tutti si chiedevano come una cosa tanto orribile fosse potuta accadere. Qualcuno iniziò ad accusarlo. Avrebbe dovuto starle vicino, aiutarla. 
Non l’aveva fatto.
Lento e pesante, un mese era trascorso. Silenzioso, Arden era tornato a farsi vedere. Ma la nuova reputazione che gravava sulle sue spalle riportava a galla i ricordi a ogni occasione. Piano, si era rialzato dalla nebbia dell’apatia e il suo corpo aveva ripreso a funzionare. Poi, il 30 marzo, aveva perso i     suoi amici.
Perché, in qualche modo, Arabella era tornata.
 
Che l’unica bestia
 
Uno sparo.
Arden sussultò, spaventato, e perse l’equilibrio. Scivolò sul sottile strato di ghiaccio che ricopriva la strada e cadde. Si premette le mani contro le orecchie. Fischiavano, adesso, con dolore. Il rumore era stato così acuto, così improvviso, così tagliente. Non se lo era aspettato. Il suo corpo ora tremava più di prima. Indifeso aspettò con paura che l’udito riprendesse a funzionare.
Ci volle un po’.
«Ragazzo».
Una voce nuova.
Non il mostro. Non più.
Aprì gli occhi.
C’era un poliziotto, davanti a lui. Le braccia tese, le dita rigide intorno al grilletto, la canna ancora fumante per il colpo sparato. Aveva le guance le rosse, ma non avrebbe saputo dire se per il freddo o il caldo. Pareva avesse corso molto o avesse semplicemente paura. Arden non lo sapeva.
Si guardò attorno.
Arabella – o qualunque cosa fosse diventata – non c’era più. Forse, l’agente l’aveva colpita. Ma se anche fosse stato così, non c’era alcun corpo, lì. Soltanto il buio della strada e il fumo bianco che usciva dalla sua bocca ogni volta che respirava. Nel silenzio, ricominciò piano a nevicare.
«Ragazzo», ripeté il poliziotto. «Non ti muovere».
Arden lo guardò.
Era definitivamente angoscia quella che i suoi occhi tradivano, incapaci di mascherarsi. Un leggero tremore gli percuoteva le gambe, appena divaricate, tese, pronte a sparare un altro colpo se fosse stato necessario. Il giovane alzò una mano, innocente. L’altra era premuta di nuovo sopra il suo stomaco aperto. Faceva male, ma non così male come avrebbe creduto. Si chiese se non fosse tutta l’adrenalina che aveva in corpo, a renderlo tanto indifferente al dolore.
«Anche l’altra», gli intimò il poliziotto.
Arden lo fissò ancora, confuso. «Non p-posso», balbettò. Possibile non vedesse le ferite? «Il mostro…».
«L’altra!», gridò lui.
Il giovane sussultò. Alzò entrambe le braccia. Gli parve di sentire del liquido scorrergli giù per la pancia e le gambe, infilandosi sotto i jeans, rigidi per il sangue rappreso. Poi però, lo sentì anche lungo il braccio sinistro, mentre scorreva lento, gocce calde che rotolavano giù, rallentando all’altezza del gomito per poi cadere a picco nascondendosi sotto la maglia. Si domandò se fosse ferito anche a una mano, se avesse perso più sangue di quanto credesse.
Quando guardò in alto s’irrigidì. Stringeva di nuovo il cacciavite, tra le dita. Allora guardò anche in basso e la confusione nei suoi occhi divenne bruciante. Non c’erano ferite, sul suo stomaco. Solo graffi. Piccole linee rosse, a gruppi di quattro, lasciate sulla sua pelle bianca, sotto la maglia strappata.
Si costrinse a guardare a terra.
Lì, ai suoi piedi, c’era un cadavere. Dilaniato. 
Arden tremò.
«Sei in arresto», sentenziò il poliziotto. «Per omicidio plurimo».
 
