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Autore: gattina04    07/12/2017    0 recensioni
Kathleen non è una ragazza come tante: sottoposta alla pressione di una famiglia che le chiede sempre troppo, ha un passato che non riesce a lasciare andare. Lei sa cosa vuole, sa qual è il suo sogno, ma ci ha rinunciato già da tempo per l'unica persona a cui sente di essere ancora legata.
Trevor invece è schietto, deciso, con un passato fin troppo burrascoso, che vorrebbe solo dimenticare. Trevor vuole voltare pagina e per questo si ritrova in un mondo, in una scuola, dove è completamente fuori posto.
Come potrà una ragazza legata al passato trovare un punto di contatto con un ragazzo invece che farebbe di tutto pur di recidere quel legame?
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La mia storia è pubblicata anche su WATTPAD
Genere: Fluff, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon, Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Scolastico
Capitoli:
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Capitolo 3
 
Il giorno dopo non passò molto tempo prima che ricevessi un altro “attacco” dal mio inquietante e misterioso stalker. Stavo prendendo i libri per le lezioni della mattina dall’armadietto quando ebbi la netta sensazione che qualcuno mi stesse osservando; ed infatti, pochi secondi dopo, un fisico possente si appoggiò all’armadietto accanto al mio.
«Buongiorno Kathleen». Trevor teneva la testa appoggiata ad una mano e mi stava studiando con uno sguardo indagatore.
«Buongiorno», balbettai e purtroppo sentii il viso avvampare involontariamente. Era sempre bello sapere di non avere un briciolo di controllo sul proprio corpo.
«Arrossisci spesso o sono io che ti faccio questo effetto?». Con l’altra mano mi sfiorò una guancia con il semplice risultato di farmi arrossire ancora di più. Se avessi continuato così, sarei diventata presto un pomodoro vivente.
«Io…», balbettai puntando lo sguardo sulla copertina del libro di matematica. Perché diavolo mi comportavo così? Perché perdevo l’uso della parola in sua presenza?
«Sì lo so, la questione dello spazio». Senza aggiungere altro, si tirò indietro e lasciò che tra di noi si ristabilisse la giusta distanza. Beh in quel caso non era solo quello il problema.
«Grazie», sussurrai non sapendo bene per che cosa lo stessi effettivamente ringraziando.
«Comunque sei tu che mi fai uno strano effetto», aggiunsi senza rendermene conto, «di solito non arrossisco». Di male in peggio: in sua presenza o perdevo l’uso del linguaggio articolato o mi si scioglieva la lingua dando voce a cose che avrei fatto meglio a tenere per me.
Trevor sorrise lasciando da parte la sua aria truce. «Beh di solito faccio questo effetto alle donne, è il mio fascino da cattivo ragazzo».
«Forse è solo per i piercing e i tatuaggi», aggiunsi di nuovo senza pensare.
«Certo, per i tatuaggi», ridacchio. «Oppure perché sono di una bellezza imbarazzante. Chiunque si sentirebbe in difetto di fronte a tutto questo ben di Dio». Con un gesto della mano indicò il suo corpo ed io, senza volerlo, mi ritrovai a sorridere, sentendo l’imbarazzo scivolare lentamente via.
«Comunque», aggiunse cambiando discorso, «volevo chiederti se ti andava di restare oggi dopo la scuola per il nostro progetto». Il mio cuore fece una capriola sentendo la parola “nostro”.
«Mi dispiace, non posso». Chiusi l’armadietto respirando a fondo e concentrandomi sull’inserire la giusta combinazione.
«Ehi hai promesso! Non vorrai mica rimangiarti la parola?».
Mi voltai verso di lui trovando finalmente il coraggio di guardarlo negli occhi; quella mattina erano ancora più chiari del giorno prima. «No certo. Solo che oggi non posso». O meglio avrei potuto, ma non volevo rimandare la mia abituale visita a Jamie.
Tuttavia Trevor si stava sforzando di essere gentile con me ed io dovevo cercare di fare altrettanto. «Perché invece non ci troviamo domattina?», proposi.
«Ma è sabato», protestò assumendo un’espressione corrucciata.
«Lo so, ma la scuola e la biblioteca sono aperte lo stesso».
«Sì ma ripeto: è sabato ed è mattina».
«Beh prendere o lasciare», affermai incrociando le braccia al petto.
«Il tuo impegno è davvero così importante? Non puoi rimandare?». Per un attimo mi ero scordata che lui, essendo nuovo, non era a conoscenza della storia di mio fratello, altrimenti avrebbe capito il motivo del mio diniego.
