Bittersweet afterglow
“In quel periodo stavo con
una persona con la quale non avrei dovuto stare.
Sapete, quando le persone
non vanno bene per te…
E personalmente tendo ad
incasinarmi a volte con, beh, le persone sbagliate.
E tendo a scegliere le persone
sbagliate nella mia vita, a volte.
E poi le faccio rimanere
nella mia vita.
E lo sapevo, ma lo sapevo
che era sbagliato, però…”
“…di persone che
infrangono le loro promesse.
E ti fanno tornare a
credere in loro e tu lo fai ogni volta.
Tom ed io ci siamo
trasferiti a L.A e abbiamo fatto parecchia esperienza con le persone.
Io ho dovuto imparare la
mia lezione e lo sto facendo ancora.
E sapete, a volte le
persone entrano ed escono dalla tua vita.
E poi promettono che non
ti deluderanno mai ma poi accade di nuovo”
Bill Kaulitz
1
Fa
così tanto male che Bill non riesce a respirare.
Si
china in avanti, raccoglie le ginocchia e cerca di premere il peso sullo
stomaco per far scemare il dolore. Ma non ci riesce. Gli si è attorcigliato
tutto, dentro: nodi di vene, muscoli contratti, ossa rotte, spezzate come il
suo cuore.
Gli
pare di soffocare. Non riesce ad estendere il diaframma quanto basti per
prendere un respiro. E allora si rannicchia di più su se
stesso con le braccia strette attorno alle ginocchia magre e quelle lacrime
amare che scivolano giù, lungo la stoffa dei pantaloni di un nero elegante.
Ormai
lo conosce bene, il sapore delle lacrime. Conosce perfettamente il bruciore
agli occhi, il gonfiore, la stanchezza e il mal di testa che seguono il pianto.
Ne ha versate così tante, di lacrime, che dentro dovrebbe essere arido come un
deserto.
Gli
fa male anche la gola. Gli si è chiusa in una morsa, raschiata da quel dolore
che non vuole lasciarlo andare. Schiude le labbra un singhiozzo, un singhiozzo
che aveva cercato di trattenere e che lo scuote completamente. Gli squassa il
corpo. Ma forse più il cuore.
Se
continuerà a sentire così tanto dolore e non riuscirà a riprendere a respirare…
beh, è probabile che morirà. Bill non riesce a dispiacersi di una tale
prospettiva. Non il questo momento. Dopotutto, niente
più dolore, dopo la morte.
I
suoi pensieri sono sconnessi, tetri, la lucidità è completamente scomparsa e
lui si sente esausto. Non riesce più a ragionare: singhiozza solamente, perso
nel suo dolore.
È
la mano che si posa sulla sua spalla a fargli riprendere il respiro regolare: è
calda e forte. Le dita fanno una leggera pressione sul suo corpo e Bill sente
un brivido lungo la schiena. Anche se vorrebbe disintegrarsi sotto quel tocco,
si rende conto che non può farlo. Questa è la mano che è abituata a
raccoglierlo, a stringerlo, a rassicurarlo da un’intera esistenza. Non può
davvero sgretolarsi ora.
“Bill.”
La
sua voce è più bassa del solito, vuole essere delicata ma vibra di una rabbia
repressa. La rabbia di chi sa qual è
la causa di tutto quel dolore.
A
Bill balena in testa che Tom non dovrebbe essere lì, ma che dovrebbe essere ad
una festa con alcuni amici. È l’unico pensiero lucido che ha in questo momento,
poi torna a premere più forte la fronte contro le ginocchia ed un singhiozzo lo
scuote nuovamente.
Il
cuscino del divanetto si piega appena sotto il peso di Tom: Bill può sentirsi
scivolare un po’ all’indietro mentre Tom si siede e gli passa un braccio sulle
spalle, lo attira contro di sé. Lo sa cosa è successo, lo ha percepito; è
proprio per questo che ha lasciato quella stupida festa ed è tornato a casa,
sfrecciando con la sua auto nella notte. Non ha nemmeno salutato le persone con
cui si trovava. Ha solo avuto una brutta sensazione ed è corso via. D'altronde,
qualsiasi party è considerato stupido ed inutile se Bill ha bisogno.
“Va
tutto bene” gli mormora Tom all’orecchio e Bill non riesce a far altro che
singhiozzare più forte.
La
sua attenzione si sposta nuovamente sul dolore che sta provando adesso: la
presenza di Tom al suo fianco gli fa quasi sentire meno male, come se suo
fratello si stesse prendendo un po’ della sua sofferenza. Come se gli stesse
alleviando il male. Tom è il suo palliativo.
Perciò
non c’è bisogno di parlare. Non c’è mai
stato bisogno di parlare, tra loro due. Tom sa. Sa quale è la causa, sa cosa
prova Bill adesso e sa quanto tempo ci vorrà per far rimarginare le sue ferite.
Ancora
una volta.
Tom
ricorda perfettamente quando tutto è iniziato: erano arrivati da poco a Los
Angeles e stavano ancora cercando di ambientarsi nella nuova quotidianità. Lì
la vita era diversa e loro potevano davvero sentirsi due persone normali:
potevano uscire, assaporare la libertà senza doversi preoccupare di fare o dire
qualcosa che potesse essere frainteso o giudicato. Bill non ne poteva più dei
giudizi inutili della gente e anche Tom era arrivato al limite.
Così
passavano le loro giornate a ciondolare in giro, ad esplorare, a rilassarsi e a
fingersi altre persone. Una volta, un uomo aveva chiesto a Bill che cosa
facesse per vivere e lui aveva risposto che studiava fotografia. L’altro lo
aveva guardato ammirato e confessato che anche lui lo era, un fotografo. Aveva
seguito una conversazione sulle macchine fotografiche migliori in cui Bill
aveva inventato tutto di sana pianta, finché Tom non lo aveva portato via con
una scusa. Benedetta connessione tra gemelli.
Fu
proprio durante una delle loro passeggiate notturne per la città -una di quelle
senza le guardie del corpo che in Germania non sarebbe stata possibile- che era
successo. Tom probabilmente lo aveva percepito, aveva avuto una brutta
sensazione, il sentore che qualcosa non quadrasse. Era rimasto in allarme per
tutto il giorno come quella volta che Bill aveva avuto un brutto incidente
d’auto, anni prima. Le sue ansie si erano rivelate tutt’altro che infondate.
E
anche quella sera, in qualche modo, per Bill fu come uno schianto a cento
chilometri orari: eccolo lì, lui: californiano,
sulla trentina, alto, muscoloso, i capelli scuri e quegli occhi che avevano totalmente rubato l’anima di Bill. Nel
giro di un secondo. O forse meno.
Il locale si chiamava The
Irish Times ed era uno di quelli che Bill
aveva inserito nella lista delle cose da fare: le recensioni lo consigliavano
anche -e soprattutto- per i menù vegetariani che venivano serviti.
Si erano seduti in un tavolino più
defilato, meno in vista degli altri: nonostante in America non fossero tanto
conosciuti quanto in Europa, Bill non si sentiva ancora del tutto a proprio
agio nell’immergersi nella folla. Tom lo assecondava, sebbene entrambi, in
realtà, non vedessero l’ora di poter essere di nuovo due ragazzi normali. Bill
era anche vestito in maniera più casual proprio per non risultare troppo
appariscente: una canottiera nera un po’ larga sui fianchi, dei jeans aderenti
che scendevano severi fino agli anfibi. Sopra, una camicia a scacchi blu di
flanella… non si era ancora abituato per bene al clima californiano e, quindi,
stava andando per tentativi.
Davanti ad una birra e ad un
hamburger di soia, i gemelli si erano messi a chiacchierare riguardo alla
possibilità di trovare un giardiniere per far sistemare il giardino della loro
nuova villetta, ma Bill si era presto distratto. I suoi occhi ambrati erano
incollati al bancone del bar da quelli che erano ormai minuti, e quindi Tom,
incuriosito, aveva seguito il suo sguardo e capito cosa -o meglio chi- stesse monopolizzando l’attenzione di suo
fratello.
Aveva avuto di nuovo quella brutta
sensazione alla bocca dello stomaco, il suo respiro si era accorciato e il
cuore aveva saltato un battito: quel ragazzo si era voltato verso di loro.