L’unico assassino,
 
Arabella era irrequieta. Le mani di Arden le solleticavano i fianchi e lei si dimenava, scalciava nel tentativo di fermarlo e liberarsi. Lui rideva di lei. Un pallido raggio di sole filtrava dall’unica finestra della camera, rischiarando appena le pareti bianche, tempestate di oggetti superflui, utilizzati al solo scopo di ingannare. Nell’aria, aleggiava il classico odore di sangue e carne, il puzzo che Arden trascinava con sé dovunque andasse, misto al sentore pungente della varichina. Il fine settimana era trascorso, era domenica, e i confratelli di Bones Gate avevano passato l’intera mattinata a pulire bicchieri e vomito. La festa era stata piacevole. Si erano divertiti.
Arden era affamato.
Scrutava Arabella mentre sorrideva tesa, distesa nuda sul suo letto, i vestiti sparsi per tutta la stanza, lo sguardo terrorizzato e le labbra gonfie per i morsi che le aveva dato. Nulla era fuori posto. Piano, il mostro le accarezzò lo zigomo destro. Un livido scuro le macchiava la pelle, altrimenti candida come neve. Lei sussultò appena, spaventata da quel tocco. Chiuse gli occhi e lasciò che Arden la toccasse. Il cuore le batteva forte, e pregava silenziosamente che non le facesse del male. La loro pelle a contatto era bollente, una sensazione che per lei era agonia. Per lui,        eccitazione.
«Ti porterò via, un giorno», le sussurrò.
Non era necessario chiedere cosa significasse.
Le voci che Arden aveva fatto girare per mascherare le sue reali intenzioni erano terribili. I suoi genitori avevano perso credibilità e ogni tipo di fiducia quando il sussurro demoniaco di quel mostro che si spacciava per il suo ragazzo aveva cominciato a muoversi attraverso le menti di chiunque incontrasse. Il brillante professore universitario, suo padre, un uomo buono, era stato denigrato, denunciato per atti che non aveva mai commesso. Licenziato in tronco, allontanato dalla cattedra e privato di qualunque opportunità di insegnare ancora, era caduto in depressione. Diceva che tutte le accuse erano infondate. Era stato ingannato.
Ma nessuno gli credeva.
I sussurri erano troppo potenti.
Viveva agli arresti domiciliari in una casa poco fuori Hanover, con la madre di Arabella. Li poteva visitare solo poche volte. Quando pregava Arden di andare da loro, lui rispondeva che non doveva rivelare a nessuno il loro segreto. Dopotutto, era il suo ragazzo. La amava, follemente.          
La giovane poteva solo annuire. 
Arabella aprì gli occhi. «Lo so».
Lui la baciò. E baciarlo, le ricordò quando lo aveva conosciuto, tra i corridoi di Carson Hall una mattina d’autunno. Arden era affascinante agli occhi di tanti. Era alto, era carismatico, era bello. I suoi occhi erano azzurri come i ghiacciai più freddi e il suo sorriso manipolatore come un burattinaio con bambole di carne. Sapeva ridere per spingere gli altri a fidarsi del suo sguardo e sussurrare quando qualcuno cominciava a sospettare. La giovane era caduta nella sua ragnatela dal primo istante. Da quando la sua voce le aveva mormorato parole la prima volta.         
Il mostro ghignò.