«No, mi dispiace». Gli rivolsi un sorriso sincero, sentendomi per una volta libera dalla compassione che leggevo sullo sguardo della maggior parte dei miei compagni da due anni a quella parte.
«Non posso fare nulla per convincerti?». Mi rivolse un sorrisetto malizioso prima di continuare. «Beh in realtà avrei in mente diverse cosette interessanti da proporti per farti cambiare idea, ma ho come l’impressione che non funzionerebbe con una ragazza come te».
Arrossii di nuovo, forse più imbarazzata di prima, ma stranamente un sorriso mi si disegnò sulle labbra. «No hai ragione, non funzionerebbe».
«E sia», acconsentì sfoderando uno sguardo da cane bastonato. Il contrasto tra il suo volto da duro e la sua espressione era talmente comico che mi scappò un risolino.
«A che ora?», aggiunse con voce roca.
«Alle otto?». O era troppo pesto?
«Dio! Kathleen Jefferson mi ucciderai ancor prima di conoscermi». E così dicendo si allontanò lasciandomi da sola, con un sorriso divertito stampato in faccia.
«È davvero chi credo che fosse?». La voce di Evan mi fece voltare, facendomi distogliere lo sguardo dalla schiena di Trevor che si stava allontanando tra la folla.
«Sì», ammisi. «Domani studiamo insieme».
«Ti ho già detto che sei una maledetta ragazza fortunata?». Almeno un milione di volte, ma forse quella era la prima in cui potevo quasi pensare che forse avesse ragione.
 
Nonostante fossi preoccupata per la mia sessione di studio con Trevor – non sapevo se preoccupata fosse il verbo giusto, forse intimorita? Agitata? Non volevo neanche ipotizzare il fatto che fossi semplicemente emozionata – il tempo volò via velocemente. Così velocemente che mi ritrovai a guidare in ritardo sulle strade ghiacciate diretta a quella sorta di appuntamento. Purtroppo per me non avevo previsto la gelata della notte e così avevo perso tempo a sghiacciare e a spannare la macchina. Essere in ritardo era una cosa che normalmente mi infastidiva; esserlo in quell’occasione mi irritava ancora di più.
Quando finalmente arrivai a scuola, trovai Trevor ad aspettarmi appoggiato sulla soglia d’ingresso con indosso la stessa espressione truce che gli avevo visto il primo giorno. Non portava il cappello e i suoi capelli li ricadevano sulla fronte in ciocche scompigliate; erano neri come la pece, né lunghi né corti, ma il modo in cui vi passò le dita fece fare una sorta di capriola al mio stomaco. Era possibile che anche una semplice capigliatura potesse renderlo ancora più sexy e misterioso? Un momento avevo appena usato la parola “sexy”? Dovevo assolutamente smetterla con quei pensieri prima di partire per la tangente; avevo già accumulato abbastanza figuracce con lui da bastarmi per una vita intera.
«Finalmente sei arrivata!», esclamò. «Per un attimo ho pensato che mi avresti dato buca».
Guardai l’orologio: segnava le otto e venti. Non ero in ritardassimo, però lui aveva tutte le ragioni per essere infastidito. «Mi dispiace, non avevo considerato il ghiaccio».
«Non ho il tuo numero di telefono e non sapevo come contattarti», mi fece notare. «E poi se mi avessi dato davvero buca per farti dispetto avrei proprio voluto svegliarti dal tuo sonno rigenerante con una bella e fastidiosa chiamata».
«Scusa», ripetei sentendo le labbra piegarsi all’insù.
«Per farti perdonare devi consegnarmi immediatamente il tuo telefono», dichiarò.
«Cosa?».
«Dammi il tuo telefono Kathleen». Feci una smorfia tuttavia obbedii a quella sua assurda richiesta.
Gli consegnai il cellulare e lo vidi digitare qualcosa sullo schermo. «Ecco fatto», mi disse riconsegnandomelo, «così hai il mio numero. Adesso muoviamoci, visto che mi hai fatto alzare all’alba di sabato mattina». Si girò di scatto e mi fece strada fin dentro la scuola.
«Che cosa mi avresti detto?», gli domandai mentre ci dirigevamo in biblioteca. Nonostante lui mi intimidisse, quel giorno volevo mettercela tutta per riuscire ad avere una conversazione normale con lui. Niente parole farfugliate, né frasi senza riflettere, né tantomeno rossori vari.
«Quando?», mi chiese non capendo. Aggrottò le sopracciglia, facendo spostare il suo piercing.
