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Autore: Gatto1967    10/12/2017    2 recensioni
Ricordate la festa a casa Andrew in cui Candy fece il suo “debutto in società” ballando con Anthony Archie e Stear? (puntata 9 dell’Anime) Prima che iniziasse il ballo i tre ragazzi raccontano per scherzo che la villa degli Andrew è infestata da un fantasma.
E… se non fosse stato uno scherzo? Se la magione degli Andrew fosse stata VERAMENTE infestata da un fantasma?
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Disclaimer: questa storia è una fan-fic che riprende l'opera originale di Kyoko Mizuki, i cui diritti d'autore sono detenuti da autrice e casa editrice. Non ho diritti sui personaggi ne tanto meno sulla storia originale che vado a modificare. Non c'è scopo di lucro in questa mia storia, per tanto non lede ai diritti d'autore.
 


IL FANTASMA DI CASA ANDREW
 
1.
Candy urlava terrorizzata. I fratelli Legan gli avevano giocato l’ennesima cattiveria rinchiudendola in quella stanza abbandonata al buio.
Suggestionata dal racconto di Archie, Stear ed Antony, credeva di vedere fantasmi e creature mostruose nelle ombre che gli alberi proiettavano nella stanza e negli oggetti inanimati accatastati nella stanza stessa.
Finalmente riuscì ad aprire la porta e cominciò a correre nel corridoio pieno delle statue di cera che raffiguravano gli antenati degli Andrew.
Dal fondo del corridoio una figura mostruosa correva a grandi passi verso di lei. Era troppo per la sua fantasia di bambina e lei perdette i sensi.
- Candy!- si sentì chiamare. – Candy!- aprì gli occhi e riconobbe Antony, quel volto così uguale a quello del principe della collina.
- I fantasmi…-
- Che cosa?-
- Ci sono i fantasmi…-
- I fantasmi non esistono. Dai, vieni con me.-
Candy seguì Antony incamminandosi lungo il corridoio. Assorti nei loro pensieri i due ragazzi non si avvidero che gli occhi di una delle statue brillavano nel buio.
 
Nella stanza di Archie Candy indossò il vestito che Archie e Stear gli avevano preparato, poi la festa, il ballo, la magnifica serata trascorsa davanti agli occhi inviperiti della signora Legan e dei suoi figli avevano cancellato dalla mente di Candy quello che aveva creduto di vedere nella stanza abbandonata della grande villa degli Andrew.
 
