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Autore: matmatt98    07/10/2017    1 recensioni
‘Fin dalla nascita ti educano al rispetto, all’audacia e all’amore. Ti raccontano di essere speciale e ti raccomandano di essere forte, di non arrenderti mai. Ti dicono di non preoccuparti, che dopo una sconfitta ci si rialza sempre, che dopo la tempesta il sole spunta inevitabilmente ad asciugare i fiori.
Poi maturi e scopri che sei cresciuto nell’ipocrisia. Perché la pioggia non cessa praticamente mai – almeno non dentro –, perché tutti in fondo cercano di vivere al meglio delle proprie possibilità e non c’è nulla di speciale nel sopravvivere. Perché le persone che dovrebbero dare un esempio ed esserlo, quelle che hanno il compito di elevare l’amore e donarlo al prossimo senza risparmio, quelle che dovrebbero difenderti dalle brutture dell’universo, sono proprio quelle che il loro prossimo lo calpestano e additano perché umano ed, in quanto tale, incapace di rifiutare i propri sentimenti.
Ti è sempre stato detto d’amare, fino a svuotarti di ogni cosa, ma poi, quando improvvisamente spalanchi la mente e con le braccia ti apri le costole per donare il tuo cuore decidendo di guardare al di là di una futile distinzione di sesso, cultura ed età, all’improvviso qualcosa cambia. ‘
M/M
Genere: Comico, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Not That Kind

Fin dalla nascita ti educano al rispetto, all’audacia e all’amore. Ti raccontano di essere speciale e ti raccomandano di essere forte, di non arrenderti mai. Ti dicono di non preoccuparti, che dopo una sconfitta ci si rialza sempre, che dopo la tempesta il sole spunta inevitabilmente ad asciugare i fiori.

Poi maturi e scopri che sei cresciuto nell’ipocrisia. Perché la pioggia non cessa praticamente mai – almeno non dentro –, perché tutti in fondo cercano di vivere al meglio delle proprie possibilità e non c’è nulla di speciale nel sopravvivere. Perché le persone che dovrebbero dare un esempio ed esserlo, quelle che hanno il compito di elevare l’amore e donarlo al prossimo senza risparmio, quelle che dovrebbero difenderti dalle brutture dell’universo, sono proprio quelle che il loro prossimo lo calpestano e additano perché umano ed, in quanto tale, incapace di rifiutare i propri sentimenti.

Ti è sempre stato detto d’amare, fino a svuotarti di ogni cosa, ma poi, quando improvvisamente spalanchi la mente e con le braccia ti apri le costole per donare il tuo cuore decidendo di guardare al di là di una futile distinzione di sesso, cultura ed età, all’improvviso qualcosa cambia. Quel tipo d’amore, anche se così puro ed incondizionato come ti è stato rivelato che deve essere, non va più bene.

Francesco, diciannove anni portati male, pensava spesso a come avrebbe voluto che fossero il mondo sul quale continuava incessantemente a camminare ed il Cielo sotto il quale si disperava e alla fine, dopo anni passati a consolare sua madre di un dolore che entrambi non si meritavano, aveva capito che in realtà non c’è niente in cui sperare. Niente da pretendere.

Che il mondo è fatto così e tu ti devi adattare, altrimenti rimani emarginato. Diventi quello che tutti odiano e additano: la pecora nera della società. 

Per questo, dopo il divorzio dei suoi genitori e le parole e le botte ancora chiare e brucianti sulla sua pelle mulatta, aveva preso a girovagare per il parco con lo skateboard come tutti gli altri, a pisciare sui muri col suo amico Vito e a fumare come un pazzo quando qualcosa non gli andava a genio.

Questo era il suo modo di adattarsi a tutto ciò che di sbagliato aveva attorno.

In poco tempo aveva imparato ad essere menefreghista, eterosessuale, con il cuore di ghiaccio e ad avere sempre e solo parole sbagliate sulla punta della lingua.

Queste erano le sue caratterizzazioni, riconosciute da tutta la scuola.

Sconosciute a sua madre e a lei soltanto.

Francesco, comunque, seppur facesse parte del gruppo più scalmanato del liceo, non aveva mai alzato le mani su nessuno. Semplicemente se ne fregava, gli altri potevano fare quello che volevano, lui non interferiva, ma neanche contribuiva.

Lui continuava a vivere la sua vita adattandosi, ignorando i compiti, gli insegnanti e le persone.

Amici non ne aveva.

Quelli che frequentava a scuola poteva a malapena definirli conoscenti. Quelli con cui passava la maggior parte del tempo neanche sapevano avesse delle sorelle. Nessuno, a parte i suoi genitori, sapeva della sua omosessualità. E nessuno, a parte sua madre, l’aveva accettato.

Ciò che però sembrava non sfuggire a nessuno, era la sua età. Un ragazzo di diciannove anni che frequenta ancora la quarta non è una cosa che passa inosservata facilmente.

