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Autore: gattina04    28/11/2017    2 recensioni
Kathleen non è una ragazza come tante: sottoposta alla pressione di una famiglia che le chiede sempre troppo, ha un passato che non riesce a lasciare andare. Lei sa cosa vuole, sa qual è il suo sogno, ma ci ha rinunciato già da tempo per l'unica persona a cui sente di essere ancora legata.
Trevor invece è schietto, deciso, con un passato fin troppo burrascoso, che vorrebbe solo dimenticare. Trevor vuole voltare pagina e per questo si ritrova in un mondo, in una scuola, dove è completamente fuori posto.
Come potrà una ragazza legata al passato trovare un punto di contatto con un ragazzo invece che farebbe di tutto pur di recidere quel legame?
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La mia storia è pubblicata anche su WATTPAD
Genere: Fluff, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon, Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Scolastico
Capitoli:
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Capitolo 1
 
15 Novembre:
Certi giorni – ed oggi è uno di questi – penso di non essere come tutti gli altri. Non nel senso che sono pazza… in fondo tutti siamo un po’ pazzi, ognuno a modo proprio. E poi tu mi hai sempre detto che ho qualche rotella fuori posto, quindi ormai lo so. Quello che intendo dire è che il mio cervello non funziona come quello di tutti i membri della nostra famiglia. Ma forse tu hai sempre saputo anche questo.
Credimi ormai l’ho capito: non è sempre facile comprendermi, sono un groviglio insensato di idee, insicurezze ed emozioni; certe volte la mia mente parte per la tangente e comincia a creare film mentali così intricati che io stessa fatico a ricordare da dove siano iniziati. So di non essere una persona comune o forse di esserlo anche troppo, ma io sono fatta così… non potrò mai cambiare. Tu mi hai sempre detto che niente e nessuno può cambiare ciò che sono, ma come mai ho la netta impressione che ogni persona che mi circonda cerca di fare esattamente il contrario? Perché non posso andare bene così? Certe volte vorrei poter spengere il cervello per riuscire a fare esattamente ciò che mi chiedono…
Se vedi la mia scrittura vacillare, diventando sempre più incomprensibile, è perché sto ridendo da sola come una scema mentre ti scrivo queste parole; e lo sai per quale motivo sto ridendo? Perché ti vedo qui di fronte a me, con quell’espressione buffa sul viso. Sai quell’espressione che fai quando stai per dire qualcosa di solenne?
«È il peso da sopportare quando si è dei geni», diresti. Ne sono certa. Beh però su una cosa ti sbagli: io non sono un genio, sono solo una persona che si impegna tanto. E nonostante ciò sembra che il mio impegno non sia mai abbastanza…
 
«Linny, scendi la cena è pronta». La voce di mia madre interruppe il flusso dei miei pensieri. Quello era proprio un bel modo di terminare una frase: passare dal fruscio della penna sul foglio al monito di rimprovero nella voce di mia madre.
Sospirai e smisi di scrivere, non avrei potuto continuare oltre per il momento. Prima di chiudere il mio vecchio diario con un colpo secco, guardai un’ultima volta la mia grafia rotondeggiante fermarsi a metà di una delle tante pagine. Forse l’idea di tenere un diario, un diario per lui, era stupida; avevo quasi diciotto anni e avrei dovuto capire che quello che stavo facendo era solo un’inutile perdita di tempo. Ma l’idea di poter mettere tutto nero su bianco era in un certo senso confortante; era come se in qualche modo avessi potuto catturare tutto ciò che mi passava per la testa, tutto ciò che avrei voluto dirgli.
«So che mi hai sentita. Tua sorella è già qua, non farmelo ripetere due volte». La voce di mia madre tornò di nuovo a ricordarmi che stavo traccheggiando inutilmente.
Sbuffai e mi affrettai a nascondere il diario in un cassetto della scrivania. Non che avessi paura che qualcuno potesse leggerlo; per poterlo leggerlo avrebbero dovuto avere prima qualche interesse particolare nei miei confronti e su quello non c’era mai stato nessun problema.
Uscii dalla mia camera e scesi le scale proprio quando mia madre stava per urlare per la terza volta. «Kathleen Hannah Jefferson…».