2.
Un anno dopo…
 
Candy era arrivata da poco a casa Andrew e la zia Elroy gli aveva da poco concesso di chiamarla “zia”.
Quando il signor William Andrew l’aveva adottata Candy aveva creduto di toccare il cielo con un dito, tale era stata la sua felicità. Non sarebbe più stata una sguattera vessata e maltrattata per i capricci di due rampolli viziati. Da quel momento in poi era la figlia degli Andrew. Avrebbe vissuto sempre con Anthony.
Poi la sua nuova felicità aveva mostrato il suo rovescio.
La sua cara amica Dorothy la trattava con distacco e reverenza, per timore di essere licenziata.
Non era più libera di vagabondare come piaceva a lei.
Doveva chiedere il permesso per ogni cosa e non poteva neanche vestirsi o spogliarsi da sola, pena il licenziamento di Dorothy.
Non era tanto sicura che quella vita da ricchi facesse per lei, ma ormai era in ballo e doveva ballare.
Anthony era stato confinato per punizione nella casa nel bosco vicino alla cascata, la stessa casa dove aveva conosciuto il suo amico Albert insieme ai suoi animali, e lei si sentiva triste. Possibile che la ricchezza stridesse con la libertà?
Possibile che adesso non potesse essere più amica di una persona dolce come Dorothy?
Mentre era afflitta da questi tristi pensieri passò vicino alla scala che conduceva all’ultimo piano. Ricordava bene la stanza in fondo al corridoio, quella dove Neal e Iriza l’avevano rinchiusa nel tentativo di estrometterla dal ballo di un anno prima. Ripensò alla paura che si era presa quando, vittima della suggestione, aveva creduto di vedere i fantasmi. In realtà erano solo ombre deformate dai giochi di luce della luna che entrava dalla finestra, ma lei si era presa lo stesso una bella paura. Poco prima Anthony, Archie e Stear l’avevano benevolmente presa in giro con quella storia del fantasma di casa Andrew e lei ci aveva creduto.
Sorrise al ricordo, gli avevano fatto uno scherzo d’accordo, ma non era certo uno degli scherzi cattivi a cui la sottoponevano i due Legan.
Decise di salire la scala: da quella notte non era mai più salita all’ultimo piano e a pensarci bene non aveva più visto nessuno salirci.
In cima alla rampa rivide le statue di cera degli antenati degli Andrew. Anche in pieno giorno mettevano paura a vederle. Quelle espressioni austere, quei volti immobilizzati nella cera, quelle facce così truci, non mancarono di impressionarla.
In particolare una statua gli mise un sacro timore addosso: raffigurava un uomo con barba e capelli lunghi. Aveva un’espressione terribile sul volto, la stessa espressione che aveva la zia Elroy quando la sgridava e gli ricordava che adesso faceva parte della famiglia Andrew.
Quella faccia gli ricordava qualcuno, ma non avrebbe saputo ben dire chi. Senza sapere perché si ritrovò ad associare quel volto a un orso.
Lesse l’iscrizione alla base della statua:
- William Wallace Mc Andrew. 1700 – 1747.-
Ricordò che Anthony gliene aveva parlato. Si trattava del capostipite degli Andrew giunto dalla Scozia intorno al 1720, quasi due secoli addietro. William Wallace Mc Andrew aveva lasciato la Scozia in seguito a dissidi con il governo inglese e aveva fatto fortuna in quella nuova terra. Intorno al 1745 aveva costruito la villa dove ora si trovava ed era morto due anni dopo in circostanze misteriose.
Candy non poté fare a meno di pensare che aveva una gran brutta faccia, poi riprese a muoversi senza avvedersi che gli occhi della statua seguivano il suo cammino.
 
3.
In fondo al corridoio c’era la stanza in cui era stata rinchiusa. Se ben ricordava doveva essere una specie di ripostiglio. Anthony gli aveva detto che la zia Elroy gli aveva sempre proibito di entrarci e lui non capiva perché.
Candy si avvicinò alla porta e man mano che si avvicinava si sentiva inquieta.
Giunta davanti alla porta prese un bel respiro e l’aprì.
Dietro la porta c’era una stanza piena di polvere e di vari oggetti abbandonati. Niente di particolarmente spettrale o sinistro, ma Candy si sentiva lo stesso molto inquieta.
Entrò nella stanza per curiosare un po’ e aprì un vecchio cassone impolverato.
Dentro c’erano gli oggetti più disparati. Un vecchio orologio da taschino rotto da chissà quanto tempo, un cappello fatto con la pelle di un castoro, coda compresa. Oggetti che si trovavano lì da chissà quanto tempo e che non mancavano di incuriosirla.
- Accidenti, che coltellaccio!- esclamò la bambina prendendo un coltello da trapper dentro la sua fodera impolverata.
Sulla fodera c’era scritto “W.W.Mc Andrew”
- Doveva appartenere al tizio della statua. Chissà perché questi oggetti sono stati lasciati qui. Dovrebbero avere un bel valore!-
in fondo al baule trovò qualcosa che la incuriosì: era un diario, un vecchio diario impolverato abbandonato lì da chissà quanto tempo.
Lo aprì e lesse la data riportata sulla prima pagina “18 settembre 1747”
- Caspiterina! Un diario del 1747! Lo porterò con me e lo leggerò. Almeno questo me lo lasceranno fare!-
All’improvviso la porta sbatté e si chiuse facendo prendere un bello spavento a Candy.
- Dev’essere stata la corrente!- disse Candy alzandosi con il librone sotto braccio.
Cercò di aprire la porta, ma non ci riuscì.
- Oh no! E adesso che faccio? Se chiamo aiuto, la zia Elroy saprà che sono entrata qui dentro e mi punirà!-
Andò alla finestra. Era troppo in alto perché potesse pensare di saltare e in giardino non c’era nessuno in quel momento.
Fra poco sarebbe stata ora di pranzo e qualcuno sarebbe venuto a cercarla. Si sedette sconsolata sul pavimento: si era messa proprio in un bel guaio!
- Pazienza. Mettiamoci a leggere questo diario, al resto ci penserò dopo.-
 