«Che cosa mi avresti detto se ti avessi dato buca?».
Si portò una mano al mento riflettendo «Beh probabilmente ti avrei detto che non saremmo più potuti essere amici».
«Wow che minaccia! Da te mi sarei aspettata molto peggio».
«Beh in realtà ti avrei infamata pesantemente, ma siccome sono un gentiluomo ho evitato di dirlo».
«Non hai l’aspetto di un gentiluomo». Ed ecco che già dicevo addio al mio proposito di non parlare a sproposito.
«Ciò non significa che non lo sia Kitty». Mi irrigidii immediatamente sentendo quel diminutivo, col risultato di fermarmi nel bel mezzo del corridoio mentre Trevor continuava a camminare. C’era solo una persona che mi chiamava così ed era molto tempo che non lo faceva più. Nessun altro poteva farlo, era troppo doloroso. Sentire quella parola, pronunciata da tutto un altro timbro di voce, era comunque come riportare a galla tutti i ricordi dei momenti felici trascorsi insieme.
«Ehi che succede?». Trevor si rese conto che non lo stavo più seguendo e si voltò a guardarmi.
«Non chiamarmi così», emisi in un sussurro, puntando lo sguardo a terra. Cercai di prendere un respiro profondo in un vano tentativo di calmarmi e di riprendere il controllo delle mie emozioni.
«Così come? Kitty?».
«Sì». Ecco un’altra stilettata al cuore.
«Beh Kitty è carino. E poi tu hai proprio la faccia da Kitty, come un dolce gattino arruffato. Tu sei così, Kitty».
«Smettila!». Avevo urlato talmente forte che la mia voce aveva rimbombato per i corridoi deserti. Per fortuna non sembrava esserci nessun altro all’interno della scuola, gli unici studenti lì di sabato dovevano trovarsi sicuramente in palestra o sul campo da football.
«D’accordo». La voce di Trevor fu solo un sussurro e ciò mi costrinse ad alzare lo sguardo su di lui. Sapevo benissimo che stava soltanto scherzando con me, ma non sopportavo che lo facesse in quel modo.
Trevor era a qualche metro di distanza e mi stava fissando con un’espressione indecifrabile. Non aveva quella sua solita aria truce e neanche quel sorrisetto impertinente. Aveva un’espressione dura e circospetta, le iridi più scure di prima, le sopracciglia tese in una linea rigida.
«Smettila ti prego», ripetei in un tono normale.
«Okay, non ti chiamerò più così. Non volevo farti arrabbiare, stavo solo scherzando».
«Lo so». Avrei dovuto dargli una spiegazione per quella mia reazione, ma volevo dimenticare quel momento al più presto. Per questo mi affrettai a superarlo per dirigermi verso la biblioteca senza aggiungere altro.
Sentii che lui mi seguiva ma non ebbi più il coraggio di guardarmi indietro. Mi diressi verso uno dei grandi tavoli liberi e cominciai a tirare fuori tutto il materiale. Dovevo sembrargli completamente fuori di testa; sapevo di aver reagito in maniera esagerata, ma non potevo spiegargli perché l’avevo fatto. Se lui me l’avesse chiesto quasi sicuramente sarei corsa via; non sarei mai riuscita a dirglielo. Probabilmente Trevor rimaneva l’unica persona che non sapesse di mio fratello in tutta la città e non me la sentivo di affrontare quell’argomento con nessuno, figuriamoci con uno sconosciuto.
«Allora, ho diviso il materiale per argomenti». Iniziai a parlare a macchinetta, sistemando gli appunti sul tavolo. «Nella cartellina verde c’è la mitosi, in quella rossa la meiosi, in quella blu invece ho riportato alcuni esempi di divisione cellulare nei batteri. Ho pensato che potevamo partire dalla scissione binaria dei procarioti, con alcuni esempi per poi arrivare ad affrontare la divisione cellulare negli eucarioti, con tutte le varie fasi. L’unica cosa che devo sistemare sono alcuni esempi caratteristici delle cellule…».
«Kathleen». La mano di Trevor sulla mia fermò il flusso delle mie parole; le sue dita erano calde e più ruvide di quanto avessi immaginato.