«Sono qui», la interruppi prima che potesse finire la frase. «Sono qui, non c’è bisogno di urlare».
«Beh a quanto pare sì. Tua sorella era già scesa cinque minuti fa». Di sicuro non erano passati cinque minuti da quando mi aveva chiamato, ma era ovvio che per nostra madre il tempo di Queen scorresse in maniera diversa dal mio.
«E ti pareva», borbottai a mezza voce.
«Cosa hai detto?».
«Niente», replicai sferrando il mio più bel sorriso. «Solo scusa».
«D’accordo, vai a lavarti le mani e poi siediti, non vorrai fare aspettare tuo padre?».
«Certo mamma, arrivo subito», sbuffai dando un’occhiata a tutti i presenti, già comodamente seduti al tavolo.
Ed ecco a voi la mia famiglia “perfetta”: i miei genitori, mio nonno, io e mia sorella Queen. Ma lasciate che ve li presenti uno per uno.
David Jefferson, capofamiglia, cinquantadue anni, importante giudice della corte cittadina. Non era un cattivo padre, uno di quelli che si “porta il lavoro a casa”, ma non era mai neanche stato un padre particolarmente affettuoso. Aveva alte aspettative e voleva che noi mantenessimo elevato lo standard che lui ci aveva imposto. In casa nostra non c’erano gratificazioni se alla fine dell’anno ottenevi una media di voti stratosferica o qualche rinomato premio scolastico; il massimo che riuscivo a strappare a mio padre era un semplice: «molto bene» o «hai fatto il tuo dovere».
Dall’altra parte invece si trovava mia madre: Caroline Bones, divenuta poi Caroline Jefferson. Beh lei era la classica donna da Country Club e forse proprio per questo non riuscivamo ad andare d’accordo. Non avevo mai capito cosa potesse aver visto mio padre in lei,  fatto sta che si erano sposati abbastanza giovani e che il loro matrimonio non era mai vacillato nonostante i momenti difficili. Non sapevo se avessero superato tutto grazie all’amore o solo per il fatto che credevano talmente tanto nell’istituzione del matrimonio da ritenere impossibile l’idea di scinderlo.
Comunque ritornando a mia madre, visto che mio padre guadagnava abbastanza, lei poteva  permettersi di stare a casa a curare la sua perfetta manicure e a sorseggiare Martini a bordo piscina con le sue amiche tutte fatte con lo stampino. Avevamo una domestica per esimerla anche dai compiti di casa, e l’unico incarico che le restava da svolgere era semplicemente quello di chiamarci a tavola quando la cena era pronta. Oltre al compito assai gradito di darmi il tormento.
«Linny sistemati quei capelli».
«Linny, tesoro, non camminare in quel modo».
«Linny se proprio sicura di voler uscire con quel vestito addosso?».
«Queen non si è mai comportata così, Linny, dovresti imparare da lei».
Non che fosse cattiva o che non mi volesse bene: semplicemente non eravamo caratteri compatibili. Non mi era mai importato nulla del Country Club, della moda, del gossip, né di curare il mio aspetto come una di quelle tante frivole ragazze e questo mia madre non lo poteva sopportare. All’inizio mi ero sforzata di assecondarla, ma era stata una lotta contro natura. Ricordavamo tutti  l’estate in cui avevo acconsentito ad indossare uno dei vestitini principeschi che mi aveva comprato; sembravo una bambola di porcellana. Peccato solo che correndo per il giardino fossi inciampata e fossi finita dritta in una pozzanghera di fango. Le sue urla, quando mi aveva vista, erano arrivate a dieci isolati di distanza.