4.
18 settembre 1747.
Io William Wallace Mac Andrew scrivo in questo diario le vicende che mi hanno portato in questa terra d’America dalla mia natia Scozia.
In questo grande, sconfinato paese ho fatto fortuna e oggi dopo tanti anni dal mio arrivo in questa terra, dopo aver considerato la povertà come la peggiore delle disgrazie, mi trovo a capire che non è così.
Oggi, dopo aver costruito questa immensa casa simile ad un castello della mia lontana Scozia, mi trovo a desiderare la morte più d’ogni altra cosa.
Sono nato in un villaggio delle Highlands scozzesi e anche se tutti credono che la mia famiglia fosse di nobile lignaggio in realtà era una famiglia di poveri contadini.
I miei genitori erano persone buone, che facevano coscienziosamente il loro lavoro per i Signori della zona e che non facevano mancare niente a me e a mia sorella Elroy, di un anno più piccola di me.
I signori per cui lavoravano i miei genitori erano persone buone, che amavano sinceramente i loro fittavoli, purtroppo non si poteva dire altrettanto del loro figlio maggiore Robert.  Costui era un prepotente della peggior specie che umiliava e tiranneggiava coloro che lavoravano per lui, nonostante i richiami e i rimproveri di suo padre. In particolare dava fastidio alle figlie dei contadini.
 
- Mi ricorda qualcuno.- mugugnò Candy pensando ai Legan.
 
Accadde un giorno che il giovane Robert mise gli occhi su mia sorella Elroy, che aveva soltanto sedici anni ed era una bellissima ragazza. Vi risparmierò i dettagli ma basti sapere che un brutto giorno sorpresi Robert che infastidiva Elroy nelle stalle e lo affrontai.
Ne nacque una lite e venimmo alle mani. Robert cadde e batté la testa. Subito io e Elroy ci chinammo su di lui per soccorrerlo ma ci accorgemmo che era morto!
 
- Accidenti! Che storia!- la piccola Candy sembrava appassionarsi a quello che sembrava un romanzo d’avventure.
 
Eravamo sconvolti! Certo non per quel prepotente arrogante, ma per quello che la sua morte avrebbe significato per noi. Era stato un incidente ma non potevamo dimostrarlo in nessun modo e per noi sarebbe stata la fine.
Istantaneamente presi una decisione: dovevamo fuggire. Dovevo portare Elroy in salvo!
 
Lì finiva il resoconto del 18 settembre e in quel mentre Candy sentì dei passi venire dal corridoio.
La porta si aprì all’improvviso e sulla soglia APPARVE LA STATUA DI WILLIAM WALLACE MAC ANDREW!
Fu come se il cuore di Candy si fermasse e la bambina senza emettere un suono perse i sensi e cadde a terra.
 