«Scusa». Quella semplice parola pronunciata con la sua voce roca fu sufficiente a farmi alzare la testa per ritrovarmi completamente catturata dal suo sguardo ipnotico. Era vicinissimo, ma la mancanza di spazio era l’ultima cosa che mi preoccupava. Le sue sopracciglia erano contratte e si stava inconsciamente mordicchiando il piercing che aveva sul labbro, ma tutto il resto perdeva di importanza di fronte ai suoi occhi. Erano due pozze d’acqua così trasparenti e sincere da farmi perdere completamente il controllo del mio corpo. Come diavolo facevano a cambiare colore in quel modo? Mentre mi perdevo nei suoi occhi il mio cuore perse un colpo per poi iniziare a battere all’impazzata, più veloce di come avesse mai fatto; il mio stomaco si contrasse e all’improvviso compresi cosa si intendesse con il termine “farfalle nello stomaco”.
Sicuramente era la prima volta che un ragazzo, che non avesse con me nessun legame di parentela, mi guardava in quel modo e di certo era la prima volta che io mi sentivo così. Ero spaventata, emozionata, agitata, confusa, tutto insieme; ero un intreccio di emozioni che si susseguivano le une sulle altre in un ciclo continuo.
«Scusa per prima», continuò, mentre il mio sguardo si spostava dai suoi occhi alle sue labbra, «per qualsiasi cosa che sia successa».
Non trovai la forza di parlare ma riuscii soltanto ad annuire prima che lui si allontanasse. Stava ristabilendo la giusta distanza tra noi, allora perché mi sembrava che si fosse staccato troppo presto?
 
Studiare con Trevor non fu così terribile come avevo immaginato. Notavo che certe volte faticava a seguirmi, ma si impegnava; ce la metteva tutta per riuscire a tenermi testa. Se non capiva qualcosa mi faceva delle domande e cercava di comprendere i miei ragionamenti; era attento e concentrato e questo un po’ mi sorprendeva. Non me l’ero aspettato, ma d’altronde erano parecchie le cose di lui che mi avevano sorpreso: la voce, lo sguardo, le mani, i modi e soprattutto la gentilezza. Sì perché nonostante lo conoscessi da poco, era stata molto più che gentile a chiedermi scusa, in modo particolare dopo quella mia assurda reazione esagerata.
«Oddio», sbadigliò stiracchiandosi, dopo diverse ore che eravamo chini sui libri. «Dimmi che abbiamo finito perché ho proprio bisogno di una pausa».
Controllai per un’ultima volta gli appunti prima di rispondergli. «Direi di sì, adesso sei libero di andare».
«Oh non ci posso credere». Allungò le braccia sul tavolo, mettendo in bella mostra tutti i suoi tatuaggi. Era assurdo come continuasse a portare magliette a maniche corte, sotto quella sua onnipresente giacca di pelle.
«Abbiamo finito tutto, direi che siamo stati bravi». La sorpresa nel mio tono fu maggiore di quanto volessi in realtà far trasparire.
«Sembri stupita. Io invece non lo sono per niente: l’avevo capito subito che eri una secchiona».
«Beh adesso comunque sei libero di goderti il tuo sabato. Non sei contento di esserti alzato così presto? Almeno adesso hai tutta la giornata a disposizione».
«Neanche per sogno», ribatté. «Non sarò mai contento di essermi alzato presto quando avrei potuto dormire. E poi non abbiamo ancora finito io e te». Con un dito indicò prima lui e poi me, mentre un sorrisetto gli spuntava sul volto.
«Che cosa intendi dire?», domandai circospetta, iniziando a riordinare.
«Beh è quasi ora di pranzo Kathleen, abbiamo studiato per quasi quattro ore senza interruzioni. Mi sono comportato bene e adesso ho bisogno della mia ricompensa e tu non puoi tirarti indietro».
Alzai immediatamente lo sguardo su di lui, sentendo il mio cuore accelerare e le mie guance arrossire. Che cosa intendeva per ricompensa? Non ero abituata a studiare con dei ragazzi – l’unico era Evan e non potevo considerarlo proprio tale – e, anche se non credevo di dovergli nulla, poteva darsi che lui avesse frainteso i miei comportamenti e si aspettasse qualcosa di diverso dal semplice studio. Trevor non sembrava il tipo, eppure anche Queen aveva detto che forse io gli piacevo. E lui mi piaceva? Beh sicuramente l’avevo rivalutato dalla prima volta in cui l’avevo visto, ma ancora non lo conoscevo bene, o meglio non lo conoscevo quasi per nulla.
Voleva un bacio o addirittura qualcosa di più? Beh se anche era strano, poteva essere no? In fondo lui non era di quelle parti, chissà come si comportavano nella sua vecchia scuola! Ma se avesse voluto soltanto un bacio io mi sarei tirata indietro?
