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Autore: Arya Tata Montrose    30/10/2017    4 recensioni
Bakugou non riesce a dormire. Sempre quella stessa immagine che lo tormenta non appena il caos della giornata s'acquieta.
[...]Non gli importava ciò che la gente pensava di lui, non gli era mai importato.
Ma era bastato uno sguardo a cambiare tutto.
[One-shot][2.000 words ca.][Hurt/comfort or kind of]
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Katsuki Bakugou, Ochako Uraraka
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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As wind cleared the sky




Lo sentiva dire spesso, Katsuki. Mi sorprende che non sia un cattivoLe voci di corridoio giravano e non si premuravano particolarmente di nascondergli la pessima opinione che quasi tutti avevano di lui. Katsuki, però, le ignorava e con un grugnito passava avanti, a suon di minacce ed improperi, dritto ed implacabile per la sua strada. Non gli importava ciò che la gente pensava di lui, non gli era mai importato. 
Ma era bastato uno sguardo a cambiare tutto. Gli era stato sufficiente vedere il terrore oscurare il riflesso della sua figura negli occhi di quel bambino. Quegli stessi occhi che, ora, turbavano i suoi sogni. 
 
Non riusciva a dormire, Katsuki. Ogni volta che si trovava solo, nel silenzio della sua stanza, ed i pensieri della giornata lo abbandonavano, quegli occhi tornavano a trovarlo. Lo osservavano, impauriti; temevano che sarebbe stata una questione di secondi prima che la sua rabbia cieca esplodesse su di loro – che li cancellasse. E Katsuki avrebbe voluto farlo, avrebbe voluto estirparli dalla sua memoria, ma per quanto ed in qualunque modo tentasse, quei due occhioni sgranati tornavano come due fantasmi a tormentarlo assieme a quelle voci che aveva sempre ignorato. Sembra un cattivo fatto e finito. Il suo Quirk sarebbe più adatto ad un malvivente che ad un eroe. È crudele. È inquietante. Fa paura. 
Si girò nel letto per l'ennesima volta, incapace di trovare sollievo nel morbido abbraccio delle lenzuola. Per quanto fosse stanco, le palpebre rifiutavano di calarsi a coprire gli occhi, Hypnos gli negava la sua carezza, le orecchie captavano febbrilmente ogni suono, ogni vibrazione che turbasse l’aria.
Non fu una decisione sofferta, sottrarsi a quella che gli pareva mera illusione, un folle tentativo che l’avrebbe solamente irritato più di quanto già non fosse. Scalciò le coperte e si alzò a sedere, passandosi una mano sugli occhi e poi sulla testa, come a scacciare un’immagine. Vagò con lo sguardo nella sua camera, in cerca di nemmeno lui sapeva cosa — una distrazione, qualcosa che gli potesse togliere quegli occhi dalla mente, il silenzioso urlo che esprimevano. Non trovò nulla.
Considerò l’ipotesi di andare a correre, di portare al limite il suo corpo in modo da non avere altre alternative che dormire, ma era consapevole che non avrebbe ottenuto altro che un sonno disturbato, leggero, debilitante. La scartò immediatamente, la rabbia che aumentava – rabbia per l’insonnia, per quel bambino, per sé stesso e le mani che sudavano, impazienti di distruggere qualcosa, di sfogare tutta quella furia sulla materia che lo circondava.
Prese un grosso respiro, Katsuki; doveva rimanere calmo. Forse la corsa non era l’idea migliore, ma una boccata d’aria fresca non avrebbe fatto male. Prese una felpa, la indossò sopra la canotta che usava per dormire ed uscì.
All’ultimo piano, in fondo al corridoio, una scaletta a scomparsa conduceva fino al tetto. Teoricamente doveva servire unicamente agli operai in caso di riparazioni, ma a lui non importava e, sempre teoricamente, nessuno aveva specificato che il tetto fosse uno spazio precluso agli studenti. L’aveva scoperto l’anno precedente e non ne aveva fatto parola con nessuno. 
Quella sera una brezza fresca accarezzava le fronde e Katsuki rabbrividì leggermente. Chiuse gli occhi e respirò a fondo, riempiendosi i polmoni di quell’aria notturna che aveva sempre avuto l’effetto di calmarlo, di porre tutta la sua rabbia sotto una cappa di tranquillità – di far tacere i pensieri molesti ed aiutarlo a fare ordine nella sua mente. La luna gli era stata spesso testimone e fedele compagna in quelle notti in cui c'era qualcosa che lo turbava – tutte le notti in cui si era chiesto se fosse lui ad avere sbagliato, ad essere sbagliato, in cui si era chiesto se anche per lui ci sarebbe stato qualcuno – ed anche quella notte era lì, alta in un cielo denso di nubi nere che promettevano pioggia. 