5.
- Candy!  Candy!-
Stear scosse Candy per le spalle e finalmente lei riprese i sensi.
Riconobbe la voce e i lineamenti dell’amico che prendevano forma da una specie di nebbia indistinta davanti ai suoi occhi, e si tranquillizzò.
- Stear…-
- Candy! Che ci facevi qui dentro? Ti stiamo cercando da una mezz’ora. La zia Elroy, tanto per cambiare, è furiosa. Non ti sei presentata a pranzo!-
- La statua…-
- La statua? Quale statua?-
- La statua di William Wallace, il capostipite degli Andrew!-
Stear non capiva, che stava dicendo Candy?
- è… qui fuoti. Insieme alle altre statue, ma non capisco: cos’ha quella statua?-
- Era qui! È entrata nella stanza!-
- Candy, che stai dicendo? Le statue non entrano nelle stanze!-
- Questa l’ha fatto! Ha spalancato la porta ed è entrata nella stanza!-
Stear la prese per mano.
- Candy, vieni con me.-
La condusse fuori dalla stanza nel corridoio delle statue.
- Eccola, la vedi?-
- Candy guardò bene la statua. Non aveva dubbi: quella era la statua che aveva visto entrare nella stanza, ma adesso era lì, davanti a lei, immobile come tutte le statue del mondo.
- Stear, so che mi prenderai per pazza, ma poco fa quella statua ha aperto la porta di quella stanza ed è entrata!-
-…e tu, che hai fatto?-
- Sono… svenuta.-
- Candy, guardala: è solo una statua di cera! Non può camminare e aprire una porta.-
Candy suo malgrado, dovette ammettere che Stear aveva ragione. Ma allora chi o che cosa aveva aperto quella porta? Perché lei non era riuscita ad aprirla?
Poi ripensò al diario che stava leggendo e riconobbe che forse la suggestione gli aveva giocato un brutto scherzo.
Casualmente l’occhio le cadde sull’iscrizione della statua vicina. “Albert Andrew”.
- Chi è costui?- chiese a Stear
- è il figlio di William Wallace Mac Andrew. Fu colui che cambiò il cognome della famiglia in Andrew. Nessuno ha mai ben capito il perché.
Dai Candy, andiamo sennò chi la sente la zia Elroy?-
Così Candy seguì Stear lungo il corridoio ripromettendosi di non salire mai più quelle scale.
 
6.
Qualche mese dopo.
Anthony era contento e soddisfatto: dopo tante peripezie e tanta fatica la sua Candy era ormai una Andrew a tutti gli effetti. Il giorno dopo, prima della caccia alla volpe, sarebbe stata presentata a tutta la famiglia come la figlia adottiva dello zio William. Guardò oltre il cancello delle rose e ripensò al loro primo incontro oltre un anno fa. Lei piangeva disperata per le continue angherie a cui la sottoponevano Neal e Iriza, e lui cercò di consolarla di farla ridere un po’.
Poi da dentro la villa qualcuno l’aveva chiamato e lui dovette andarsene.
Ma che cos’era quel sentimento che li univa? Amore? Amicizia? O altro? C’era ancora tempo per capirlo anche se spesso la sua mente si lasciava andare a voli di fantasia sull’argomento.
Ripensò alle parole di Candy su quello che lei chiamava “il Principe della collina”, “Vi somigliate moltissimo” aveva detto la sua piccola amica,
Chi poteva essere?
Lui non aveva fratelli, possibile  he qualcuno fra gli Andrew gli somigliasse così tanto?
Un ricordo gli si affacciò alla mente: lui bambino che correva in mezzo ai prati intorno a Laporte, sua madre Rose che lo chiamava e lui che continuava a correre.
Poi lui inciampava a terra e iniziava a piangere, sua madre lo raggiungeva e qualcuno stava dietro di lei. Era un bambino, non troppo più grande di lui e sentiva sua madre che lo chiamava… ma qual era il nome di quel bambino? Chi era quel bambino?
Uscì dalla sua stanza e si diresse verso la scalinata che portava al terzo piano, quello delle statue di cera, dove Neal e Iriza si erano divertiti a giocare a Candy quel brutto scherzo.
Attraversò il corridoio delle statue e dovette riconoscere che quelle brutte facce di cera erano davvero inquietanti.
Si fermò davanti alle statue di William Wallace Mac Andrew e di suo figlio Albert, colui che aveva cambiato il cognome della famiglia da Mac  Andrew ad Andrew. Perché lo aveva fatto? Per americanizzare la famiglia certo, ma forse c’era dell’altro.
Guardando le facce di William Wallace e di Albert Andrew Anthony ebbe la sensazione di aver capito qualcosa. In particolare gli risuonarono in testa le parole di Candy su un orso…
 
7.
Tanti anni prima.
William ed Elroy videro la terraferma all’orizzonte. Quella era l’America. La terra promessa, dove finalmente sarebbero stati liberi e al sicuro. In Scozia li aspettava il capestro per la morte di quel nobile arrogante ma lì avrebbero potuto ricominciare daccapo.
Fratello e sorella si strinsero la mano sorridendo: il lungo viaggio era finito.
 