E là dove io purtroppo arrancavo, per somma gioia di mia madre, c’era Queen, la figlia perfetta. Pacata, dolce, sensibile, una cascata di boccoli d’oro, due immensi prati verdi al posto degli occhi: insomma la figlia che ogni genitore vorrebbe avere. Intelligente, studiosa, una media di voti alta quanto la mia, capo cheerleader, idolo della scuola e probabilmente la prescelta per tenere il discorso durante la nostra cerimonia dei diplomi. Eh già, per uno strano scherzo del destino tra me e mia sorella ci correvano solamente undici mesi e purtroppo, essendo nata lei a gennaio ed io a dicembre, avevo avuto la sfortuna di competere con lei anno dopo anno. Per quanto mi sforzassi non potevo essere la migliore, c’era già lei: se avevo ottenuto il massimo dei voti in tutte le materie, Queen aveva avuto una media alta quanto la mia e per di più era entrata nella squadra delle cheerleader; era un’attività extracurriculare importante che le portava via molto tempo, io d’altronde dovevo solo studiare. Se avevo vinto il concorso di scrittura creativa, Queen era stata eletta reginetta del ballo e quello per mia madre era sicuramente molto più importante.
Forse dal mio resoconto potrebbe sembrare che tra me e Queen ci fosse un rapporto d’odio, ma non era così. Non eravamo particolarmente legate, quel genere di sorelle inseparabili, ma ci volevamo bene, ci spronavamo e ci proteggevamo a vicenda, anche se più spesso io coprivo lei soprattutto quando rientrava tardi dopo il coprifuoco. Comunque in qualche modo eravamo complici: lei capiva la pressione a cui ero sottoposta, a cui entrambe eravamo sottoposte, e forse il fatto che lo capisse riusciva a renderla ancora più perfetta. E la invidiavo un po’ per questo; le veniva tutto così facile, così naturale. Invece per me mantenere quello standard era una fatica immane. Certe volte avrei voluto comportarmi come una ragazza normale, invece era da un bel po’ che non riuscivo più ad essere me stessa.
E per ultimo, ma sicuramente non per importanza, c’era mio nonno: il Generale. Aveva combattuto nell’esercito per molti anni, anche quando mio padre era piccolo, aveva conquistato medaglie fino a quando non lo avevano mandato in pensione con onore e dignità. Viveva con noi da cinque anni, da quando mia nonna era morta. Ecco, la nonna era una delle poche persone a cui mi sentissi intimamente legata: le raccontavo di tutto e lei mi ascoltava e mi capiva. Quando si era ammalata, per me era stato uno shock terribile; mi ero rifiutata di lasciarla da sola, di andare a scuola, persino di mangiare pur di stare con lei.
Inutile dire che con mio nonno non c’era lo stesso calore. Immaginatevi un uomo dell’esercito, un Generale, dubito che fosse mai riuscito a dimostrare affetto anche a suo figlio; penso che l’unica eccezione fosse stata mia nonna.
Ed eccola là tutta la mia famiglia. Beh non proprio tutta in realtà: poi c’era Jamie, ma di lui era difficile parlare. Lui era tutta un’altra storia, era sempre stato tutta un’altra storia.
«Linny ti sei incantata?». La voce di mia madre e la gomitata di mia sorella bastarono a riportarmi alla realtà. Non mi ero accorta di essermi persa nei miei pensieri per quasi tutta la cena.
«Cosa?».
«Eri partita per un altro dei tuoi film mentali?». Queen sorrise. «Papà ti ha chiesto se hai già pensato a quali materie vorresti studiare all’università».
«Ormai siete all’ultimo anno», confermò. «Dovrete scegliere in quale college andare e che cosa vorrete fare per il resto della vostra vita». Detta così suonava alquanto melodrammatica.
«Io ho detto a papà», continuò mia sorella, «che stavo pensando a legge, anche se non pensavo di seguire le sue orme, pensavo più a qualcosa come diritto per l’infanzia…». Ecco come si fa a non amarla? «E tu? Ci hai già pensato?».
Oh ci avevo pensato eccome, ma non avrei reso note le mie scelte, non prima di essermi messa a distanza di sicurezza. «Non lo so, sto vagliando le mie possibilità». Una risposta sicura, adatta ad ogni occasione. Ero un asso nel dare quel genere di risposte evasive.
«Un mio ex compagno di università, è diventato professore alla Princeton, potrebbe mettere una buona parola per entrambe».
“Non andrò alla Princeton”, avrei voluto gridare. Non sarei andata alla sua stupida università, senza considerare il fatto che era dall’altra parte del paese. Mi morsi un labbro per trattenermi e per fortuna mia sorella rispose per entrambe.