Aveva percepito gli sguardi di entrambi i gemelli addosso, era ovvio. Aveva
sorriso, aveva alzato il boccale di birra della loro direzione. Ed aveva
ammiccato un po’.
E Tom lo aveva sentito. Lo aveva
sentito, il cuore di suo fratello tremare. E se le luci fossero state meno
basse e cupe, tutti si sarebbero potuti accorgere del color porpora che avevano
assunto le sue guance. Ma poi Bill, imbarazzato, aveva abbassato lo sguardo e,
in quel momento, era finita lì. Si era sentito rassicurato dalla reazione di
Bill. Aveva addirittura iniziato a parlare d’altro, ritrovato quasi il buon
umore, sebbene quella strana sensazione non lo lasciasse ancora andare.
Conclusasi la serata, i gemelli si
erano alzati per tornare a casa, mentre quel tipo era ancora lì e parlava con
alcuni amici. Tom gli aveva dato un’occhiata disinteressata, quasi infastidita
dalla sua presenza e aveva provato a farglielo capire in ogni modo. Se solo
avesse potuto ringhiare, lo avrebbe fatto.
Bill, invece, aveva cercato lo
sguardo di quell’americano, aveva alzato gli occhi ambrati verso i suoi ed
accennato uno di quei sorrisi imbarazzati che regalava nei momenti in cui si
sentiva a disagio. Dopotutto, quel tizio aveva continuato a fissarlo per
l’intera serata…
Finalmente fuori dal locale. Tom si
era sentito meglio, aveva respirato l’aria fresca della notte ma la pioggia
aveva iniziato a battere forte sull’asfalto e Bill non aveva voglia di
bagnarsi. Tom lo sapeva bene, era sempre così. Col senno di poi, forse, sarebbe
dovuto rimanere lì ed aspettare che la pioggia cessasse. Invece, per amore di
suo fratello, aveva deciso che sarebbe andato da solo a recuperare la macchina
parcheggiata in fondo alla via, avrebbe fatto inversione appena potuto… e
sarebbe tornato da Bill.
Guardando Tom affrettare il passo
sotto le grosse gocce di pioggia, Bill si era appoggiato al muro del locale,
coperto da una tettoia, una gamba piegata puntata contro il muro e l’altra a
reggere il corpo, le mani in tasca.
“Sigaretta?”
Bill
ricorda perfettamente quell’attimo. Gli si è impresso nella mente,
cicatrizzato, fossilizzato così profondamente che non pensa che riuscirà mai a
cancellarlo dalla sua memoria. Sarebbe impossibile.
Non aveva nemmeno ragionato sulla
voce -bassa, leggermente arrochita- che aveva pronunciato quella sola parola in
un americano masticato e quotidiano. La sua attenzione era stata catturata dal
suo sguardo: erano gli occhi più belli e più caldi che avesse mai visto, così
intensi, scuri, infiniti… ci si perse dentro.
“Ehi, non mordo mica” aveva riso il
ragazzo vedendo la titubanza di Bill nel rispondergli. In realtà, Bill non era
riuscito a trovare le parole o ad emettere qualsiasi suono. Sentiva solo il
proprio cuore battere come una furia nel petto.
“Oh. Scusa. Ma io non parlo ancora
bene inglese” aveva
buttato fuori a fatica, la voce che gli tremava un po’ e una vocina che
continuava a ripetergli stupido, stupido
proprio dentro al cervello.
“Immaginavo che non fossi di qui” gli
aveva risposto l’altro mentre prendeva, dalla tasca posteriore dei jeans -e lo
sguardo di Bill scivolava inevitabilmente lungo la linea del suo corpo…- un
pacchetto di sigarette. Ne aveva portata una tra le labbra -piene, leggermente
secche…- e Bill si era soffermato sul modo in cui i suoi muscoli si erano tesi
sotto la t-shirt, aveva notato come la sua pelle fosse lievemente abbronzata e
poi…
“Non hai l’aria di un americano”
aveva continuato il tipo. La voce, adesso, era leggermente smorzata dalla
sigaretta che teneva stretta tra le labbra, per non farla cadere mentre cercava
l’accendino. Rosso. Bill non avrebbe dimenticato quel dettaglio.
“Io sono tedesco” si era ritrovato a
dire provando a ricordare l’elementare soggetto, verbo e
complemento che aveva studiato da qualche
parte. Non ricordava dove.
L’altro aveva continuato a guardarlo,
poi si era acceso la sigaretta dopo averne passata una a Bill. Le loro mani si
erano appena sfiorate. Aveva portato una mano a coppa davanti alle loro bocche
ed aveva acceso la sigaretta di Bill con la propria.
Con le dita, aveva protetto la fiamma
dal vento. Con il suo corpo, aveva protetto Bill dalla pioggia.
E proprio Bill non aveva saputo aprir
bocca. L’emozione gli aveva stretto lo stomaco, aveva avuto paura di dire
qualcosa che avrebbe potuto rovinare quell’attimo. Allora era tornato ad
appoggiarsi al muro con la schiena. Avevano fumato in silenzio, le loro braccia
a contatto.
La pioggia gli cadeva attorno e Bill
trovava che non fosse mai stato così rilassante ascoltarne il rumore.
“Come ti chiami?”
“Bill.”
“E cosa ci fai, in America, Bill?”
A quel punto Bill si era voltato e lo
aveva guardato dritto negli occhi, aveva scrollato le spalle. Aveva piegato
leggermente il capo di lato, un piccolo sorriso sulle labbra.
“Io sono un cantante.”
Avrebbe potuto inventarsi di essere
chissà chi, magari uno studente. Invece aveva detto la verità, gli era venuto
naturale. E lo aveva trovato liberatorio. Anzi, avrebbe aggiunto che cantava
nei Tokio Hotel ma…
Il clacson di Tom lo aveva fatto
trasalire. Due volte, una strombazzata quasi isterica. L’auto era ferma davanti
a lui e Tom era sceso dall’auto per farsi vedere. La sua testa castana faceva
capolino dalla costosa auto bianca. Tom era fradicio e pareva essere
particolarmente scocciato.
“Bill, dai, muoviti!” lo aveva quindi
richiamato e gli occhi del ragazzo-ancora-senza-nome- si erano mossi verso di
lui. Poi era tornato a guardare Bill e aveva fatto una piccola smorfia con la
bocca.
“Lui è il tuo fidanzato?”
Bill, una volta compresa la domanda,
aveva riso. Aveva riso un po’ d’isterismo, un po’ di divertimento. Come aveva
fatto a non notare la loro somiglianza?
“Lui è mio fratello” e così detto
aveva buttato il mozzicone e lo aveva schiacciato con la punta della scarpa,
poi si era avviato verso Tom che lo guardava, la mascella dolorosamente
serrata.
Poco prima di salire, Bill si era
voltato verso l’americano e lo aveva salutato con la mano.
L’inizio
di tutto.
Nonostante
sia passato del tempo, per Bill è come se fosse accaduto poche ore fa. Non
aveva dormito quella notte. Aveva pensato e ripensato a quel ragazzo,
fantasticato su ciò che sarebbe venuto. Beh, magari lui avrebbe cominciato a
tirare dei sassolini alla sua finestra e…
Ricordare
fa ancora più male. Il suo cervello ha deciso di fotterlo così, proiettando una
dopo l’altra le immagini di quella sera e delle successive. Allora Bill cerca
di accartocciarsi più su se stesso: si sente un pezzo
di carta che si sgretola sotto le fiamme, che pian piano diventa cenere.
Assurdo. Non pensa di essere stato mai così male. Probabilmente nemmeno è
possibile stare peggio di così.
Tom
lo tiene premuto meglio contro di sé, appoggia la testa contro la sua e muove
le dita piano, sulla sua spalla, in un movimento che vorrebbe risultare
rassicurante. Vorrebbe che lo fosse anche per se
stesso. Non riesce a vedere Bill così. Non ce la fa.
Sente
il sangue che gli ribolle dentro, vorrebbe trovare Alex e prenderlo a pugni
fino a fargli passare la voglia di fare lo stronzo con suo fratello. Una volta
lo ha anche fatto: gli ha dato un pugno sul naso proprio nel loro salotto di
casa. Tom non è un tipo violento. Anche se a volte sente il bisogno di spaccare
qualcosa, non è mai arrivato alle mani per far valere le proprie ragioni.