Le labbra di Arden erano sempre feroci e fredde contro le sue. E a quel fuoco bruciante che si allargava dentro di lui, nel suo corpo così umano ma infondo mostruoso, lei rispondeva con apatia, spengendosi svelta come una candela investita da un vento forte, lasciando che lui la penetrasse con violenza, come una bestia, permettendogli di prendere ciò che voleva. Le sue dita scendevano più in giù, e i baci si trasformavano in bramosia, aggressione. Quel pomeriggio la stuprò per infinite ore, fermandosi a volte solo per morderla, colpirla se non obbediva e mangiare. Mangiare, mangiare, mangiare. Sempre carne. Quando la portò fuori a cena, nel piccolo ristorante nel centro di Hanover, ordinarono due hamburger e di nuovo mangiarono carne, in silenzio. Molti li guardavano, ma non sorridevano. C’era qualcosa di orribile, in loro. La sera lui le concesse di tornare al dormitorio e il mostro passò del tempo con Jonathan.
La uccise due giorni dopo.          
Era il 27 febbraio. Il giorno del suo ventesimo compleanno. Non ne trovarono mai il corpo, poiché Arden ne mangiò ogni parte. Di lei, rimase solo una lettera, lasciata sulla minuscola scrivania di legno bianco su cui era solita studiare da quando era si iscritta alla Dartmouth. I manuali di Diritto e Politica ancora lì, lasciati in un angolo, lo zaino aperto, alcune penne raccolte in un cestello di plastica rossa, rossetti e una spazzola posati sopra al letto, gli abiti immobili dentro l’armadio condiviso. Era stata Ronda, la compagna di stanza, a trovare la lettera. Era indirizzata a lei. In un primo momento, non aveva riconosciuto la calligrafia della sua amica, sempre precisa, tra quelle parole scritte di fretta, poiché dopotutto non era davvero sua. Arden si era occupato di ogni dettaglio. Aveva soddisfatto la sua fame, e poi, come il migliore dei narratori, aveva costruito la migliore delle storie. Era stato così bravo, che Ronda si era domandata se non fosse soltanto un brutto scherzo. Ma poi, un giorno era trascorso e a sera aveva chiamato proprio lui, il mostro. E ovviamente il giovane, con la sua voce mortale e i suoi sussurri pericolosi, l’aveva convinta di non vedere Arabella già da un po’. Allora, il pezzo di carta aveva assunto altro peso. Ronda aveva chiamato i genitori, gli amici, la polizia. Chiunque. I sopralluoghi erano iniziati, ore di perlustrazioni e di ricerche. Il suo nome era stato gridato tra i boschi che circondavano Hanover. Ma non una risposta era mai arrivata, perché lei non esisteva più. Alla fine, dopo settimane, tanti si erano arresi. La sua morte era stata compatita e i sussurri del mostro avevano accusato il padre di tutto. L’uomo aveva negato e richiesto che lui e la moglie fossero lasciati in pace. La loro casa era stata circondata da giovani in cerca di giustizia. Arden era sparito. Molti raccontavano che avesse trovato conforto nell’alcol. Non era vero. Tutti si domandavano come una cosa così mostruosa fosse potuta accadere. Qualcuno accusò il fidanzato. Lui, avrebbe dovuto starle vicino. 
Arden rideva.
Come un animale con la pancia piena, il mostro dentro di lui si era assopito. Allora, lento e pesante, un mese era passato, e silenzioso, Arden o quello che di umano aveva, era tornato a farsi vedere. E la nuova reputazione che gravava sulle sue spalle, aveva riportato a galla quei sentimenti che il mostro era solito spegnere. Così aveva dimenticato cosa fosse. Come ogni volta, da secoli ormai. Piano però, si era rialzato dalla nebbia dell’apatia e il suo corpo aveva ripreso a funzionare. La fame era ricomparsa insidiosa, e il 30 marzo, aveva ucciso i suoi amici.      
Finalmente, il mostro era sveglio.          
 