«Ehi Kathleen ferma quella tua testolina, o comincerà ad uscirti il fumo dalle orecchie».  Mi picchiettò le dita sulla fronte, facendomi tornare alla realtà.
«Volevo solo dire che devi portarmi a pranzo, me lo devi», mi spiegò. «Per non parlare del fatto che sto morendo di fame e che probabilmente potrei svenire per mancanza di zuccheri e per troppo studio. E in quel caso tu mi avresti sulla coscienza; vuoi davvero avermi sulla coscienza Kathleen?».
«Oh», fu l’unica cosa che riuscii a dire. Se non fossi già stata completamente rossa, sarei andata a fuoco per l’imbarazzo; certe volte i film mentali che prendevano vita nella mia testa erano più pericolosi e inopportuni che mai.
«Già oh», sorrise. «Che cosa stavi pensando ragazzaccia? Ti ho già detto che sono un gentiluomo».
Il fatto che continuasse a scherzarci sopra, però, non diminuiva il mio imbarazzo. E il fatto che avessi di nuovo perso l’uso del linguaggio articolato ne era una prova più che valida.
«Sei proprio buffa», ammise divertito. «Un attimo prima non hai peli sulla lingua e quello dopo diventi così timida da non riuscire neanche a parlare».
«Io…». Aveva ragione ma era la prima volta che mi capitava e non sapevo proprio come spiegarmelo.
«Dai Katy. Sono nuovo in città, mostrami dove la maggior parte dei decerebrati di questa scuola va di solito a mangiare». Aveva di nuovo accorciato il mio nome, ma questa volta non mi aveva dato fastidio, anzi. Il diminutivo “Katy” non mi era mai piaciuto granché, ma pronunciato da lui sembrava avere un suono tutto particolare.
«Non credo di essere la persona adatta», ammisi ritrovando la voce. «Non sono proprio la regina della popolarità…».
«Ma non mi dire? Non l’avrei mai detto». Mi stava prendendo in giro, ma il suo tono non era offensivo. «Dai Katy conoscerai almeno un posto dove possiamo pranzare decentemente?».
«Sì certo».
«Allora muoviamoci». Senza perdere altro tempo mi prese per mano guidandomi verso l’uscita.
 
L’unico posto degno di nota nella nostra piccola cittadina era da Harold; era un vecchio fast-food, che tutti conoscevano e che faceva i panini più buoni del mondo. Con mio fratello ci andavamo spesso, soprattutto per sfuggire dalle cene sofisticate che certe volte la mamma ordinava alle domestiche. Dopo l’incidente di Jamie ci ero tornata qualche volta, soprattutto con Lea e con Evan, ma non era più la stessa cosa; ogni tavolo, ogni piatto me lo ricordava. Tuttavia non c’era molta altra scelta, era probabilmente l’unico ristorante aperto a pranzo in cui potevo permettermi di portare Trevor.
Visto che lui era venuto a piedi – avevo scoperto che abitava a dieci minuti dalla scuola – prendemmo la mia macchina. Durante il tragitto Trevor non disse una parola sulla mia guida, anche se continuavo ad andare pianissimo e ad inchiodare per la possibilità che la strada fosse ghiacciata. Si limitò ad armeggiare con la radio passando da una stazione all’altra.
Quando finalmente posteggiammo ed entrammo nel locale, l’aria calda e l’odore invitante di patatine fritte ci colpì in pieno.
«Non male come inizio», commentò, guidandomi verso uno dei tavoli liberi. Lasciò che io mi sedessi sul divanetto mentre lui si accomodò dall’altro lato, proprio di fronte a me.
La cameriera arrivò subito a portarci i menù, lanciandoci un occhiata piuttosto impertinente. Era una ragazza della nostra scuola, di cui non ricordavo il nome, e che doveva essere al terzo anno; ovviamente sapeva chi fossi e di certo aveva sentito parlare di Trevor. Ciò significava che con molta probabilità entro lunedì all’ora di pranzo sarei finita a far parte del gossip studentesco. Non che mi importasse, ma il mio nome ero già stato sussurrato spesso soprattutto dopo l’incidente. I pettegolezzi certe volte erano fastidiosi, e ancora più irritante erano le frasi bisbigliate credendo di non essere sentiti.
“Povera ragazza” o “deve essere completamente andata fuori di testa” sussurrati a mezza voce erano ancora peggio della compassione che leggevo sul volto di tutti i primi tempi.
«Stupide piccole cittadine», borbottò Trevor a denti stretti. «A volte dimentico che qua vi conoscete tutti». Alzai lo sguardo su di lui e notai che stava fissando la cameriera che continuava a lanciare sguardi furtivi nella nostra direzione.