Proprio per questo, quel pomeriggio non si è riconosciuto e la mano gli ha
fatto male per giorni.
“Non ti devi permettere!” stava
gridando Alex proprio mentre Tom rientrava in casa: era andato a fare la spesa,
aveva anche comprato gli hamburger di soia che piacevano tanto a Bill: aveva in
mente di cucinare qualcosa e cenare in giardino, magari abbinare il tutto con
due birre ghiacciate e qualche chiacchiera sugli ultimi brani che avevano
scritto.
Però, le grida che provenivano dal
salotto gli avevano subito dato un senso di inquietudine. Aveva sentito lo
stridere della seggiola sul pavimento ed un gemito un po’ soffocato: allora
aveva lasciato cadere le buste della spesa ed era entrato nella stanza. Come un
pazzo.
Quando aveva visto la scena, gli si
era gelato il sangue nelle vene: Alex teneva Bill per il collo, lo premeva
contro la parete e il viso di suo fratello era arrossato. Gli mancava l’aria.
E lì, Tom non aveva capito più
niente.
Come una furia si era buttato su
Alex, la presa stretta sulle sue spalle nel tentativo -fallito- di farlo cadere
a terra: nonostante gli ultimi mesi passati in palestra, Tom non era riuscito a
sovrastarlo con la propria forza, ma lo aveva colpito con un pugno in pieno
viso. Sulla sua faccia di merda.
“Fuori da questa casa! Fuori!” aveva
gridato così forte da sentire, un attimo dopo, la gola raschiata. Alex si
teneva il naso sanguinante, lo sguardo era furente e Tom, con il braccio teso
indicava la via d’uscita senza riuscire a respirare.
Il fiato gli mancava. Poteva sentire
il proprio cuore battere impazzato nel petto. E all’unisono, quello di Bill.
Alex aveva sputato qualche altro insulto su Bill, lo aveva chiamato puttana, poi se ne era andato sbattendo la porta.
Tom si era voltato immediatamente
verso suo fratello e ciò che aveva visto nei suoi occhi -umiliazione,
tristezza, rabbia repressa- lo aveva ferito ancor più del rossore attorno alla
sua gola.
Quella volta, Bill si era lasciato
scivolare lungo la parete, fino a sedersi con le ginocchia raccolte. Tom gli si
era seduto accanto, arrabbiato e preoccupato.
Alex aveva spezzato il cuore di Bill
ancora una volta.
Tom
si toglie la giacca e la posa sulle spalle del gemello. Bill sta tremando ma
Tom è quasi certo che non sia a colpa del freddo. Comunque sfrega il palmo
della mano sulla sua schiena in una carezza più pesante, per potergli dare un
po’ di calore o rassicurazione che sia.
“Entriamo
in casa, vieni” mormora alzandosi e portandosi con sé anche lui, stretto
nell’abbraccio. Bill gli pare così fragile, sotto la propria presa, che si
domanda dove sia finito quel ragazzino che spaccava il mondo pur di fare quello
che desiderava.
Alex
lo aveva annullato, totalmente annullato.
Con le sue scenate di gelosia, con le sue umiliazioni, con i tradimenti. E Bill
aveva assorbito tutto, si era fatto andare bene tutto: i divieti, gli insulti,
tutte le bugie. Era diventato succube di Alex, si era lasciato convincere di
aver bisogno di lui. Alex era un manipolatore… ma sarebbe potuto essere
addirittura un serial killer che Bill lo avrebbe sempre amato
incondizionatamente.
È
quello che chiamano il primo amore, quello che per Bill era arrivato solo dopo
i vent’anni, quasi un po’ in ritardo, forse per compensare la fortuna che aveva
avuto con la sua musica. E i soldi, poi. No, non facevano la felicità, forse ne
compravano solo un po’. Ma non rendevano felice un uomo, Tom ne era ormai
sicuro. Avrebbe anche potuto comprare un’isola deserta per suo fratello, ma non
sarebbe mai stato felice. Non senza Alex. Non finché lo avrebbe avuto in testa.
Bill
si lascia guidare placidamente fino al letto matrimoniale della camera da
letto: in quella casa ci sono due camere, ma è successo più volte che si
addormentassero insieme, soprattutto quando si sentivano tristi.
Tom
lo fa sdraiare e Bill si volta su un lato, il cuscino stretto tra le braccia e
gli occhi ambrati gonfi di pianto.
“Vuoi
una tisana? Della camomilla col miele?” domanda Tom apprensivo.
Di
lui si è sempre detto che è un ragazzo superficiale, anaffettivo, distaccato,
il che probabilmente è anche vero. Ma nessuno lo ha mai visto comportarsi con
Bill, nessuno conosce il modo in cui si prende cura di lui, sebbene a volte
qualcosa si è potuto captare attraverso video o fotografie che sono apparse su
internet. Tom non può non preoccuparsi di Bill: Bill è lui e lui è Bill.
Bill
scuote piano la testa negando l’offerta, si rannicchia meglio e Tom gli
appoggia una coperta sulle spalle, anche se è ancora vestito di tutto punto e
con le scarpe. Pazienza, per quella volta faranno un’eccezione.
A
Tom viene in mente quella sera che Bill era rientrato tardi, così tardi che si
poteva chiaramente considerare mattina presto. Era felice, camminava ad un metro
da terra come se ad attutire i suoi passi ci fossero state tante soffici
nuvole: si era addirittura premurato
di svegliare Tom e raccontargli della sua lunga passeggiata per la città con
Alex, che gli aveva offerto una “splendida
cena in un locale costoso e terribilmente elegante” e poi, dopo “tantissime chiacchiere e risate, ah a
proposito ma lo sapevi che ad Alex piacciono da morire i cani?”, Alex lo
aveva baciato. Gli aveva dato uno di quei baci romantici, delicati che avevano
fatto saltare il cuore in gola a suo fratello e lo avevano fatto tornare a casa
praticamente volteggiando.
Era
innamorato perso, Bill, aveva completamente perso la ragione, la testa e
qualsiasi cosa potesse tenerlo coi piedi per terra. Cotto, cotto a puntino
dietro il suo primo grande amore.
Tom
non è mai stato particolarmente contento della relazione tra Bill ed Alex: non
trova che Alex fosse la persona giusta per suo fratello perché tende a
tarpargli le ali e Bill rimane sempre in silenzio, accettando a testa bassa.
Come quella volta che lo aveva obbligato a declinare un invito ad una festa di
una certa importanza, con alcuni dei suoi amici, in quanto Tom non avrebbe
potuto esserci e lui non avrebbe “potuto
tenerlo d’occhio”.
E
il casino, poi, che gli aveva fatto per essersi tagliato i capelli biondi. Alex
aveva sempre rappresentato un
ostacolo per Bill, aveva limitato la sua arte, l’aveva annullata. Non era stato
una buona spalla sulla quale piangere, ma anzi, un problema da trascinarsi in
giro, che lo teneva fastidiosamente ancorato alla realtà. E Bill, invece, era
un sognatore. Amava sognare in grande, realizzare dei piccoli obiettivi che lo
avvicinassero sempre di più alla meta finale. Ma tra i suoi sogni, rientrava
anche Alex e la loro relazione. Si lasciava scivolare via ciò che in realtà non
accettava. E cercava di farsi andare bene tutto, quando in realtà dentro di sé
soffriva.
Così
abbracciato a quel cuscino, Bill cerca di piegare di più le ginocchia per
comprimere lo stomaco che gli fa ancora terribilmente male: vorrebbe vomitare
ma non pensa di averne le forze. Inoltre, non servirebbe a nulla, vomiterebbe
solo se stesso e non può permetterselo: ha ancora un
briciolo d’amor proprio.
Ma
i ricordi sono infami, si insinuano tra le pieghe della coperta, impregnano le
lenzuola, i vestiti, e anche se Bill vorrebbe cancellarli tutti -avere
un’amnesia, se possibile-, questi arrivano, ad ondate.
Si
rivede, quella volta, in una suite d’albergo dove Alex lo aveva portato per i
loro primi due mesi insieme. Volevano festeggiare, stare un po’ da soli. E
avevano fatto l’amore. La prima volta di Bill con un uomo. Era stata così
romantica che a pensarci gli viene il voltastomaco. Alex era stato perfetto ed
il sesso gli era… beh, gli era piaciuto nei limiti, d’altronde aveva fatto
piuttosto male. Ma Bill non avrebbe mai potuto lasciare andare quel dolore
perché aveva portato con sé la dolcezza che Alex aveva dimostrato durante
l’intera notte.
