Quel
bambino
che bambino non è
Dietro di lui, sopra di lui, davanti a lui, dentro di lui, due piccoli occhi azzurri lo fissavano. Lo fissavano sempre. Che fosse con rabbia, che fosse con disprezzo, che fosse con fierezza, lo fissavano. Mai con amore. Shouto, ad un certo punto della sua vita, si era chiesto se suo padre fosse effettivamente in grado di provarlo, l'amore.
“Shouto!
Allarga quelle gambe! Pensi che tu sia bilanciato,
così?!”, abbaiò
Enji Todoroki, che girava intorno al figlio di sette anni. Suo padre
era avvolto in quella fiamme con cui se ne stava sempre. Come fossero
un vestito – come fossero un vanto. Per
Shouto, tuttavia, non
era così; quella fiamme lo rendevano inavvicinabile. Che
vanto
poteva mai essere, rendersi irraggiungibile ed intoccabile?
Il
piccolo Todoroki obbedì, e divaricò un po' le
corte gambe magre. Da
sinistra lo raggiunse una fiammata che lo colpì di striscio,
facendolo crollare a terra e tossire, annaspando in cerca d'aria.
“Non eri pronto, stupido! Pensi che i nemici aspettino che tu
ti si sistemi, prima di attaccarti?! Alzati!”, gli
urlò, e Shouto strinse forte gli occhi. Non piangere. Non
piangere.
Non
piangere.
Se lo ripeteva sempre. E non piangeva.
Le gambe gli tremavano,
mentre si sollevava da terra. Gli occhi, inquietanti a causa
dell'eterocromia, si concentrarono sulla figura imponente di suo
padre.
“Forza, ora. Attaccami.”, ordinò Enji,
incitando il
figlio con un breve movimento della mano.
E Shouto, ancora una
volta, obbedì: pestò un piede sul pavimento ed
un'alta cresta di
ghiaccio corse verso Endeavor. Si stupì nel notare che il
ghiaccio
non fosse nero: aveva dato sempre per scontato che fosse quello, il
colore dell'odio. Enji scartò di lato, ed anche il ghiaccio
di Shouto
cambiò direzione, seguendo il genitore. Sentiva
già
l'intorpidimento a tutto il lato destro del corpo dovuto all'uso del
potere di sua madre, ma non si diede per vinto – almeno fin
quando
Enji non indirizzò verso il muro eretto dal figlio uno dei
suoi
attacchi, bloccandolo prima e sciogliendolo miseramente poi.
“Sei
debole e lento!”, ringhiò Endeavor, mentre
raggiungeva Shouto con
un'agilità che quasi stonava con l'enorme stazza dell'uomo.
Gli
piantò una mano all'altezza del collo e
l'atterrò, sbattendo il
fragile corpo del bambino al suolo. Le piccole mani raggiunsero il
tozzo polso di Enji, stringendolo, ma questi non sembrava
intenzionato a permettergli di alzarsi.
“Sai chi mi ricordi,
Shouto? Tua madre.”, ghignò, spingendo
ulteriormente il corpo del
figlio contro il pavimento.
“Solo che tu sei più ribelle di
lei. E questo mi piace, sai: è un comportamento degno di un
Todoroki, l'essere focosi e appassionati.”, Shouto si
dimenava,
cercava un appiglio per poter scivolare dalla presa ferrea dell'uomo,
ma non ne trovava. E Enji stringeva e stringeva e stringeva, come se
fra le mani avesse una bambola. Come se fra le mani avesse un insetto
da schiacciare e non la vita di suo figlio. Però lo sapeva,
che non
sarebbe morto: non moriva mai, per quanto vicino arrivasse. Avrebbe
capito solo anni dopo che quello non era altro che il risultato del
desiderio malato di quell'uomo, che si proiettava su suo figlio ed
attendeva la gloria, come se effettivamente gli spettasse. Come se
Shouto, che si immaginava già senza cognome, non lo
disprezzasse.
Il
bambino annaspava in cerca d'aria e sapeva – sapeva
–
che sua madre, se fosse stata lì, l'avrebbe protetto. Lei
amava (il
lato destro di) Shouto. L'avrebbe preso tra le braccia e cullato ed
avrebbe detto che sarebbe andato tutto bene. Perché con sua
madre
Shouto poteva essere e fare il bambino. Con Enji no.
Gli occhi gli
pizzicavano, ma non piangeva.
Non poteva e non voleva e inghiottire e calmare il panico sembrava
molto più semplice che lasciarsi andare.
Suo padre continuava a
parlare, ma ormai le orecchie di Shouto fischiavano e non ascoltava
più. Non sarebbe morto – e allora
perché si sentiva così vicino
al ciglio di un burrone?
“Stai zitto!”,
tuonò ad un certo punto. E l'urlo superò il rombo
delle fiamme.
L'urlo superò suo padre. Superò il pianto e
superò il dolore e
mentre il lato sinistro di Shouto si accendeva (per l'ultima volta in
quelli che sarebbero stati anni), il lato destro esplodeva
e provocava
schegge, freddo e –
morte.
Congelò suo
padre. Sapeva che quell'armatura di ghiaccio in cui l'aveva confinato
non sarebbe durata molto, perché il calore di Endeavor era
estremamente elevato, ed era impossibile per un bambino di sette anni
sconfiggere con un quirk complementare ed opposto il secondo eroe
più
importante del paese. L'aria circostante accoglieva solo gli ansimi
discontinui
di Shouto e il vapore generato dallo scontro di quei due poteri, calma
piatta intorno a sé. Una goccia d'acqua gli cadde
sulla fronte, poi una sul mento. Aspettò che il ghiaccio si
fosse
scaldato abbastanza da permettergli di scivolare via dalla presa di
suo padre e scappare da quella stanza, scappare da Enji Todoroki che
caso aveva voluto essere suo padre, scappare da quella vita e sperare
di poter volare lontano, mano nella mano con sua madre, per non
tornare più. Ma Shouto Todoroki non aveva un quirk che gli
concedesse cose simili. Shouto Todoroki aveva il quirk di un
condannato.
Walking_Disaster's
corner:
Scritta
per la Boku
no Hero Academia: Fanfiction Challenge! col prompt
“parental
relationship”.
Avrei avuto infinite possibilità, ma infilarmi
in quella più problematica ed angst mi pareva l'idea
migliore.
A
me è piaciuto molto scriverla, ma vorrei sapere che ne
pensate voi.
Spero vi abbia lasciato cose positive (si fa per dire)!
Alla
prossima,
WD