8.
William Albert Andrew si fermò davanti alle statue dei due antenati di cui portava i nomi: William Wallace e Albert.
I volti delle due statue di cera somigliavano al suo in modo impressionante. William Wallace era il suo ritratto di quando portava la barba e la statua di Albert Andrew sembrava la sua statua.
Conosceva la storia di quei lontani antenati, ricordava quasi parola per parola il diario iniziato da William Wallace e terminato da Albert a distanza di tanti anni. Quella lettura l’aveva segnato: le esperienze terribili passate da William Wallace non giustificavano nemmeno un po’ le sue azioni, e per questo lui si era sempre sentito molto più vicino ad Albert Andrew. Il nome William, che pure era stato il nome di suo padre, gli pesava parecchio. Aveva sempre preferito presentarsi come Albert.
Aveva recuperato da poco tempo la memoria, compresa la memoria di quel diario e delle terribili rivelazioni contenute in esso.
Chiuse gli occhi e con la mente gli sembrò quasi di vivere quelle vicende tanto lontane nel tempo.
 
9.
Tanti anni prima.
Inutile.
Fuggire dalla Scozia, imbarcarsi su quella nave diretta in America, attraversare l’Oceano. Tutto inutile.
Elroy era morta. Uccisa in quel modo orribile… Violata, violentata e infine vilmente assassinata da quei delinquenti di mezza tacca, da quei volgari borsaioli incontrati nelle strade di Boston. Lui si era salvato solo perché quei delinquenti dovevano averlo creduto morto dopo averlo accoltellato al petto, ma il colpo era stato deviato da una costola e lui aveva semplicemente perso i sensi.
Quando era rinvenuto era già scesa la notte e accanto a lui c’era il cadavere orribilmente straziato di Elroy, di quella sorella per cui aveva attraversato l’Oceano.
Inutilmente.
Aveva gridato alla luna e alle stelle il suo strazio e la sua disperazione, era stato soccorso da alcuni passanti. E fu come se il mondo intero gli fosse crollato addosso.
Cosa avrebbe fatto ora?
Per cosa, per chi avrebbe vissuto da quel momento in poi?
Per cercare di dimenticare, di ricominciare a vivere, era fuggito all’ovest, si era messo a fare il trapper nei pressi del lago Michigan, ma il dolore era sempre con lui. Neanche l’incanto di quei posti meravigliosi era riuscito a cancellare dalla sua mente quella brutta parola: Inutile.
 
 
10.       
Camminava da diverse ore nel folto di quella foresta finché decise di fermarsi. Era troppo stanco e doveva riposare.
Si sedette sul tronco di un albero morto caduto a terra da chissà quanti anni e riprese fiato.
Dai giorni terribili seguiti alla morte di Elroy erano passati alcuni anni e William era diventato un uomo di mezza età indurito nel volto e nel cuore.
Una folta barba bionda gli copriva la faccia e i lunghi capelli, anch’essi biondi, gli scendevano sulle spalle e sulla schiena. La sua vita era quella di un animale da preda: inseguire e uccidere.
Poi raccoglieva le pelli, macellava le carni e proseguiva oltre.
Non c’era altro nella sua vita , raggiunta e uccisa una preda cominciava un altro inseguimento.
A volte gli sembrava di sentire nostalgia per un tempo diverso, quando nella sua vita c’era spazio per altre cose: l’amicizia, l’amore, il contatto con i suoi simili.
Vicino al tronco dove si era seduto scorreva un ruscello e lui aveva sete. Si chinò a dissetarsi e nel farlo notò uno strano riflesso nell’acqua. Rimase interdetto per qualche secondo, poi mise una mano nell’acqua a raccogliere la sabbia sul fondo del ruscello.
Una strana espressione si dipinse sul volto: prima di sconcerto e poi di compiacimento. Mescolate alla sabbia del torrente c’erano pagliuzze d’oro.
Oro. Quella parola poteva cambiare la sua vita.
Un rumore dietro di lui, un rumore di rami spostati e poi da quei rami si materializzò una figura umana: una bambina, una bambina indiana.
I grandi occhi della piccola guardarono terrorizzati quell’uomo: probabilmente non aveva mai visto un uomo bianco con barba e capelli di quei colori così strani. La bambina gridò e William ebbe una reazione tanto istintiva quanto assurda: sparò alla bambina.
La piccola cadde a terra esanime, senza un grido. E dalla stessa direzione da dove era venuta emerse una giovane donna, probabilmente sua madre.
William sparò di nuovo e la donna colpita a morte cadde proprio vicino al cadavere della bambina. Era ancora viva e rivolse uno sguardo terribile a William gridando parole che lui non comprendeva. Poi morì.
William ebbe un attimo di sconcerto, poi sentendo altri rumori provenire dalla stessa direzione fuggì via.
 