«Grazie papà, lo terremo in considerazione». Anche lei era brava le risposte “salvagente”.
Guardai il mio piatto e decisi che per quella sera avevo già sopportato abbastanza. «Sì papà, lo terremo in considerazione. Adesso se volete scusarmi vado a ripassare, domani ho un compito». Non aspettai risposta – sapevo che la carta dello studio era sempre un asso nella manica – e mi fiondai di nuovo in camera mia.
Mi chiusi in fretta la porta alle spalle e mi ci appoggiai sospirando. Eccomi là un concentrato di confusione e di problemi. Ero una bomba ad orologeria pronta ad esplodere e non tanto perché non ne potevo più di tutta quella situazione ma perché mio padre mi aveva appena ricordato quello che da settimane avevo tentato di reprimere in fondo al cuore.
Non sarei andata alla Princeton né a nessun altra università prestigiosa dell’Ivy League; avrei al massimo frequentato le lezioni dell’università pubblica della nostra insulsa cittadina del South Dakota. Non era un capriccio, né una ripicca, era stata una decisione sofferta e ponderata; ma non potevo allontanarmi, non in quel momento. Avevo messo in stand-by i miei sogni e mi andava bene così.
Sapevo cosa volevo fare e sicuramente non era legge: volevo scrivere, volevo dare voce ai miei pensieri, dare vita alla mia fantasia, far emozionare, far vivere storie incredibile solo con le mie parole. Era anche per questo che tenevo un diario e che annotavo tutto ciò che mi passava per la mente: amavo scrivere e mi faceva stare bene con me stessa. Ma non aveva più importanza, non da quando lui…
Sospirai di nuovo e mi staccai dalla porta scacciando via quei pensieri. Fui tentata di riprendere il diario ed avevo già aperto il cassetto, quando notai la mia immagine riflessa nello specchio appeso sopra la scrivania. Ero un ammasso di ricci né biondi né castani, di un colore indefinito a mio parere, fin troppo crespi e capaci di causarmi un bel po’ di problemi a pettinarli; avevo un viso paffuto, senza nessuna caratteristica particolare e due occhi nocciola, alquanto anonimi e per niente distintivi. Per non parlare della miriade di lentiggini che mi ricopriva il naso. Ero una ragazza normale, lo sapevo, niente a che vedere con mia sorella; tuttavia non mi era mai importato granché del mio aspetto. Non c’era mai stato un ragazzo che fosse stato interessato a me, e non solo per Queen, ma anche perché non ero mai stata brava a socializzare. Mi ci voleva un po’ prima di aprirmi con gli altri e questo mi aveva sempre in qualche modo emarginato dalla cerchia di ragazzi che volteggiava intorno a Queen. Comunque non avevo mai dato peso neanche a quello. Non ero una di quelle ragazzine che smania per avere il primo bacio o per attrarre l’attenzione del ragazzo che le piace. In fondo, da brava amante dei libri, sognavo un amore epico, di quelli che ti fanno battere il cuore a mille. Forse un giorno sarebbe arrivato ed io ero brava ad aspettare.
Abbassai lo sguardo dalla mia immagine riflessa e lo puntai sulla copertina colorata che faceva capolino dal cassetto aperto.
«Per stasera sarà meglio di no», sussurrai ad alta voce, come a dare una spiegazione della mia diserzione al mio fedele compagno. «Ho già messo a nudo un po’ troppi sentimenti per oggi». In fondo il giorno dopo avevo davvero un compito e avrei dovuto davvero ripassare: per una volta non avevo detto una bugia.
 
«Queen credi che dopo Sean ti potrà riaccompagnare?», domandai salendo al posto del passeggero dell’Honda che condividevo con mia sorella.
«Buongiorno anche a te sorellina». Lei era già seduta al posto di guida e mi stava aspettando. Erano le sei di mattina, lei aveva gli allenamenti delle cheerleader ed io avrei passato il tempo prima dell’inizio delle lezioni ciondolando in biblioteca. Avevamo una macchina sola e alzarmi all’alba era sempre meglio di farmi cinque chilometri a piedi di prima mattina – cosa che mi avrebbe comunque fatto alzare alla solita ora – o essere costretta a chiedere un passaggio ad uno dei nostri genitori.