Col
tempo, Bill era diventato più disinibito e aveva imparato cosa potesse dare più
piacere ad Alex, ma anche a se stesso. E non c’era più
stato solamente fare l’amore, ma anche il sesso passionale, rapido, in piedi
contro il muro, magari in macchina, saltarsi addosso. Il sesso non era più
stato solamente qualcosa per stare insieme, per consolidare la loro relazione,
per intensificare la loro intimità, era diventato soprattutto il modo di fare pace dopo un litigio, una discussione
qualsiasi.
Bill
aveva imparato a non far valere le proprie ragioni -come invece faceva con
chiunque altro- più di molto: prima sbraitava, urlava, a volte volavano
schiaffi ma dopo diceva di sì, scrollava le spalle e si convinceva che Alex
aveva davvero ragione, che era lui
che sbagliava a fare qualcosa in quel modo o a pensare in quell’altro.
Allora,
in contemporanea, aveva anche imparato ad inginocchiarsi davanti a lui in un
gesto di sommessa riappacificazione. Aveva imparato ad ignorare le frasi di
Alex che cercavano di farlo sentire in colpa e di sottometterlo, di fargli
capire che quello era uno dei pochi –se non unici- modi che Bill aveva di farsi
perdonare.
Le
motivazioni di quelle inutili -enormi, sfiancanti, frequenti- litigate, Bill
non le condivideva, ma aveva deciso che se le sarebbe fatte andare bene.
D’altronde, Alex era il suo grande amore.
Tom
gli si sdraia meglio accanto, con una mano gli accarezza la schiena e rilascia
un sospiro lento. Non sa tra quanto passerà a Bill, ma sa che gli rimarrà
comunque accanto, non può e non vuole
fare altrimenti.
“Questa
volta è finita davvero.”
La
voce di Bill è così rauca e graffiata che Tom, per un attimo fatica a
riconoscerla. Gli fa paura. Non l’ha mai sentita così, a parte dopo
l’operazione alle corde vocali, ma questa è un’altra storia. Quella volta era
stato contento di sentirla, seppur arrochita dai troppi giorni di silenzio, ma
era stato un sollievo. Adesso, invece, gli fa male al cuore e basta. Sente
proprio una stretta che gli toglie il respiro. Riprende ad accarezzargli la
schiena e si umetta le labbra.
“Perché?”
Già. Perché?
Bill se lo chiede, Bill vorrebbe poter sapere rispondere a quella domanda, ma
in realtà non lo ha capito nemmeno lui. Alex ha deciso che è finita, che non
possono più andare avanti così, che stare con lui sta diventando un peso, una
noia, che il sesso non è nemmeno più granché.
Nell’udire
quel discorso, Bill si è sentito così umiliato da avere la faccia in fiamme. Ha
sempre accettato tutto, persino i continui tradimenti che mai avrebbe voluto
prendere in considerazione. Il più difficile da ignorare era stato un
tradimento con una donna più grande , con la quale
Bill non avrebbe mai potuto competere.
“Perché
Alex ha deciso così.”
Tom
si irrigidisce, ritrae la mano solo per un attimo, giusto il tempo di calmarsi
e cacciare via il desiderio -forte e concreto- di prendere Alex a schiaffi,
tutti quelli che avrebbe voluto dargli negli anni passati. Apre e stringe il
pugno per qualche secondo di fila.
Non
sopporta l’idea che Bill stia male, non sopporta che Alex abbia deciso per
tutti e due, che non gli abbia dato la possibilità di scegliere, di farsi valere,
almeno per una volta. Lo odia. Lo detesta e se lo avesse davanti gli darebbe un
pugno su quel nasone che si ritrova.
“Bill,
cosa significa che Alex ha deciso così?” domanda provando a non far sentire la
sfumatura di rabbia nella voce, ma Bill la coglie ed è il suo turno di
irrigidirsi.
Tom
lo vede chiaramente: la linea sinuosa della sua schiena adesso è meno armoniosa
e i suoi pugni sono più serrati attorno al cuscino di gommapiuma. Con un
colpo di reni, Bill si volta e finalmente Tom può incontrare i suoi occhi: sono
così tristi, gonfi ed arrossati che gli spezzano il cuore, ancora una volta, in
tanti altri piccoli pezzetti. Ma sul suo viso, oltre alla tristezza, c’è una
punta di rabbia che quasi fa ben sperare Tom.
“Pensi
che se lo sapessi non avrei già fatto qualcosa per riparare i miei errori?”
ringhia.
E
Tom capisce che l’ira di Bill non è rivolta verso -quello stronzo di- Alex, ma verso di sé; si sente un po’ preso in
contropiede e sussulta, schiude le labbra e cerca di trovare qualcosa da dire.
Stupidamente vorrebbe difendersi, indispettirsi perché non merita che Bill gli
si rivolga a quel modo.
Eppure
non dice nulla. Bill potrebbe anche affondargli una lama nel cuore, che Tom lo
perdonerebbe in ogni caso.
“Bill,
tu non… tu non hai sbagliato nulla” prova a dirgli e lo pensa anche. Ne è
davvero certo. Se c’è qualcosa che ha sbagliato, è stato lasciarsi manipolare,
lasciare che Alex lo sottomettesse a quel modo. Null’altro.
Ma
Bill scuote la testa, fa una smorfia con la bocca e poi abbassa lo sguardo. Non
lo pensa. Bill è davvero convinto di aver fatto tanti, troppi sbagli: se chiude
gli occhi e cerca di visualizzarli, nella sua testa sono ordinati tutti in fila
indiana. Per lui è inconcepibile. Si sente il carnefice e non la vittima come
dovrebbe -e vorrebbe- essere. Ma forse, se lo dice Tom…
“Lo
pensi davvero?” si decide a domandare dopo qualche attimo.
Adesso
Tom può vedere di nuovo la stanchezza negli occhi di Bill. Addirittura
l’esasperazione. Bill non ne può più e Tom è sicuro che, in fondo all’anima,
Bill si sente libero. In qualche modo, questo circolo vizioso fatto di
felicità, gelosia, litigi, sesso e riappacificazioni è stato spezzato. Deve
essere un sollievo. Può darsi che il cuore di Bill non sia più così tanto
appesantito, adesso.
“Certo
che lo penso davvero” è la risposta accorata di Tom che posa una mano sulla sua
spalla e l’accarezza piano. “Te l’ho sempre detto, Bill. Questa relazione era
tossica per te: Alex è sempre riuscito a farti sentire peggio, una persona
orribile, ti ha fatto pesare di avere una carriera, di essere bello, brillante
ed intelligente, un artista completo. So che tu lo ami… ma credimi, è meglio
così.”
Tom
trova sempre un po’ strano quando lascia parlare il cuore. È vero che ha sempre
avuto una certa difficoltà nel far uscire la sua parte più sentimentale e
dolce, ma con Bill… beh, Bill è tutto ciò che gli rimane, tutto ciò che deve e vuole proteggere.
Le
dita di Bill scivolano sulla sua mano e cercano rassicurazione. Sta così male
che non riesce nemmeno a parlare e sta cercando di trattenere le lacrime.
Deglutisce a vuoto e prende piccoli respiri, cerca di cacciarle indietro, però
è difficile.
Allora
Tom lo attira più a sé e lo avvolge in un abbraccio caldo, un abbraccio che sa
di casa. Posa il palmo della mano sulla sua nuca e l’altro sulla schiena. Bill
gli si rannicchia contro e si sente come se avesse cinque anni. Nasconde il
viso nell’incavo della sua spalla e -adesso, al sicuro tra le braccia
dell’unica persona al mondo che può tranquillizzarlo- lascia andare un
singhiozzo.
Lo
sente appena, è un sussurro soffocato dalla stoffa della sua felpa. Ma Tom un
po’ lo ode, un po’ lo percepisce.
“Io
lo amo…”
Allora
serra gli occhi, triste e preoccupato, e cerca di stringere Bill più forte a
sé.