11.
Albert aveva ricostruito mille volte quella scena nella sua mente. William Wallace Mac Andrew l’aveva descritta nel suo diario in un modo tanto vivido e preciso da dare l’impressione di esserci dentro. In particolare parlava della donna, che prima di morire gli avrebbe lanciato una maledizione.
Parole da pazzo esaltato. Molto probabilmente la mente di quell’uomo cominciava a vacillare. Quella povera donna lo stava si maledicendo, ma non nel senso che pensava lui.
William raccontava poi quello che era successo dopo. Determinato a mettere le mani su quell’oro aveva convinto altri trapper come lui a cacciare via quella piccola innocua comunità di indiani dal loro villaggio vicino al torrente che gli interessava e una volta compiuta quell’infamia, senza dire niente agli uomini che l’avevano aiutato in quell’impresa, si era impossessato di tanto oro quanto bastava a cambiare la sua vita.
William costruì la casa dove Albert si trovava in quel momento, vicino al villaggio di quei poveri indiani, si sposò ed ebbe un figlio, Albert.
Poi nel 1847, lo stesso anno in cui scrisse quel diario, William morì in circostanze mai del tutto chiarite. Il suo cadavere venne trovato nella sua stanza al terzo piano della villa, la stanza in fondo al corridoio delle statue di cera, la stanza che poi era stata abbandonata e trasformata in un ripostiglio.
Negli anni successivi più d’uno giurò di aver sentito rumori strani provenire da quella stanza ma naturalmente erano solo dicerie.
Più d’una volta Albert era entrato nella stanza al terzo piano, nonostante le proibizioni di sua madre prima e di sua sorella e di sua zia poi. Avevano paura che potesse farsi male, ma lui era affascinato da quella stanza e dal materiale che vi si trovava.
Un giorno poi, avrà avuto si e no dieci anni, aveva trovato il diario di William Wallace Mac Andrew e lo aveva letto tutto d’un fiato. Il patriarca della sua famiglia lo aveva scritto in dieci giorni, dal 18 al 28 settembre 1747 e il 29 fu trovato morto nella sua stanza, si diceva con gli occhi sbarrati a dismisura, come se avesse visto qualcosa di orribile.
Albert non credeva a presunte maledizioni indiane, non credeva ai rumori provenienti dalla stanza o alle luci che si accendono e spengono all’improvviso. Credeva piuttosto alla cattiva coscienza degli Andrew. Una famiglia la cui ricchezza e il cui prestigio erano nati da un’infamia, dal sangue di una bambina innocente.
Sentì il rumore di un’automobile che entrava nel giardino della villa. Scese le scale e si sporse da una finestra. Era George e con lui c’era Candy. Che diavolo ci faceva Candy a Lakewood? Quale che fosse il motivo, il momento della verità era arrivato.
 