«Sì sì buongiorno», la liquidai con un gesto della mano. «Allora credi che potrà riaccompagnarti?».
«Credo di sì. Non dovrebbe avere gli allenamenti. Penso che per Sean non ci siano problemi». Sean era il ragazzo perfetto della mia più che perfetta sorella, nonché quarterback della squadra di football della scuola. Un accoppiata da urlo e alquanto scontata, a mio parere.
«Bene perché mi serve la macchina dopo». Era tutto quello che volevo sapere, potevo ritenermi soddisfatta.
«Vai da lui?». La vidi stringere forte il volante tra le mani, tanto che le sue nocche diventarono bianche per lo sforzo.
«Lo sai che vado da lui». Mi sistemai meglio sul sedile e puntai lo sguardo dritto davanti a me. «E prima che tu possa aggiungere altro, ti conviene partire se non vuoi fare tardi agli allenamenti».
Queen sospirò ma fece come le avevo detto. Sapevo che non era finita lì e che lei era ancora pronta all’attacco, ma almeno sarebbe arrivata a scuola in orario.
«Lo sai che non puoi fare nulla per lui», borbottò all’improvviso, come volevasi dimostrare.
«Invece sì, gli fa bene vedermi».
«Linny, vorrei tanto che lui potesse capire, vorrei tanto che fosse come dici tu, ma non è così».
«Sì che lo è», la interruppi brusca. Era troppo presto per affrontare una conversazione del genere, la caffeina che avevo ingurgitato a colazione non era ancora entrata in circolo; tuttavia non le avrei permesso di dire una cosa del genere. «Non ti azzardare a dire ciò che stai pensando e lo so che lo stai pensando, perché sono tua sorella e ti conosco».
«Oh Linny…», sospirò mordendosi le labbra per non aggiungere altro.
«Io non l’abbandono, non l’abbandonerò mai», emisi in un sussurro.
«Nemmeno io lo farò, ma questo non cambia la situazione». Era vero, ma lei era diversa da me; il modo in cui gestivamo le cose, come affrontavamo la questione, era completamente differente.
«Fa bene anche a me Queen, come fa bene a lui, ti prego non insistere».
Fece un altro profondo respiro prima di cedere. «D’accordo, ma non credo che sia la cosa migliore almeno per te».
Non risposi non sapendo se avesse ragione o meno. Tuttavia non avrei cambiato idea: ciò che era meglio per me passava in secondo piano, soprattutto se così facendo avrei aiutato lui, anche in minima parte.
Il resto del viaggio trascorse tranquillo così come il resto della giornata. La scuola era, in un certo qual modo, il mio porto sicuro; non che fossi popolare o l’idolo della scuola, per quello c’era già Queen. Io ero piuttosto considerata la sua sorellina timida e tranquilla, forse anche un po’ strana. Però ero brava, i professori erano lieti di avermi nella loro classe; la bibliotecaria e le signore delle mense mi conoscevano talmente bene da riservarmi sempre qualche gentilezza e a me andava più che bene così. Non che fossi una di quelle sfigate che mangiano alla mensa tutte da sole, con la sola compagnia di un libro. Avevo il mio bel gruppo di amici – in realtà erano solo due: Lea ed Evan – e, anche se mangiavamo in un angolo appartato della sala, non eravamo noi il tavolo degli sfigati. O forse lo eravamo ma non ci importava.
Fatto sta che a scuola stavo bene, più che a casa; ero ormai all’ultimo anno, sapevo ciò che facevo e il fatto di essere la sorella di Queen in qualche modo mi premuniva da qualsiasi tentativo di sbeffeggiamento.
Ed era proprio per questo che quando mi sedetti al mio banco nell’aula di biologia, per l’ultima ora di lezione, la mia mente era già lontana mille miglia, ogni pensiero rivolto verso colui con cui di lì a poco avrei trascorso il resto del pomeriggio. E fu proprio per questo che non mi accorsi neanche del ragazzo che svettava in piedi in mezzo alla classe accanto al professore.
Fu solo quando sentii il mio nome uscire dalle labbra del prof Robbins che tornai coi piedi per terra.