***
Il
parco è quasi deserto, a quell’ora. Capper tira il
guinzaglio facendo tendere il braccio a Tom che allunga un po’ il passo; si
volta per guardare dove è Bill e scuote la testa quando lo vede fermo una
decina di metri prima di lui. È chino su Pumba e
cerca di togliergli dalla bocca un pezzo di plastica che, quell’ingordo, vuole
mangiarsi.
Sente
l’eco dei suoi rimproveri in un tedesco troppo morbido, nonostante il dito
indice -tatuato- dritto in avanti, per far segno al cane che no, non deve
farlo.
“Bill,
se continuerai con questo tono, Pumba non lo capirà
mai” ride posando una mano sul fianco e trovando quella scenetta piuttosto
divertente. Capper gli si siede accanto e, insieme al
padrone, osserva quel Pumba aprire -finalmente- la
bocca e lasciare andare la plastica. La mano di Tom accarezza la testa del suo
segugio e sorride.
“Riuscirà
mai ad insegnargli qualcosa?” ridacchia grattando dietro alle orecchie di Capper che in risposta alza il muso per leccargli la mano.
Tom
si siede sulla panchina accanto mentre aspetta che Bill e l’ultimo arrivato li
raggiungano: farebbero presto, se non fosse che Pumba
continua a raccogliere qualsiasi cosa incontri nel suo cammino.
Bill
è rinato. Tom ne è consapevole. È servito quasi un anno di lavoro su se stesso per farlo tornare ad essere -quasi- quello di
prima. Sono stati dei lunghi mesi, e nemmeno a Tom è andata molto bene: ha
chiuso la relazione che portava avanti da così tanto tempo che aveva perso il
conto.
Lui
e Bill si sono chiusi in un mondo fatto solamente di loro due e qualche amico
stretto, come Georg e Gustav, poi Andreas. Ma in America ci sono solo loro e
basta, e ancora una volta è stato il binomio Tom-Bill a vincere.
Il
percorso è stato lungo e complesso ma adesso pare esserne valsa la pena: Bill è
spensierato e sereno e sta ritrovando il proprio equilibrio. Sono tornati a
fare musica, hanno ricominciato a scrivere testi insieme e hanno messo la
parola fine al periodo di pausa. Sono tornati.
I
primi tempi sono stati difficili: Bill continuava a ricadere nella trappola di
Alex, ci cascava ogni volta pregando che le sue promesse fossero vere. Promesse
vane, di tornare insieme, di non tradirlo più, di essere un uomo diverso e
migliore: tutte false. Finivano a letto, accadeva per qualche giorno, forse
settimana e poi Alex spariva, andava con altre, lo mortificava e non lo
rispettava. E Bill, con la coda tra le gambe, tornava da Tom: un’altra ferita
da rimarginare, un altro colpo basso alla propria dignità. Poi, finalmente, ha
detto basta.
Bill
arriva trafelato e si lascia cadere di fianco al gemello, sulla panchina
dipinta di verde mentre Pumba gira attorno a Capper fino a sdraiarsi sul letto di foglie secche,
spaparanzato sul terreno.
“Non
è possibile che questo cane si mangi tutto ciò che vede” sbuffa Bill
accavallando elegantemente le gambe e poi appoggiando i gomiti al bordo dello
schienale.
“Si
mangerà sempre tutto ciò che vede se tu non impari a sgridarlo come si deve”
borbotta Tom in risposta guadagnandosi un altro sbuffo da parte del fratello.
Bill fa dondolare il piede con disappunto, alla ricerca di un modo per essere
più deciso col suo cane senza ferire i suoi sentimenti. Prima o poi riuscirà a
far diventare Pumba un cane modello. Forse.
Il
sole sta tramontando e il cielo si sta tingendo di rosso ed arancione, Tom
infila le mani in tasca e sospira. Anche se gli piacciono i tramonti a Los
Angeles -sanno sempre di estate e di vacanza-, non potrà mai preferirli a
quelli di Berlino.
Bill
prende una sigaretta dalla giacca e se l’accende con movimenti fluidi ed
esperti. Fa un lungo tiro e piega un po’ il capo all’indietro. Il mondo si
capovolge e lui si sente proprio così: al contrario. Le sue prospettive si sono
ribaltate più e più volte, ultimamente. Non può negare di sentirsi molto meglio,
adesso, sebbene a volte la malinconia gli scavi dentro e lo faccia pentire di
tutte le decisioni che ha preso negli ultimi mesi.
È
stata dura, uscirne. Si è ritrovato in un vortice di depressione e ogni volta
che cercava di risalire in superficie, veniva nuovamente ingoiato dall’ombra.
Né lui né Tom hanno passato dei gran momenti ma, nonostante tutto, sono rimasti
sempre uniti. D'altronde è ciò che gli riesce meglio.
L’Iphone
di Bill vibra nella tasca e lui, prima di recuperarlo, prende un altro tiro
dalla sigaretta, poi la passa a Tom che, nello stesso identico modo, la porta
alle labbra aspirando la nicotina: piega il capo lentamente all’indietro mentre
unisce le labbra per fare fuoriuscire una colonnina di fumo che segue con lo
sguardo, mentre sparisce nella brezza leggera.
“C’è
una festa, stasera. Devon chiede se andiamo” dice
Bill leggendo l’invito sulla chat. Poi si volta un po’ verso Tom e lo guarda,
in attesa di una risposta.
Tom
non è molto in vena da feste. In realtà non lo è mai stato particolarmente,
nemmeno quando poteva scoparsi qualsiasi donna gli passasse accanto: ora non ne
ha più voglia. La rottura della sua relazione lo ha portato a voler passare più
tempo possibile solo con Bill ed i suoi cani. Non desidera bagni di folla o
avere troppa gente attorno. Gli piace la calma, la tranquillità, il silenzio.
Però, è anche vero che potrebbe accettare l’invito e vederlo come un’occasione
per divertirsi con suo fratello. E poi, Bill senza di lui non andrebbe e Tom sa
quanto abbia bisogno di svagarsi.
Tom
scrolla le spalle dando un’occhiata ai cani che si sono accoccolati insieme:
strano, solitamente Capper non sopporta Pumba, è troppo irruento.
Tom
sa che dovrà guidare lui fino alla festa e sa anche che Bill metterà becco
-ovviamente- sul suo abbigliamento. Beh, un’altra cosa che sa -e di cui è ormai
certo- è che cercherà qualcosa da indossare nell’armadio di Bill. Magari una di
quelle camicie di cui va tanto orgoglioso.
“Va
bene, andiamo” concede allora, un’aria divertita sul viso.
E
il sorriso che gli regala Bill, gli spalanca le porte del mondo.
Tom
spegne il motore dell’auto e si slaccia la cintura di sicurezza, poi sospira:
hanno trovato un po’ di traffico per arrivare alla festa e lui lo detesta. La
serata è già partita male e non si sente per niente di buon umore.
Scende
dalla macchina e aspetta che anche Bill chiuda la portiera, poi si specchia nel
finestrino: ha raccolto i capelli all’indietro, in una piccola coda e ha -come
già preventivato- indossato una camicia di Bill. È di un rosa particolare e dal
taglio elegante; ha lasciato i primi tre bottoni aperti su una canottiera nera
come i pantaloni che ha scelto. Sebbene Bill sia più eccentrico nella scelta
degli outfit, ultimamente Tom ha quasi assorbito il suo modo di vestirsi.
Adesso
sono praticamente identici: Bill ha fatto allungare un po’ la barba, ne ha un
accenno sul mento e sulle guance e tenendo i capelli -di un biondo cenere-
tirati all’indietro sui loro visi è possibile notare di più la somiglianza.
C’è
stato un periodo, qui a Los Angeles, in cui venivano scambiati per una coppia.
Ridono ancora quando si ricordano di una signora, che lavorava in una
caffetteria dove loro erano soliti recarsi, che un giorno gli aveva domandato
da quanto stessero insieme. Allora Bill aveva riso e le aveva risposto -nel suo
inglese ancora poco fluido- che stavano insieme da una vita, dato che erano
gemelli.
Bill
aspetta impaziente che Tom finisca di controllare la sua auto -che sia
parcheggiata bene, che sia chiusa, che quella macchietta sul finestrino vada
via…- e mete una mano sul fianco, piega un po’ il capo da un lato e sospira.
Allora, nell’attesa, decide di accendersi una sigaretta.