Qui, sei tu

 
Arden ricordò.
Un Sussurratore. Ecco, cos’era.
Rise.
Odiava il momento in cui dimenticava. In cui la bestia dentro di lui si spegneva, appagata dal sangue bevuto, dalla carne assaggiata, da un’altra vita rubata. Allora, ciò che di umano anche era, trovava il suo spazio per uscire, senza blocchi o barriere. Cancellava ciò che era e aveva fatto. Lo spingeva a credere di aver amato, o poterlo fare. Lo rendeva convincente agli occhi di chi lo guardava. Agli occhi di chi sospettava non appena i sussurri si facevano più deboli.
Rise ancora.
Lui non amava. Non poteva farlo. Lui bramava.
Sangue e dolore, carne e grida. Ma un corpo era più squisito, se prima lo aveva posseduto. Per questo, prediligeva le donne. Per questo, aveva attratto Arabella, tra le molte dentro la scuola. Lei era bella. Aveva acceso i suoi istinti animaleschi, l’aveva spinto a sussurrarle, a catturarla, a farla sua. L’aveva resa la preda perfetta, il boccone più ghiotto, il divertimento che preferiva, senza che lei potesse fare alcunché per fermarlo. I Sussurratori erano troppo forti.
Anche quando dimenticavano.
Abbassò la mano. Guardò il cacciavite. Non aveva bisogno d’armi per uccidere. Bastavano le sue mani, le sue fauci e la sua forza. Ma lo divertiva. Lo divertiva fingere e manipolare e poi attaccare.
Ricordò cosa aveva fatto quella notte, mentre il mostro in lui si risvegliava lentamente, con brama, bisognoso di sangue. Umanità e alcol lo avevano confuso, come droghe potenti. Lo avevano accecato. Lo avevano spinto a vedere Arabella in una qualche forma che era tanto mostruosa quanto lui. Ma non era mai stata lei, a uccidere. Erano sempre state le sue mani. Prima il ragazzo in bagno. Poi, Maria. Poi tutti gli altri. Avevano provato colpirlo, a ferirlo. Ma erano impotenti a mani nude. E lui troppo bestiale. Cos’era umano dentro di lui aveva cercato di fermarlo, aveva proiettato un mostro che non esisteva, gli aveva fatto credere di essere ferito per rallentarlo. Ma il Sussurratore aveva trovato la sua strada lo stesso. Ed era fuggito, in cerca di altra carne, di altro sangue, di altro cibo. L’aveva trovato. Si era nutrito.
Poi, il poliziotto.
Adesso si fissavano.
Quell’arma avrebbe potuto ferirlo, ma mai ucciderlo. Niente infondo, poteva farlo. Così, si inginocchiò, e lasciò che l’agente lo ammanettasse. Era sporco di sangue e sulla lingua e tra le labbra sentiva ancora il sapore caldo e dolce delle vittime che aveva divorato. Chissà che cosa avevano provato quando i suoi denti avevano perforato loro la pelle, si domandò. Era stato doloroso?
«Non muoverti», gli intimò il poliziotto. Le mani gli tremavano, mentre chiudeva gli anelli d’acciaio. «O dovrò spararti».
Era molto giovane, notò il mostro. Non aveva rughe sul viso e le sue braccia erano forti. Lo sguardo tradiva paura, seppur ai suoi occhi Arden appariva come un semplice ragazzo. Si chiese se fosse già stato nel seminterrato. Probabilmente sì. Qualcuno doveva averlo visto, mentre massacrava quei poveri studenti, e doveva essere corso a spifferarlo. Sospirò, i suoi sussurri avrebbero dovuto essere molto potenti questa volta, o tutti avrebbe ricordato e lui avrebbe dovuto lasciare la città. E non aveva voglia di farlo. Hanover gli piaceva. Era ricca di carne.
L’agente lo tirò su, i polsi ammanettati, e lo spinse verso il fondo della strada, dove un solo lampione era acceso e illuminava una pattuglia della polizia, le sirene accese ma silenziose mentre la neve continuava a volteggiare fino a terra. Altri due uomini li aspettavano, lì. Le pistole puntate contro di lui, contro il mostro ormai di nuovo sveglio, chiedendosi di certo come avesse fatto, come fosse possibile. Ma loro non sapevano cos’era. Né mai lo avrebbero scoperto.
Né mai avrebbero visto il giorno.           
 
Arden?
   
 
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