«Puoi sederti lì, accanto alla signorina Jefferson». Vidi la sua mano indicare il posto vuoto accanto a me, che era rimasto tale fin dall’inizio dell’anno. E fu quando spostai lo sguardo accanto a lui che lo vidi per la prima volta.
Adesso, come in qualsiasi storia che si rispetti, dovrei dire che il mio cuore accelerò, che le farfalle cominciarono a girovagarmi nello stomaco, che quello che mi apparve davanti fu in assoluto il ragazzo più bello che avessi mai visto. Beh assolutamente no: quello che provai fu esattamente l’opposto. L’unica sensazione che mi trasmise il mio corpo fu un brivido lungo la schiena, e non fu certo un brivido di apprezzamento. Furono piuttosto sensazioni di paura e di disagio quelle che mi attanagliarono le viscere.
Il ragazzo che stava in mezzo alla classe e che presto avrebbe preso posto nel banco vuoto accanto al mio, aveva sicuramente due e tre anni più di me e dei miei compagni; era palese che fosse ripetente e che non dimostrasse semplicemente di più della sua età. Aveva delle spalle larghe e possenti, un fisico massiccio e muscoloso, capace di intimidire chiunque, e le braccia erano completamente ricoperte di tatuaggi. Spuntavano dalla maglietta a mezze maniche – chi diavolo se ne va in giro in quelle condizioni a metà novembre? – e arrivavano quasi fino alle mani, come un complicato intreccio di fili, lasciando pochissima pelle libera; i jeans a vita bassa erano strappati, i capelli mori erano tenuti indietro da un berretto da baseball, che non ne faceva intuire la lunghezza. E tutto questo sarebbe stato già abbastanza se non si fosse aggiunta la sua faccia: non erano tanto il piercing al naso, al labbro e al sopracciglio ad intimorirmi, era piuttosto la sua espressione. Aveva uno sguardo torvo e per niente rassicurante; si guardava intorno come un toro pronto a scattare.
Prima di continuare vorrei rassicurarvi sul fatto che io non ero e non sono tuttora una persona che discrimina in base al semplice aspetto fisico. Io di solito non sputo pregiudizi, non emetto sentenze, concedo a tutti il beneficio del dubbio. Tuttavia ero pur sempre cresciuta in una delle famiglie più rispettate ed agiate di quella piccola cittadina ed era naturale che la mia prima impressione fosse quella di sentirmi intimorita, e fu altrettanto normale che i miei primi pensieri non fossero proprio del tutto amichevoli.
“Che diavolo ci fa un tipo del genere nella nostra scuola? O meglio che cosa ci fa in un paese come questo?”. Non eravamo un paese minuscolo, ma neanche così grande da attirare quel particolare tipo di persone. Lui sembrava più un ragazzo da gang mafiosa di qualche assurda metropoli; non un semplice ragazzo da paese di campagna. Non ce l’avrei mai visto a cantare l’inno durante la parata del quattro luglio, o a raccogliere fondi per i bambini bisognosi durante le feste di Natale. Eppure era ciò che i nostri concittadini, me compresa, facevano ogni anno.
«Faresti meglio a chiudere la bocca se non vuoi che inizi a pensare che stai sbavando per me». Ero stata talmente presa dai miei pensieri da non essermi accorta che lui si era avvicinato e aveva preso posto al mio fianco, mentre io lo fissavo a bocca aperta come una perfetta idiota.
Serrai le labbra di scatto e voltai la testa dall’altra parte, sentendo le guance arrossire, non tanto per ciò che aveva detto ma per come l’aveva fatto.
«Comunque sono Trevor…». Con la coda dell’occhio notai che mi stava porgendo una mano, aspettando che io mi presentassi a mia volta.
«Kathleen», farfugliai stringendola.
«Piacere di conoscerti Kathleen». La sua voce era calda, così come la sua mano; non corrispondeva affatto alla figura che avevo davanti. Se fossi stata bendata non avrei mai associato una voce così profonda e roca ad un corpo come quello. Era come se tutta quella massa di tatuaggi e piercing avesse alterato l’aspetto naturale che avrebbe dovuto avere.