Ma, stranamente, invece di sfotterlo, le ragazzine gli leccavano i piedi. Ed i ragazzi, invece di girargli alla larga, facevano a gara per diventargli “amico”.

Tutto ciò, unito al fatto che se ne stava sempre in silenzio, seduto scompostamente nel suo ultimo banco posto accanto alla finestra, con le cuffie infilate perennemente nelle orecchie, sempre accanto ad Lorenzo, gli aveva procurato la fama.

Brutta o bella, aveva ben poca importanza.

Nella società è importante essere notati. Se le luci dei riflettori ti sono addosso allora sei okay, di te si parla. Ci si interessa.

Non ha importanza come o perché. Non ha importanza cos’hai fatto o chi sei. Non ha importanza cosa ti ha fatto diventare ciò che tutti vedono.

Solo la luce.

Francesco si era abituato presto a tutte le attenzioni, agli sguardi ciechi, alle risate spente, alle canne dolci, alle parole vuote.

Se quello gli poteva conferire un aspetto da conformista, adatto al mondo di cui faceva parte, allora andava bene.

Non aveva importanza neanche il fatto che l’unica cosa che potesse permettersi di guardare con gli occhi del vero se stesso fosse solo la nuca coperta di capelli biondissimi di Carlo Ballarin seduto due file davanti alla sua, in posizione centrale.

Quel ragazzino che con la massa non aveva niente a che fare. L’inetto della situazione. Quello che aveva il coraggio di essere ciò che era anche se era sbagliato, anche se essere se stesso lo metteva nei guai.

Anche se ogni mattina, all’intervallo, gli “amici” di Francesco lo prendevano e lo riempivano di insulti e botte solo perché «É un cazzo di frocio con dei capelli di merda, Cristo» diceva sempre Lorenzo, il capogruppo. Quello che comanda gli altri e si aspetta rispetto da chiunque, perfino dai professori.

Un ignorante senza palle, che se la prende coi più deboli soltanto per dimostrare qualcosa che non fa parte di lui realmente.

Francesco non rispondeva, se ne stava fuori dal cesso fino a quando Lore e gli altri non uscivano, con le nocche rosse e dei ghigni sporchi sui brutti visi.

A lui non era mai fregato un cazzo, gli bastava essere accettato. Essere parte integrante del gruppo.

Carlo era unicamente la pecora nera – o la mosca bianca, secondo alcuni, rari – che lui non sarebbe mai stato. Che nessuno avrebbe mai accettato.

Carlo era quel Francesco che lui non aveva mai avuto il coraggio d’essere.

 

***

 

I giorni, quell’anno, passavano più lentamente di quanto Francesco si aspettasse o volesse. Ed erano sempre fottutamente uguali.

O almeno, uguali fino a quel giorno di inizio maggio, quando una ragazzina del primo andò a chiamarlo dicendogli di recarsi nella sala insegnanti alla fine delle lezioni.

Ci andò con malavoglia, strascicando i piedi sul pavimento del corridoio e le mani chiuse a pugno infilate nelle tasche dei jeans neri strappati.

Lorenzo e Vito lo aspettavano all’uscita, nel frattempo – avevano detto – si sarebbero fumati un paio di sigarette. Poi sarebbero andati tutti insieme al parco, perché qualcuno gli aveva procurato dell’erba per sabato sera e davano una parte a testa.

Sbuffò, abbassando la maniglia e senza aspettare il permesso spalancò la porta.

I suoi occhi scuri, contornati da ciglia troppo lunghe, notarono subito sia la professoressa Luisa Rossi, seduta dietro la scrivania, sia Carlo, in piedi accanto a lei.

Aggrottò le sopracciglia folte e si chiuse la porta alle spalle. Non disse niente, attese.

Si sentiva bruciare le terminazioni nervose. Quella stanza odorava di vecchi libri, incenso alla mirra e Carlo.

«Sono contenta che tu sia venuto» esordì la Rossi, portandosi una ciocca di capelli rossi dietro l’orecchio pieno di buchi. Sembrava a suo agio, quasi contenta. Nel compiere il gesto i braccialetti tintinnarono attirando l’attenzione del biondino che, con quei cazzo di occhi blu, lanciò una rapida occhiata verso la donna, per poi spostarlo subito dopo verso una barca a vela in miniatura posta sulla libreria di legno. Quella a venti metri dalla spalla destra di Francesco.

Le barche a vela erano la passione del Preside. Di piccoli modellini costruiti da lui stesso ce n’erano ovunque, messi in bella mostra su ogni mobile, in ogni aula.

Inutile dire che il più grande non aveva mai capito tale scelta. Non solo perché aveva da sempre un brutto – bruttissimo – rapporto con l’oceano, ma proprio perché le trovava inutili e inadatte al resto dell’arredamento.

L’unica cosa decente da guardare in quell’aula, a parte la professoressa (di cui Lorenzo aveva una cotta dal secondo anno), era Carlo

Quel giorno il veneto indossava un maglione grigio e le solite Vans sgangherate. I pantaloni gli cadevano sui fianchi asciutti, mostrando l’orlo dei boxer colorati. In una mano teneva un foglio bianco, mentre l’altra la teneva infilata in tasca. Era veramente alto, superava di qualche centimetro persino la Rossi in tacchi, e aveva un profilo da capogiro.