«Pensavo che non ti desse fastidio essere sulla bocca di tutti». D’altronde non faceva nulla per cercare di passare inosservato.
«Oh non mi da fastidio. Solo che da dove vengo io non si corre questo pericolo. Ci sono talmente tanti locali che hai l’imbarazzo della scelta se vuoi essere sicuro di non incappare in qualcuno che conosci». Lea aveva detto che era di Boston, quindi era facile immaginare come la sua realtà fosse completamente diversa dalla mia. Ero stata a Boston solo una volta, proprio prima che Jamie cominciasse il college…
«Comunque», interruppe di nuovo il flusso dei miei pensieri. «Credo che si possa capire molto di una persona osservando ciò che mangia. Quindi fai molta attenzione Kathleen perché ciò che ordinerai potrebbe influenzare tutto l’intero futuro della nostra relazione».
Cercai di non prestare attenzione alla reazione del mio corpo alle sue parole e di rispondere invece in modo normale. «Sembra tutto molto apocalittico».
«Oh lo è. Non credo di poter continuare ad essere tuo amico se ordini la cosa sbagliata. E questo potrebbe essere un problema: non potrei più farmi vedere in giro con te, ne andrebbe della mia reputazione. Dovrei cambiare compagno di biologia, forse addirittura farmi spostare di ora, e non credere che sia facile trovare un altro posto libero nell’ora di biologia. Sarebbe una gran seccatura sia per me che per il prof Robbins, per non parlare delle signore della segreteria. Lo vedi quanti problemi causeresti?».
Scoppiai a ridere nello stesso istante in cui la cameriera tornò per prendere le nostre ordinazioni. «Siete pronti ragazzi?». Trevor alzò il sopracciglio col piercing facendomi capire che era tutto nelle mie mani.
Studiai il menù per un secondo prima di parlare, sapevo benissimo cosa ordinare. «Un bacon cheeseburger con doppia porzione di patatine e una coca cola». Puntai lo sguardo su Travor chiudendo il menù e aspettando il suo verdetto.
Lui scoppiò a ridere prima di rivolgersi anche lui alla cameriera. «Due per favore».
«Allora prova superata?», gli domandai una volta soli.
«Sì, direi proprio di sì. A pieni voti. Sei fortunata Kathleen, adesso possiamo essere amici».
«Oh che onore», scherzai.
«Devi considerarti fortunata invece. Se fossi stata una di quelle ragazze capace di ordinare un insalata in un fast-food avrei probabilmente inventato una scusa improbabile per poter scappare a gambe levate».
«Queen l’avrebbe fatto», gli rivelai. «Io e Jamie la prendiamo sempre in giro per questo». L’avevo detto senza pensare e mi era uscito del tutto naturale; di solito non mi veniva spontaneo parlare di mio fratello con nessuno, ma con lui era stato diverso. Era in qualche modo liberatorio pronunciare il suo nome senza doversi aspettare uno sguardo pieno di pietà e compassione subito dopo. Trevor non sapeva e rimaneva quindi un territorio neutrale, potevo parlare di Jamie senza preoccuparmi del resto.
Ed infatti Trevor continuò la conversazione come se nulla fosse. «Allora devo essere io a ritenermi fortunato ad aver scelto la sorella giusta». Mi guardò con il suo sguardo magnetico facendomi di nuovo arrossire; tuttavia le mie labbra si piegarono in un sorriso timido.
«Facciamo un gioco Katy, che ne dici?», mi propose appoggiandosi di più allo schienale. «So che come tutti avrai un sacco di domande da farmi, chiunque al tuo posto mi tempesterebbe».
«Non è vero», tentai di negare l’evidenza.
«Bugiarda», scherzò. «Perciò facciamo un gioco: una domanda a testa per conoscerci meglio, che ne dici?». Non ero sicura di voler partecipare a quella sua proposta: c’erano cose di me e della mia famiglia di cui non volevo parlare né tantomeno volevo che lui le venisse a sapere. D’altra parte ero anche curiosa di conoscere di più sulla sua storia. Era un’arma a doppio taglio.
Trevor, tuttavia, sembrò leggermi nel pensiero. «Non dobbiamo rispondere per forza, anche le risposte vaghe vanno bene. Se qualcosa che ti chiedo ti infastidisce, tu dammi una risposta vaga, banale ed io giuro che non indagherò oltre e lo stesso vale per te. Ci stai?».