Tom
si tira all’indietro un ciuffo che è sfuggito all’elastico, poi infila le mani
in tasca e raggiunge suo fratello. Insieme camminano fino al vialetto della
villa. La musica sale ad ogni passo, Bill può sentire le vibrazioni e una
strana voglia di ballare tutta la notte. Forse non si concede divertimento da
un po’ troppo tempo…
Sull’uscio
della porta d’ingresso, Tom è titubante e non si decide a salire quei quattro
scalini per raggiungere Bill, già pronto con la mano tatuata sulla maniglia. Ha
qualcosa che gli si attorciglia nello stomaco ed improvvisamente non vuole più
prendere parte alla festa: la bocca è secca e il cuore batte più forte, si
sente stranito e non riesce a muoversi. È una sensazione fastidiosa e gli fa
venire la nausea. Bill si volta verso di lui e lo guarda con un’espressione
piena di interrogativi.
“Tom?”
“Non…
non so se sia una buona idea” confessa indicando la villetta con un cenno del
mento.
Ne
è certo. Anzi, dentro di sé sa che è proprio un’idea del cazzo ma non sa
spiegarsene il motivo. L’espressione di Bill cambia, Tom sa che ha percepito
più chiaramente la sua agitazione, anche se cerca di non darlo a vedere.
“Stai
male?”
A
quel punto Tom scuote la testa ed accenna un sorriso: trova assurdo far agitare
Bill per qualcosa che non sa spiegarsi.
“No,
tranquillo” sale gli scalini e gli posa la mano sulla schiena “entriamo.”
Bill
si lascia convincere docilmente, si ritrova nell’ingresso dell’elegante villa e
le luci sono leggermente soffuse: la festa si sta svolgendo nel giardino con
piscina. Attraversano il corridoio verso la porta finestra spalancata. La
musica si fa più forte e adesso Bill può scorgere il dj alla sua postazione,
sta passando una canzone che gli piace molto e l’inquietudine di poco prima se
ne è andata: ora vuole solamente godersi la festa.
Tom
cammina dietro di lui mentre si guarda attorno con aria disinteressata, le mani
di nuovo infilate nelle tasche. Il loro amico Devon
alza il braccio tra gli invitati rivelando la sua posizione: ci sono persone
che entrambi i gemelli hanno già incontrato, a volte ci sono anche usciti, ma
non si sono trovati a loro agio.
“Ehi,
ce l’avete fatta” fa Devon dando un breve abbraccio
prima a Bill e poi a Tom, che sorride e spiega che c’era traffico sull’highway e gli è
stato impossibile arrivare prima. Poi prende due calici di champagne dal
vassoio dell’addetto al catering e automaticamente ne passa uno a Bill che si è
già inserito nella conversazione in maniera perfetta.
Si
discute degli ultimi eventi mondani, di quelli che verranno e di un brunch che avrà luogo la settimana
prossima.
A
Bill, per accettare o declinare gli inviti, basta dare un’occhiata a Tom e sa
già cosa dire: la loro intesa è impossibile da spiegare a parole o da spiegare
a chi non può testarla personalmente. Ci hanno provato più volte ma nessuno
l’ha mai capita, forse solo Georg e Gustav siccome sono a stretto contatto con
loro da una vita. Per gli altri, comunque, rimane un mistero e anche qualcosa
che tende ad escluderli dal loro mondo.
Bill
lo sa che a volte lui e Tom risultano antipatici alle persone che li incontrano
per la prima volta, così, di primo impatto. In realtà, soprattutto in America,
hanno dovuto chiudersi nel loro guscio e cercare di proteggersi uno con
l’altro, soprattutto dopo i brutti incontri e le persone che si sono solamente
approfittate di loro.
“Dai,
non fate gli associali, la festa al Luxor sarà fantastica, amico” cerca di
convincerli uno dei ragazzi. Tom ha l’espressione di uno che cerca di ricordare
dove e quando abbia dato il permesso a quel tizio di chiamarlo “amico”.
“Siete
spariti, non vi si vede più in giro! Amico, se non siamo abbastanza per due
star del vostro calibro…” sta continuando.
Tom
si è già voltato per rispondergli a tono di non osare prendersi tanta
confidenza né con lui né con suo fratello, ma Bill viene spinto da due tizie
che stanno ballando. E la flûte di champagne gli si rovescia sul braccio e
sulla mano.
“Merda!”
esclama Bill nella propria lingua. Fa un passo all’indietro e cerca di
tamponare la macchia sulla manica della camicia con la mano pulita. Le due
tizie sono scomparse, forse già troppo ubriache.
Tom
si sorprende dell’autocontrollo di suo fratello. Sa che, una volta, avrebbe
ucciso qualcuno per una simile macchia. Invece adesso alza lo sguardo e poi gli
occhi al cielo.
“Vado
al bagno, sono tutto appiccicoso” borbotta con tono un po’ scocciato, poi si
allontana da Tom e dagli altri, dirigendosi verso l’interno della casa con
passo sicuro.
Tom
ammira il modo in cui Bill riesce a mostrarsi a proprio agio anche quando non
lo è: sta camminando tra gli invitati con quel modo elegante che fa sempre
voltare tutti. Le vede, alcune persone, che si voltano a guardarlo mentre
passa. A volte vorrebbe essere come lui, capace di omologarsi al resto della
gente che ha attorno nel giro di un attimo. Anche se con la camicia macchiata e
la mano appiccicosa di scadente champagne.
Bill
gira qualche minuto prima di trovare il bagno della villetta, si avvia lungo il
corridoio e si ferma dietro ad una ragazza che sta parlando al telefono: lui si
appoggia con la schiena al muro ed incrocia le braccia al petto, aspettando in
coda. Pensa che Tom nel frattempo potrebbe stare cercando di trattenersi da
mandare al diavolo quel Mike, Mick o come si chiama. A lui non interessa che
certa gente non li prenda sul serio anche se una volta ci avrebbe sicuramente
sofferto. Adesso la situazione è diversa ed e lui stesso si è convinto a non
interessarsi del giudizio degli altri: in Germania, quando erano all’apice del
successo, si rodeva il fegato dietro alle cattiverie che alcune persone
facevano circolare. Ci si era ammalato dietro e la situazione aveva preoccupato
Tom e chi altro gli stava accanto. Finalmente aveva imparato che doveva
lasciare andare, sbattersene di ciò che pensavano gli altri, nonostante a volte
fosse davvero complicato. Nella parentesi “Alex”, poi, era stato infinitamente difficile.
Con
le mani pulite e la macchia sulla camicia umida d’acqua, si passa le dita tra i
capelli e si da un’ultima sistemata prima di uscire
dal bagno ed attraversare nuovamente la cucina per raggiungere il giardino.
“Ciao.”
Bill
sente chiaramente la pelle d’oca formarsi sulle braccia, sotto la stoffa, fino
alla base del collo.
Conosce
quella voce, anche se è da tanto, troppo,
che non la sente. Si volta lentamente, non sa definire se ha paura che sia un
sogno o un incubo. Si prende il beneficio del dubbio e si ritrova con la bocca
assurdamente secca, le gambe troppo molli per reggerlo in piedi ed il cuore che
batte così forte in petto che ha paura possa scoppiargli da un momento
all’altro.
Alex
è lì davanti a lui, ha sulle labbra quel sorriso da schiaffi che Bill non sa se
amare o detestare. È completamente diviso in due, non sa cosa fare ed inserisce
il pilota automatico.
“Ehi”
risponde imponendosi la calma. Per mesi ha immaginato questo incontro: il suo
sorriso gentile, la sua bellezza californiana, cosa dirgli, cosa fare, come
muoversi. Adesso, invece, è completamente gelato. Non riesce a muoversi. È già
tanto che abbia ricambiato il saluto.
“Ti
vedo bene” continua Alex e nemmeno questa volta Bill sa cosa fare: ringraziarlo
per aver portato avanti la conversazione o odiare la naturalezza con cui l’ha
fatto?
Da
una parte vorrebbe dirgli che è uno stronzo e che sì, ci crede che lo vede
bene, perché adesso è una persona nuova e sta bene con se
stesso. Non si sente più inadeguato, sbagliato, sottomesso come lo faceva
sentire lui. Lo buttava sempre giù, vanificava ogni suo sforzo, lo comandava a
bacchetta e se Bill ci ripensa gli viene il vomito. Poi ripensa al loro amore e
nello stomaco prendono il volo mille farfalle.