Katsuki non era mai stato tipo da apprezzare poesia e metafore, ma in quel momento trovò che quel cielo fosse esattamente come lui – scuro, turbato da un vento leggero in superficie, una tempesta sul punto di scoppiare appena sotto. Solo la luna, così brillante e luminosa, non trovava ubicazione in quel paragone. Era una presenza confortante, che bagnava le nubi della sua luce, rischiarando il cielo notturno, un faro oltre la tempesta. 
Improvvisamente, Katsuki si sentì meno solo. 
Uno scalpiccio dietro di lui spezzò il silenzio – passi lenti e leggeri, come se un filo d'aria si frapponesse tra il suolo ed i suoi piedi – , ma la cappa di pace rimase intatta. Katsuki non si voltò per controllare chi fosse. Poteva non ricordare i nomi dei suoi compagni di classe, ma aveva imparato a memoria i loro passi, così da poter capire chi si aggirasse sul campo di battaglia, come si muovevano, come batterli. Quelli erano decisamente i passi di Uraraka. 
La ragazza si sedette accanto a lui, le gambe penzoloni nel vuoto oltre il cornicione. Non disse nulla, ma Katsuki sentiva il suo sguardo su di sè. Non era una sensazione spiacevole, ma lui, ostinato, fissava la luna e le nubi sopra di loro e si chiedeva come mai fosse lì anche lei, a quell'ora sicuramente indecente, che non aveva osato controllare e che sicuramente sarebbe costata loro cara la mattina seguente. Le lancio un'occhiata di sfuggita e la colse ancora a guardarlo.
«Che diavolo ci fai tu qui?» borbottò, la voce sommessa e arrochita. 
Uraraka sbattè le palpebre un paio di volte, come a processare la domanda, poi un sorriso si fece strada sulle sue labbra, una piega lieve, quasi impercettibile. «Non riuscivo a dormire», disse solo, una scusa palese, ma sulla quale non ebbe voglia di contestare. 
Lo sguardo di Katsuki era duro, quasi un rimprovero nei confronti della ragazza per essere lì fuori, al freddo, ad una tale ora. Katsuki, però, sapeva bene che era merito suo se la sensazione di solitudine improvvisamenre era sparita, lasciando posto ad un nodo alla gola che sarebbe stato così semplice da sciogliere. Avrebbe voluto brontolare, dirle qualcosa, ma non lo fece. Invece, rimase in silenzio, catturato da quello sguardo colorato da una strana scintilla – preoccupazione, avrebbe osato pensare. Si chiese come potesse un tale sentimento balenare negli occhi di qualcuno mentre c’era lui all’interno del suo sguardo, mentre era lui l'oggetto della preoccupazione e non la sua causa. 
Uraraka sorrise di nuovo e la luce lunare parve farsi più intensa. Guardandola, si sentiva meglio, come se i suoi occhi ed il suo viso tondo come la luna fossero sufficienti a cancellare gli occhi terrorizzati di quel bambino, a zittire tutte le voci che gli ridondavano in testa come un’eco morbosa. Katsuki rilasciò un profondo grugnito, consapevole che probabilmente si sarebbe pentito di quello che stava per fare.
Abbassò la testa, raccogliendo le ginocchia al petto e nascondendo le mani ed il viso all’interno di quell’immaginaria bolla che lo faceva sentire, in qualche modo, meno scoperto. Da una parte, si vergognò per questa sua debolezza, ma non era mai stato bravo ad esprimere come si sentiva – non davvero – e quello gli sembrava un buon compromesso. Si torturava le mani, Katsuki, mentre sentiva lo sguardo gentile di Uraraka continuare ad accarezzarlo. 
Fu più un borbottio confuso, ovattato e sommesso, ma alle orecchie della ragazza parve cristallino. «Credi sia una brutta persona?»
Non la guardava, ma Katsuki era quasi certo che sul volto di Uraraka fosse ora dipinto un cipiglio sorpreso – come avrebbe potuto darle torto? Anche lui non sapeva esattamente che cosa gli fosse preso: le parole erano uscite dalla sua gola senza che avesse il tempo di formularle. Non sapeva che non fosse stupita per la domanda in sé – anche lui era umano, dopotutto, un ragazzo esattamente come lei –, quanto più che avesse deciso di aprirsi proprio con lei tra tutti.
Non gli chiese perché lo pensasse: come tutti, era al corrente delle parole avvelenate che ogni giorno passavano di bocca in bocca. Sapeva bene quanto cattive e meschine fossero. Aveva sempre pensato che non lo toccassero, che gli scivolassero addosso come acqua su di una roccia – per qualche motivo, però, non aveva mai pensato che anche la più dura delle rocce soccombe all’erosione. 
Non era mai stata brava nel consolare le persone, lei. Era sempre stata goffa e, in un modo o nell’altro, era sempre riuscita a dire la cosa sbagliata, senza sapere bene cosa fare, sentendosi fuori posto, nel panico più totale. Quella volta era diverso. 