Ero la regina delle risposte indefinite; avevo avuto una vita per esercitarmi per cui non sarebbe stato un problema. «D’accordo».
«Prima le signore allora». Con un gesto della mano mi fece cenno di cominciare.
Partii dalla prima cosa che mi venne in mente. «Quanti anni hai?».
Trevor ridacchiò. «Si nota tanto che sono più grande? Venti, ventuno il prossimo maggio. E tu?».
«Diciassette, ne faccio diciotto tra un paio di settimane».
«Quando?», mi chiese a bruciapelo. «E no, questa non vale come un’altra domanda».
«Il 5 dicembre», risposi, proseguendo subito il mio interrogatorio. «Hai dovuto ripetere qualche anno?». Sarebbe dovuto essere al college e non ancora al liceo; sapevo che non era una richiesta educata, ma ero curiosa.
«No in realtà. Negli ultimi due anni ho avuto dei problemi che non mi hanno permesso di frequentare l’ultimo anno, per questo sono ancora qua». Sapevo riconoscere una risposta vaga e lui me l’aveva appena data una, perciò non avrei insistito e poi era il suo turno. «Domanda di cui credo di sapere già la risposta: tu e Queen siete gemelle?».
«No, ci corrono undici mesi. In pratica io sono stata un incidente di percorso». Mia madre non ne aveva mai fatto un mistero.
«Un bellissimo incidente, a mio parere».
Mi sentii arrossire ma continuai con le mie domande, cambiando argomento. «Sei di Boston?».
«Sì e no. Ho vissuto là da quando avevo nove anni. Prima io e mia madre ci siamo spostati per un po’».
«E come mai hai deciso di venire a vivere qua con tuo padre?», domandai di impulso.
«E no Kathleen, prima sta me. Dopo risponderò anche a questa; ma dimmi: qual è la cosa che più ami? Nel senso qual è la cosa che ti fa stare bene e a cui non potresti mai rinunciare?».
Era una strana domanda, però la risposta era facile. «Scrivere. Scrivere è in assoluto la cosa che mi fa stare meglio».
Puntai lo sguardo su di lui aspettando che rispondesse a ciò che già gli avevo chiesto. «Beh Katy mi sono trasferito qua perché avevo bisogno di cambiare aria. Non potevo più restare a Boston, dovevo allontanarmi».
«E allora hai deciso di venire qua da tuo padre?». Sembrava sensata come idea.
«Beh sì. Non c’è di meglio per cambiare aria di trasferirsi da una metropoli ad una piccola cittadina di provincia». La sua risposta mi aveva fatto venire in mente almeno un altro migliaio di domande, tuttavia essendo il suo turno, mi morsi le labbra per trattenermi.
«Mi hai detto che ami scrivere, qual è invece la cosa che odi di più al mondo, quella cosa che nessuno potrebbe costringerti a fare nemmeno se ti pagassero?».
«Correre», risposi sorridendo. «Non sono un’amante degli sport, ma la corsa proprio la odio». Sicuramente le sue domande erano molto più facili di quelle che gli stavo ponendo io; ero fortunata che non indagasse più a fondo, io invece volevo sapere tutto. «Sei sempre andato d’accordo con tuo padre? Non sapevo che il signor Simons avesse un figlio».
«Non lo vedevo da quando ha lasciato me e mia madre. Io avevo circa quattro anni».
«E hai ripreso i contatti con lui dopo tutto questo tempo?», proruppi di scatto.
«Non riesci proprio a stare alle regole del gioco eh? Comunque ti risponderò lo stesso. Come ti ho detto ero arrivato ad un punto della mia vita in cui dovevo andare via; mia madre non mi aveva fatto mistero su chi fosse mio padre perciò l’ho rintracciato e gli ho chiesto di poter venire qua».
«E non è stato strano? Voglio dire, non gli è sembrato strano che suo figlio dopo tutto quel tempo lo contattasse per chiedergli una cosa del genere?». Come aveva iniziato quella telefonata? “Ciao papà, sono Trevor, ricordi il figlio che hai abbandonato quando aveva quattro anni? Volevo solo chiederti se potevo trasferirmi a casa tua?”.
«Beh immagino di sì», ammise. Non fece a tempo ad aggiungere altro perché la cameriera arrivò con i nostri piatti. Per un po’ mangiammo in silenzio, ma io avevo ancora un milione di domande.
«E ti trovi bene con il signor Simons?», chiesi mandando giù un morso del panino.