Calmarsi.
Deve assolutamente calmarsi.
“Grazie”
risponde alzando meglio gli occhi verso i suoi; vuole che Alex lo guardi. Vuole
che lo guardi negli occhi e veda che Bill c’è ancora, che è tornato ad essere se stesso, che si è rialzato anche sotto il peso della fine della
loro relazione. Che anche quando pensava che nulla valesse più la pena d’essere
vissuto, è riuscito a rialzarsi.
Vorrebbe
scappare da lui. Ma anche rimanere. È curioso, vuole sapere cosa gli direbbe e
nello stesso momento non gliene frega niente. Ma sì, sì che gli frega, come
potrebbe essere altrimenti…
“Mi
sei mancato” butta lì con una tale sicurezza -e una faccia da schiaffi- che
Bill rimane interdetto. Cosa dovrebbe rispondergli, poi? Dargli la
soddisfazione di sentirsi dire che è
ovvio che anche lui gli sia mancato? Vorrebbe anche rinfacciargli tutte le
lacrime che ha pianto per lui, le notti insonni e tutti i ricordi che gli hanno
martellato la testa fino a fargli rivivere l’intera loro storia.
Decide
di rispondere con un mezzo sorriso: si odia perché non trova le parole. Ma Alex
non demorde, anzi ne approfitta per continuare il suo monologo.
“Ascolta
Bill...”
Sentire
il proprio nome pronunciato dalle sue labbra è qualcosa che non riesce a
descrivere così su due piedi: un dolore sordo lo colpisce alla bocca dello
stomaco e gli manca un po’ il fiato.
“Io
ci ho un po’ pensato, sai, adesso sto meglio, sono più tranquillo” ricomincia e
Bill nasconde la mano in tasca perché le dita hanno cominciato a tremargli e
non vuole che Alex lo noti. Gli darebbe altro potere su di lui e potrebbe
finire per manipolarlo.
Non
riesce a spiegarsi se Alex stia tentando, in qualche strano modo, un approccio.
Non può equilibrare le sue sensazioni e non è lucido.
“Cosa
significa?” butta fuori con una difficoltà tale da chiedersi se quella voce
roca sia proprio la sua o se magari stia parlando qualcun altro al posto suo.
Gli manca il fiato.
Alex
scrolla le spalle. Bill glielo ha visto fare così tante volte che si sente un
po’ catapultato indietro nel tempo. E non è un bene. Vorrebbe evitare di fare
qualche cazzata ma è praticamente impossibile pensare, in quel momento.
“Significa
che magari, io e te potremmo vederci qualche volta. Siamo stati bene insieme,
no?” 2
Bill
vorrebbe vomitargli addosso un mare di insulti, urlargli quanto sia stato male
in quei mesi ma non riesce a dar voce ai propri pensieri. Inoltre, non è
nemmeno troppo sicuro che vorrebbe rifiutare. È una proposta allettante, si
rivede accoccolato contro il suo petto dopo aver fatto l’amore, abbracciati, o
mentre si baciano dolcemente sul divano.
Bill
perde il respiro quando Alex passa un braccio attorno ai suoi fianchi e lo
attira a sé, avvicinandolo di più. Gli occhi di Alex sono… sono, beh, wow. E Bill è sicuro che non riuscirà a
resistere. Quando il palmo della sua mano gli si posa sulla schiena, Bill
sussulta. Gli si rizzano i peli sulle braccia e le gambe diventano gelatina.
Poi il tocco di Alex diventa una carezza più decisa: le dita scivolano dalle
spalle fino alla curva del sedere, su e giù con una lentezza estenuante e Bill
non ha ancora trovato cosa dire. Non pensa che gli sia possibile aprir bocca,
in realtà, se non per lasciare andare quel sospiro leggero che gli si sta
formando in gola.
Alex
gli si fa più vicino col viso e Bill pensa che se volesse baciarlo, ci starebbe
eccome. Non si muoverebbe, non fiaterebbe. Probabilmente gli butterebbe le
braccia al collo per la felicità. Schiude le labbra, le sente secche e il gusto
dello champagne è quasi scomparso del tutto.
“Perché
non facciamo un giro? Ho la macchina qui vicino. E poi… beh, potremmo rimanere
insieme, questa notte. Mi piacerebbe molto.”
Bill
sente la sua presa rafforzarsi e la sua bocca si fa più vicino. Ma la sua testa
lavora velocemente, sta tentando di mettere in ordine tutte le informazioni che
ha registrato.
Il
suo corpo si irrigidisce prima che lui comprenda fino in fondo le intenzioni di
Alex: vuole portarselo a letto ancora una volta, vuole scoparselo e poi
abbandonarlo il giorno dopo, sparire e non farsi più sentire, se non per
un’altra scopata. Bill raddrizza la schiena e fa un passo indietro, togliendosi
la sua manaccia dalla schiena.
“Lo
sai,” si fa coraggio Bill, la voce gli trema un po’ ma è abbastanza alta e
chiara per farsi comprendere bene “avevano ragione su di te: sei solo uno stronzo,
un manipolatore e in tutto questo tempo non hai fatto altro che mortificarmi,
insultarmi e farmi sentire uno schifo. Non te l’ho mai detto, ma non sei mai
piaciuto a nessuno. Mi hanno sempre messo tutti in guardia da te, avrei dovuto
ascoltarli fin dall’inizio.”
Bill
tiene l’indice puntato verso Alex e non gli importa che non riesca più a
respirare o che la mano gli tremi, perché finalmente è riuscito a dirgli ciò
che pensa di lui, ciò che una minuscola parte di sé ha sempre saputo ma che non
è mai riuscito ad ammetterlo, se non dopo tempo.
Lo
sa che lo ha colto impreparato perché Bill ha sempre accettato -più o meno- di
buon grado tutte le modifiche che Alex imponeva al suo bel caratterino: Bill si è ritrovato a smussarsi gli angoli da
solo, a cercare di rientrare anche in quelle situazioni in cui, altrimenti, ci
sarebbe stato stretto. Allora si è fatto piccolo piccolo
ed ha ingoiato l’orgoglio. Ancora e ancora, fino ad annullarsi.
Un
po’ lo soddisfa vedere che subito Alex non sa come rispondergli. Immediatamente
dopo pensa di aver esagerato, che forse lo ha ferito. Se ne dispiace.
“Non
sono mai piaciuto a nessuno, però a te piaceva, eh, quando ti scopavo il culo!”
ringhia a quel punto, colpito in pieno nell’orgoglio. Per un attimo, Bill pensa
che solo un uomo piccolo potrebbe ribaltare la situazione e lasciare che
l’insulto cada sulla sfera intima del sesso.
Serra
le labbra, raddrizza meglio la schiena e con un sorriso amaro scuote la testa.
Se pensa a quante forze ha impiegato per amarlo, per lasciarsi andare con lui,
per essere se stesso fino in fondo. Se pensa a quante
volte si è lasciato dominare, manipolare, sminuire, comandare…
Alex
sta continuando ad infierire, a vomitare un fiume di parole ed insulti ma Bill
non lo ascolta più. Ha smesso. Ha smesso di farsi condizionare la vita da una
persona che non merita di avere voce in capitolo. Finalmente lo ha capito.
Alex
cerca di prenderlo per un polso per scrollarlo, per dirgli che “quando parlo mi
devi ascoltare”, ma in fondo alla cucina spunta Tom: ha l’aria incazzata, la
mascella gli si è contratta e sul collo la vena si è ingrossata. Serra le
labbra e Bill incontra il suo sguardo. Si sente immediatamente più calmo e con
un gesto stizzito si scrolla via la presa di Alex. Gli da
la schiena e cammina con passo sicuro fino a Tom che gli sta tendendo la mano.
L’afferra, gli sorride e lo trascina via con sé, verso gli invitati che danzano
a bordo piscina.
Un
attimo dopo, Alex è lontano e i gemelli sono più sereni. Tom non potrebbe non
esserlo. E Bill è quasi euforico.
“Brindiamo”
dice a Tom prendendo altri due calici di champagne e porgendogliene uno.
Tom
sorride, sente proprio un peso dallo stomaco che gli si scioglie e può tornare
a respirare decentemente. Dopo anni.