«Ti starai giustamente chiedendo perché sei qui» continuò la donna, dopo qualche minuto, attirando le attenzioni su di sé. «Te lo spiego brevemente: mi serve qualcuno che canti allo spettacolo di fine anno e ho scoperto, grazie al signorino qui presente , che hai una bellissima voce. Dunque volevo chiederti se ti andasse di fare un duetto con lui, che suonerà la chitarra. Gli serve un compagno e tu sembri essere il più adatto».

Francesco guardò il viso giovanile della professoressa, quello pallido del biondo e poi tornò a fissare il niente. Gli sembrava illogico e assurdo, come se quello non stesse veramente succedendo proprio a lui.

Era come se gli alieni fossero appena atterrati nel giardino di casa sua o Babbo Natale fosse sceso dal camino di sua nonna. Si sentiva drogato.

Osservò l’orario sull’orologio appeso alla parete e si stupì di come il tempo fosse passato lentamente.

«Naturalmente ti saranno riconosciuti gli sforzi di stare più tempo a scuola, che potranno aiutarti più facilmente a superare l’anno» aggiunse la Rossi, ricalcando con la voce l’ultima parte della frase.

Lui annuì. Si sentiva rigido come una corda di violino, mentre le gambe erano assurdamente molli. «A te andrebbe bene?» domandò, rivolgendosi a Carlo.

Quest’ultimo sembrò sorpreso. Virò lo sguardo verso di lui e fece spallucce. «I crediti servono anche a me e sinceramente non saprei proprio a chi altro chiedere» rispose, con l’accento veneto particolarmente marcato.

La sua voce cozzò contro le pareti avide delle orecchie di Francesco. C’era qualcosa di strano in tutto ciò che girava attorno a quel ragazzo e l’altro, se avesse potuto, avrebbe preferito non averne niente a che fare.  Eppure l’anno doveva passarlo per forza. I crediti gli sarebbero stati molto d’aiuto e sua madre sarebbe stata contenta di sentirlo cantare nello spettacolo di fine anno. Amava la sua voce.

O forse c’era qualcos’altro. Una motivazione più profonda eppure brillante che Francesco non volle vedere.

«Puoi rispondermi domani, non c’è fretta» concluse la professoressa, alzandosi in piedi. Quel giorno indossava una gonna lunga nera che le copriva le Creepers. Sistemò delle carte con le mani piene d’anelli strani e sorrise, con le labbra cremisi. Il fatto che avesse solamente ventisette anni non era difficile da notare. «Andate pure».

Carlo salutò cordialmente, si sistemò l’Eastpack nero in spalla, ma non si mosse. Fissò l’uscio insistentemente finché Francesco si rese conto di essere rimasto tutto il tempo a due passi dalla porta.

Con più rapidità di quanta realmente volesse diede le spalle ad entrambi e uscì, senza nemmeno fare lo sforzo di salutare. 

Poco dopo sentì i passi lenti e misurati dell’altro seguirlo a qualche metro di distanza, ma non si voltò. Non avrebbe saputo cosa dire. Era semplicemente sorpreso che Carlo sapesse che lui avesse una bella voce.

D’altronde Maria, sua madre, lo diceva sempre a tutti. Se ne vantava spesso. Ed essendo amica della madre del biondo era possibile che le fosse scappato qualcosa, tra un discorso e un altro, ma era veramente strano che Carlo avesse pensato subito a lui e non magari a Michele del terzo anno. Anche perché pure quello là era gay, solo che non veniva preso per il culo perché stava insieme a Gabriele, campione regionale di wrestling.

«Non sentirti obbligato».

Le gambe di Francesco si mossero da sole, facendolo voltare. Carlo, preso in contropiede, inchiodò sul posto. I suoi occhi non tradirono alcuna emozione, ma il più grande lo sapeva che aveva paura. Ne poteva quasi sentire l’odore.

D’altronde era Lorenzo il suo peggior nemico. E con lui ci usciva ogni giorno. Erano “amici”.

C’è chi dice che il carattere di una persona si può comprendere dalle compagnie che frequenta. E Francesco frequentava la compagnia peggiore della città.

«D’accordo» ribatté, a bassa voce. «Ma ci penserò comunque».

Il volto di Carlo prese fuoco. «Allora grazie» soffiò nervoso. Si tirò su le cinghie dello zaino e a testa bassa lo superò scomparendo dopo qualche minuto dietro il portone d’acciaio della scuola.

Il profumo che si trascinò dietro, un misto di acqua di colonia e shampoo al cocco, fece sfuggire un sorriso all’altro, che se lo rimangiò subito, dandosi due sberle sulle guance mal rasate.

«Idiota» sbottò, ricominciando a trascinare gli stivaletti slacciati sulle piastrelle.
  
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