«Direi di sì. Non è facile ricucire i rapporti con mio padre, però sua moglie sembra una donna per bene ed ho una sorellina, Linda. Ha otto anni ed è una bambina sveglia e simpatica». Notai un piccolo sorriso comparire sul suo volto mentre parlava della sorella; era una cosa tenera e mi ricordò involontariamente Jamie.
«E tu? Vai d’accordo con tua sorella?». Addentò il suo panino, non staccando lo sguardo da me.
«Sì, più o meno. Non è sempre facile; il confronto pesa quando hai una sorella perfetta in tutto e per tutto». Competere con Queen era pressoché impossibile.
«Secondo me lei non è poi così perfetta».
«Non la conosci neanche», gli feci notare. «Ti posso garantire che lei riesce ad eccellere in qualsiasi cosa che fa».
«Beh io rimango della mia opinione. Non ho mai avuto molta simpatia per le cheerleader, ho sempre preferito le ragazze dall’aria più intellettuale». Arrossì di nuovo perché era evidente che stesse in qualche modo flirtando con me. Ed io non c’ero proprio abituata.
«Grazie», sussurrai affrettandomi a cambiare argomento. «E di tua madre invece cosa mi dici? Non credo che sia stata contenta del tuo trasferimento».
Vidi la sua mascella contrarsi e la sua bocca assottigliarsi in una linea rigida. «Mia madre è rimasta a Boston con il suo compagno. È una brava madre anche se ha preso un bel po’ di decisioni sbagliate». Non aggiunse altro, ma era evidente che fosse accaduto qualcosa tra loro, qualcosa che magari l’aveva spinto a trasferirsi. Forse non andava d’accordo col suo patrigno, capitava spesso; eppure dalla sua espressione sembrava trattarsi di qualcosa di più serio.
Trevor ingurgitò il suo panino e si affrettò a cambiare completamente argomento. «Quindi se ho capito bene sei una di quelle ragazze che ha già tutto programmato. Scommetto che in camera hai il poster con il logo di qualche college dell’Ivy League, tipo Harvard o Yale, e direi che in questi cinque anni non hai fatto altro che accumulare una media altissima per essere ammessa. Una volta là, poi frequenterai lettere con l’intento di diventare una giornalista oppure osando di più una vera e propria scrittrice». Non poteva essere più lontano della verità.
«Non andrò al college», risposi senza pensarci. «Al massimo andrò all’Università pubblica qua vicino». Era la prima volta che lo dicevo a qualcuno, in realtà era anche la prima volta che lo ammettevo ad alta voce. Non avrei dovuto dirlo, ma avevo come la netta impressione che avrei potuto fidarmi di Trevor almeno su quel punto.
Lui sbatté le palpebre sorpreso da quella mia risposta, per una volta a corto di parole. Per questo ne approfittai per cambiare di nuovo argomento. «Hai sprecato la tua domanda, adesso tocca a me. Quanti tatuaggi hai? Hanno tutti un significato particolare?».
Trevor sbuffò ma capì di non dover insistere. «Parecchi», rispose passandosi inconsciamente una mano sul braccio. «Non tutti hanno un significato, alcuni mi piacevano e basta. Altri invece hanno una storia dietro, un giorno magari te la racconterò. E tu, hai tatuaggi nascosti?».
Gli fui grata della domanda: semplice e senza complicazioni. «No, è già tanto se ho il buco alle orecchie».
Continuammo così finendo di mangiare, ordinando il dolce, e ponendoci domande più semplici a cui era facile rispondere, come la musica, i film, i libri. Scoprii che Trevor amava la musica rock anche un po’ datata, che il suo libro preferito era “La fattoria degli animali” di Orwell, che la sua passione erano le macchine e i motori in generale. Aveva lavorato in un’officina qualche anno prima e, anche se non l’aveva detto apertamente, capii che avrebbe voluto lavorarci di nuovo un giorno.
Quando lo riaccompagnai a casa – dopo averlo convinto con una certa insistenza – mi resi conto che buona parte del pomeriggio era trascorsa; era volata senza neanche accorgermene. Ero stata così bene in sua compagnia che il tempo era passato in un soffio.
«Grazie del passaggio Kathleen», mormorò prima di scendere dall’auto. Senza che me l’aspettassi si avvicinò e mi dette un bacio sulla guancia. «Ci vediamo lunedì». Scese dalla macchina e percorse il vialetto di casa sua senza voltarsi indietro, mentre io con la mano toccavo il punto in cui aveva posato le sue labbra. Riuscivo a percepirne ancora il calore e la consistenza e dubitavo che avrei smesso di sentire quelle sensazioni molto presto.
  
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