“A
cosa?” domanda piegandosi appena in avanti, per farsi sentire meglio anche
sopra la musica.
Bill
si prende un attimo prima di rispondere: percepisce il tormento di tutti quei
mesi svanire, come un vortice si leva alto nel cielo insieme alle note che gli
rimbombano nelle orecchie. Si sente più leggero. La testa galleggia, il cuore
non gli scoppia più in petto.
L’ha
mandato via, quello spettro, lo ha sconfitto.
Allora
appoggia una mano sulla spalla di Tom, fa un sorriso enorme.
“All’inizio
di una nuova vita.”
***
La
folla alza le braccia, tende le mani verso il palco del piccolo teatro
muovendosi a ritmo di musica. Bill è in piedi, davanti al suo microfono. Tiene
l’asta con una mano, un po’ ci si aggrappa.
Sono
di nuovo in tour e Bill ama la vita on the road. Nonostante la stanchezza
che si accumula, nonostante i chilometri che macinano… Bill non può farne a
meno: è come essere sempre in vacanza ma nel frattempo sentirsi a casa. Inoltre
può scoprire posti nuovi, fare tutte le foto che vuole e portare i cani a
spasso con Tom.
Si
trovano in Italia e proprio ieri hanno fatto una passeggiata lungo le sponde di
un fiume che attraversa la città. Bill fatica a ricordare il nome esatto del
posto in cui si trovano, riesce sempre a dimenticarsi tutto, eccetto il buon
cibo di cui fa incetta. Proprio poco fa hanno mangiato degli spaghetti ottimi,
dietro le quinte. Beh, in realtà Tom li ha condivisi col buon vecchio Capper.
Adesso
Bill introduce brevemente la canzone che sta per iniziare come una delle prime
che lui e Tom hanno composto a Los Angeles. E come una delle più significative.
Sente
la base prendere vita dalle mani di Tom e dei suoi fratelli acquisiti: è stato
un periodo di transizione per tutti, sono diventati grandi, sono cambiati ma in
fondo sono rimasti sempre gli stessi.
Bill
si lascia accompagnare dalla musica, chiude gli occhi ed inizia ad intonare le
prime note. Cantare è ciò che gli è sempre riuscito meglio, nella vita. Un po’
al pari di cacciarsi nei guai, in realtà.
“We’re hanging somewhere downtown, you say “hi…”. You say you miss me and you make sure that I’m alright. You say you
figured it out. You say you’re better now. You pet my back and say you’d like
to spend the night…”
Alcuni
ricordi gli invadono prepotentemente la testa: li rivede tutti, i bei momenti
ed anche quelli brutti. Ma ora hanno un altro sapore, non sono più impregnati
di malinconia e tristezza, a tratti di depressione. No, sono lì e basta e
servono a Bill -e a Tom di conseguenza- per tenere a mente tutto ciò che hanno
attraversato per arrivare dove sono oggi. A chi sono oggi.
Allora
Bill prende un grosso respiro, raddrizza il capo e guarda dritto davanti a sé.
“But I’m better, better, better, better, I’m
better off to my own…”
Guarda
un punto indefinito, si perde tra le luci colorate, finisce in fondo al teatro,
nel buio, lì dove ha relegato la figura di Alex: ogni volta che suonano questa
canzone, Bill esorcizza Alex e tutto ciò che c’è stato. È come se lo vedesse
davanti a sé e volesse dedicargli ogni parola di questa fottuta canzone.
Si
lascia andare ad un tono più intenso, la voce gli vibra un po’. Sente qualcosa
allo stomaco, fa un po’ male ma gli da anche una
certa soddisfazione. È tutto una sensazione più amplificata dalla condivisione
dei sentimenti con Tom. Bill si sente ancora più sereno se anche Tom lo è. E
viceversa.
“I know we can’t work it out, you’re always pulling me down…”
Bill
allarga le braccia, raddrizza la schiena, si erge in tutta la sua altezza.
Sulle sue labbra si disegna un sorriso amaro ma denso di consapevolezza: Alex
non lo ha meritato, adesso lo sa, adesso è guarito. E si sente
orgoglioso di se stesso.
“You
never knew but no-one liked you anyway!”
È
il suo momento di prendersi una magra vendetta: alza le braccia e mostra il
dito medio ad un assente Alex: come vorrebbe che ci fosse e si godesse lo show
facendosi rodere il fegato. Vorrebbe che lo vedesse felice, sereno,
completamente rinato. Vorrebbe che lo vedesse immerso nell’arte che lui non ha
mai capito, non ha mai condiviso ma anzi, ha sempre deriso.
Bill
muove il capo a ritmo della musica, sente la folla applaudire più forte e si
volta verso la loro astronave dove suo fratello sta suonando con Georg. Anche
Tom ha gli occhi socchiusi, il capo rivolto leggermente verso l’alto. È stato
un brutto periodo, per entrambi. Ma sono andati oltre.
Come
se sentisse il suo sguardo addosso, Tom apre gli occhi e gli regala una lunga
occhiata densa di significato, sembra dirgli che è in pace col mondo, adesso.
Si
sorridono con affetto e Bill sente i loro sorrisi espandersi e fare rumore nel
mare di musica che li circonda, nelle note che sfumano in applausi.
“I’m better off alone.”
*
1)
At the time I was with a person that I shouldn’t
have been with. […] So, you know, when people are not good for you… […] And I
personally tend to get in trouble, sometimes, with, you know, the wrong people.
And I tend to choose the wrong people in my life sometimes. And then I keep
them in there. And I knew, but I knew it was wrong but…”
Bill Kaulitz (QUI)
“…about people that break their promises. And then
they make you trust again and you do it every time […]. Tom and I moved to L.A
and […] we experienced a lot with people […]. I had to learn my lesson and I
still do it. And you know, sometimes people walk in and out of your life […].
And then they promise that they will never let you down but it happens again.”
Bill
Kaulitz (QUI)
2)
Le
parole di Alex potrebbero non suonarvi nuove, difatti si tratta di una libera
ispirazione ai seguenti versi di Better: “ You say “hi…”. You say you miss me and you make sure that
I’m alright. You say you figured it out. You say you’re better now. You pet my back
and say you’d like to spend the night…” (Dici
“ciao”, dici che ti manco e ti assicuri che io stia bene. Dici che l’hai
capito, che adesso stai meglio. Mi accarezzi la schiena e mi dici che ti
piacerebbe passare la notte insieme)
3)
“Better”: Ci stiamo facendo un giro in centro,
tu dici “ciao”. Dici che ti manco e ti assicuri che io stia bene. Dici che
l’hai capito, che adesso stai meglio. Mi accarezzi la schiena e mi dici che ti
piacerebbe passare la notte insieme. […]
Ma io sto meglio, meglio, meglio, meglio da solo. […]
Lo so che non possiamo funzionare, mi butti sempre giù. […]
Non lo hai mai saputo, ma, comunque, non sei mai piaciuto a
nessuno. […]
Sto meglio da solo. […]
Da
tempo volevo scrivere della rottura tra Bill ed Alex: non sapremo mai come sia
davvero andata, se davvero si tratti di Alex
Cluster, anche se in realtà tutti gli indizi portano a lui, compresi alcuni
versi delle canzoni, sia dell’EP di BILLY che dei CD dei Tokio.
Sono
stata al concerto di Torino con la mia sis from another Miss che ha saputo sopportare me e le mie
ansie. E che ringrazio in ogni modo. Comunque, Bill ha davvero fatto il dito
medio quando ha cantato “You never knew
but no-one liked you anyway” ed è stato
liberatorio per lui, per noi e per tutte le sottone
del mondo! È stato molto bello, comunque, aldilà dei segnacci di Bill.
Ho messo il cuore in questa oneshot e spero davvero, davvero che possa piacervi. Insomma, fatemi sapere con una
recensione (negativa o positiva che sia) cosa ne pensate, se avete immaginato
la relazione in un altro modo o che sia finita per altri motivi.
Vorrei
dire tante cose, compreso da quanto tempo lavoro a quest’idea, da come ho
sentito vicino questa (ipotetica) situazione, a come amo, ma davvero amo il rapporto tra i gemelli. Sono
essenziali uno all’altro, indispensabili, fondamentali. Sono complementari.
Sono la stessa persona.
Ma
lascio che a parlare sia questa oneshot,
A
presto,
Vostra
M.