Gli mise una mano sul braccio, un balugino di calore sulla stoffa fredda della felpa, ed il suo sguardo si addolcì – sebbene conservasse una vaga nota di tristezza. 
«Tu sei un eroe, Bakugou-kun.» Il tono era delicato, un sussurro che aveva la pretesa di parlare al cuore, di dissipare le nubi.
Sgranò gli occhi, Katsuki, ancora nascosti nel piccolo antro che s’era creato. L’ultima cosa che si sarebbe aspettato era una risposta. A dire il vero, non si aspettava assolutamente nulla. Semplicemente, credeva che sarebbe rimasta in silenzio, cercando di capire se fosse meglio mentirgli o assentire, confermando la cruda verità. Non gli piacque ammetterlo, nemmeno a sé stesso, ma se dalle labbra di Uraraka fosse trapelata una conferma qualcosa in lui si sarebbe rotto. Sentì le lacrime fare pressione sulle palpebre, ora serrate per impedire loro di cadere, di uscire allo scoperto, e sentì il nodo alla gola farsi più stretto. In un angolo della sua mente, si chiese quando mai fosse stato così gentile da meritarsi quel trattamento ora – sapeva di avere un carattere orribile, di non avere alcun diritto a quel momento, ma ne fu grato. Katsuki levò leggermente la testa, abbastanza da guardarla con la coda dell’occhio, la muta preghiera di continuare incisa nel suo sguardo. Preferì ignorare quella voce maligna che insinuava una menzogna.
Per un momento, Ochako non disse nulla. Si limitò ad osservarlo per un breve istante e Katsuki lesse nei suoi occhi sincerità. Poi, smise di guardarlo e rivolse il viso alla luna.
«Che hai un pessimo carattere lo sappiamo tutti», disse.
Katsuki le scoccò un’occhiataccia, ma non disse nulla. Anche se stava solo evidenziando l’ovvio, normalmente si sarebbe messo ad urlare; quello, però, non era un momento normale. Katsuki si sentiva come in una bolla, la sua corazza di collera svanita nel nulla, un mondo a parte dove, per una volta, si sentiva in diritto di essere debole.
Una folata di vento lo fece stringere nella felpa, ma Ochako sembrava non averla avvertita mentre inspirava a pieni polmoni l’aria fresca, gli occhi chiusi. 
Ochako non lo guardò, ma un risolino le risalì dalla gola. «Sei collerico e scurrile» continuò, e si esimé dal continuare quell’elenco che entrambi sapevano essere troppo lungo. «Ma sei buono. E vediamo tutti quanto tu desideri essere un eroe, non solo per essere il numero uno. E sai anche essere gentile, a modo tuo. Come quando hai accettato di aiutarmi nel combattimento. O tutte le volte che dai una mano a Kirishima-kun e Kaminari-kun con i compiti. Non ho mai pensato che tu fossi una brutta persona, nessuno di noi l’ha mai fatto e–» S’interruppe all’improvviso, la testa voltata di scatto verso il braccio. Katsuki vi aveva posato la mano, mosso da nemmeno lui sapeva cosa. 
Lo sguardo di Uraraka passò nuovamente dalla sorpresa alla dolcezza e posò la sua mano sopra quella del ragazzo. A colorarle le labbra, un altro sorriso che sembrò contagiare anche Katsuki, la cui bocca aveva assunto una leggera piega. 
«Grazie.» Gli fu difficile parlare, il nodo che ancora gli chiudeva la gola. Non ricordava nemmeno più l’ultima volta in cui aveva pronunciato quella parola senza una nota sarcastica a vibrare nella voce. In quel momento, in quella bolla che si era creata attorno a lui – che, stranamente, percepiva come rosa – Katsuki si sentiva sereno, liberato dal macigno di quegli occhi terrorizzati, dal ronzio di quelle voci sprezzanti.
Ochako gli strinse ancora la mano, cominciando poi a ritirarla. Katsuki, invece, la trattenne, il suo sguardo ad implorarla di rimanere lì con lui ancora un po’, di non far scoppiare quella bolla. E rimase. 
Katsuki guardò di nuovo il cielo: la luna svettava, brillante e rotonda – come il viso di Uraraka –, le nubi erano svanite.



 

Angolino autrice
Eccomi qui con l'ennesima Kacchako che (non) mi avevano chiesto! L'idea me l'ha data Kiya Siph (EFP) e in non so nemmeno quanto tempo (relativamente poco) l'ho finita, stressando in maniera assurda l'adorabile NanaLuna per il titolo che non riuscivo a trovare nemmeno per scherzo. È stata un filo un parto tutta la storia, ma alla fine sono contenta di quello che è venuto fuori, scriverla mi ha davvero emozionata.
Spero di aver reso bene Bakugou, di non averlo reso troppo OOC (incubo permanente, altro che occhi e voci) e sinceramente, che intendiate Bakugou e Uraraka come ship o meno, io adoor il loro rapporto ed il potenziale che ha.
Detto questo, vi ringrazio per avere letto e ci vediamo alla prossima, dato che ho già altra roba in cantiere!
Baci, 
Tata
   
 
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