Prima che la mia mente partisse di nuovo per la tangente e prima che potessi fare altre figuracce, ritrassi la mano e puntai lo sguardo sul mio quaderno. Per tutto il resto del tempo mi concentrai sulla lezione, scribacchiando appunti incomprensibili e cercando di non fare caso al tipo inquietante seduto accanto a me. Non sapevo se lui mi stesse guardando o se avesse notato il mio disagio, ma l’unica cosa che volevo era terminare quella maledetta ora e poter sgommare via a bordo della mia Honda.
Proprio per questo sentire il suono della campanella fu un vero sollievo. Scattai in piedi quasi senza accorgermene e iniziai a rimettere i libri nello zaino alla velocità della luce. Stavo già per correre via verso la porta quando sentii di nuovo quella voce roca pronunciare il mio nome.
«Kathleen». Indugiava sulla “l” in modo particolare, dando a quella parola un suono leggermente diverso dal solito. E non ero sicura che fosse un diverso positivo.
Avrei tanto voluto far finta di non sentirlo, ma ero stata educata in un determinato modo e non ero il tipo da ignorare qualcuno che mi stava chiamando.
«Che c’è?», chiesi voltandomi di scatto. La domanda mi era uscita con un tono piuttosto scocciato.
«Volevo chiederti come pensi di organizzarci?». Lui era in piedi proprio davanti a me e solo in quel momento notai quanto fosse alto, almeno un metro e ottanta. Con una mano teneva una giacca di pelle appoggiata sulle spalle e mi stava fissando con aria interrogativa.
«In che senso?». Lo fissai perplessa domandandomi se la mia fervida immaginazione mi avesse fatto perdere qualche passaggio del discorso. Certe volte seguire il filo dei miei pensieri mi faceva sembrare un po’ svampita.
«Beh per il progetto». Si strinse nelle spalle come se fosse ovvio. «Immagino che tu l’abbia già iniziato».
Ah già il progetto di biologia! Ora era tutto chiaro. All’inizio di novembre il professore ci aveva assegnato un progetto a coppie sulla divisione cellulare; tuttavia visto che eravamo dispari ed io ero senza compagno di banco, avevo potuto scegliere se unirmi ad un altro gruppo oppure farlo da sola. Ovviamente, non essendo mai stata una grande amante della socializzazione, avevo scelto la seconda opzione, dato che comunque anche in tre persone avrei finito per fare io tutto il lavoro. Tutti sapevano che avevo una media altissima e che non volevo rischiare di sciuparla. Ecco come la domanda del mio nuovo “compagno” diventasse adesso più che lecita, anche se tutto mi sarei aspettata all’infuori del fatto che a un tipo come lui potesse in qualche modo importare dei compiti. Doveva aver già ripetuto l’anno, non poteva aspettare ancora un po’ prima di interessarsi all’argomento “scuola”?
«Senti Trevis», iniziai.
«Trevor», mi corresse.
Arrossii ma mi feci forza e continuai. «Non c’è bisogno che tu collabori. Ho già quasi finito».
«Immaginavo, ma dovremo farlo in coppie. Posso aiutarti…».
«Senti», lo interruppi, trovando più coraggio di quello che credevo di possedere. «Tu sei nuovo e dovrai ambientarti. Comunque metterò il tuo nome nel progetto, tranquillo, e dirò al prof che mi hai aiutato. Io ho una media di voti molto alta, se è questo che ti preoccupa. Tu avrai un voto alto senza nessuno sforzo e potrai concentrarti su qualsiasi altra cosa tu voglia».
La sua espressione si fece più truce e leggermente più spaventosa. «Ma…».
«Senti», lo interruppi di nuovo, con l’unico intento di scappare via da quella situazione. «Adesso devo proprio andare, ci vediamo eh». Senza dargli il tempo di ribattere corsi via dall’aula, disperdendomi nella folla che si stava riversando nei corridoi diretta al parcheggio.
Beh se non altro le lezioni di biologia non sarebbero più state tranquille come al solito. Avevo come la netta impressione che quel ragazzo avrebbe portato molti guai, e quelli erano proprio l’ultima cosa di cui avevo bisogno.
  
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