12.
Estate 1974. Lakewood.
La piccola Candy scese dalla macchina dei suoi genitori con un salto e ignorando i richiami di sua madre Patty si diresse di corsa verso la porta della grande villa dove la sua omonima nonna viveva in solitudine.
L’anziana Candy si affacciò dalla finestra della sua stanza e subito bofonchiò con la sua giovane cameriera e governante Sarah.
- Mia figlia si è degnata di venirmi a trovare!-
Sarah sospirò. Era abituata ai mugugni di quella vecchia brontolona.
- è ingiusta signora. Sua figlia le telefona tutti i giorni e ogni volta insiste perché vada a vivere con lei a Chicago.-
- Non lascerò mai questa casa!-
Con l’età la vecchia Candy si era fatta acida e brontolona, ma in realtà era solo tanto malata di nostalgia. La sua infanzia e adolescenza erano state difficili ma anche piene di momenti belli e adesso che l’età incombeva lei si crogiolava nei ricordi, quelli belli e quelli tristi.
Scese incontro alla sua nipotina che le correva incontro sorridente e gioiosa. Ogni volta che vedeva quella bambina il cuore le sussultava nel petto: era il suo ritratto di quando aveva la sua età. Persino i codini tenuti insieme dai nastri rossi, proprio come aveva avuto sempre lei.
Inoltre era un piccolo diavolo scatenato, proprio come era stata lei. Un’altra futura signorina Tarzan Tutta Lentiggini?
Tanto fu calorosa con la piccola Candy, quanto fu fredda e distante con sua figlia e il marito.
- Ciao mamma. Come stai?-
- Non lo vedi da te? E tua sorella? Sono secoli che non la vedo-
- Mamma, Annie vive in Alaska. Non è semplice per lei venire fino a qui. Cerca di capire.-
- Già. Da quando il tuo povero papà è morto voi ve ne fregate di me!-
- Adesso basta!- Patty aveva sbottato. – Sono anni che da te non prendo altro che rimbrotti e cattiverie! Sono anni che tutte e due ti diciamo di venire a stare con noi e tu rifiuti! Che cosa accidenti vuoi? Si può sapere?!!!-
La vecchia Candy non rispose. Dentro di sé sapeva che la figlia aveva ragione.
- Vado su a riposarmi. Ci penserà Sarah ad aiutarvi a sistemare le vostre cose.-
Ciò detto salì le scale mentre Sarah, con aria evidentemente contrariata si avvicinava a Patty.
- Non se la prenda signora. Sa come è fatta sua madre.-
- Ti faranno santa, Sarah!-
- In genere non fa così, ma credo che stanotte abbia fatto brutti sogni. Ogni tanto le capita e allora è cupa e scontrosa per tutto il giorno. Venite, vi aiuto a sistemarvi nella vostra stanza.-
- Mamma, posso andare a giocare in giardino?-  chiese la piccola Candy.
- Sì, vai pure. Ma non allontanarti, capito?-
Candy non se lo fece ripetere due volte e corse via in quel giardino che tanto adorava. Così come era stato per sua nonna e per sua madre, quel giardino era legato ad alcuni dei ricordi più belli della bambina.
Nella sua stanza la vecchia Candy stava sul letto avvilita e pentita. Aveva trattato malissimo sua figlia, che pure la adorava. Avevano ragione lei e Annie: era diventata una vecchia brontolona ed egoista e non gli piaceva essere così.
 
13.
Quella notte la piccola Candy non riusciva a dormire. Tanta era stata l’eccitazione della vacanza, del viaggio e del rivedere la sua adorata nonna che non riusciva a chiudere occhio. Nella sua stanza personale alla villa, accanto alla stanza dove dormivano i suoi genitori, la bambina stava con gli occhi spalancati a rimirare il soffitto illuminato a strisce dalla luce della luna che filtrava attraverso i rami degli alberi fin dentro la stanza.
Il silenzio intorno a lei le suggeriva che nella grande villa tutti dormivano, e allora decise di dedicarsi al suo gioco preferito lì a Lakewood: girare di notte per la grande villa.
Scese dal letto e si diresse verso la porta. Al buio la sua vista era pari a quella di un gatto.
Aprì la porta e si incamminò lungo il corridoio che costeggiava la villa al secondo piano finché arrivò vicino ad una scalinata che portava al terzo ed ultimo piano della villa. L’anno precedente sua nonna e sua madre gli avevano raccomandato di non salire mai al terzo piano e lei aveva obbedito.
Ora però cominciava a rivelarsi il suo temperato ribelle e insofferente alle regole e alle costrizioni, così cominciò a guardare quelle scale che si perdevano nel buio e ne fu incuriosita. Non era una bambina paurosa, anzi, era una fan dei film dell’orrore che invece, tanto spaventavano sua madre.
In più avvertiva come l’impulso a rispondere a un richiamo, così iniziò a salire le scale, lentamente, un gradino dopo l’altro.
Arrivata in cima alla scala vide sulla sua destra il corridoio delle statue di cera. Aveva con sé una piccola torcia a batterie e la accese. A vedere i volti immobili delle statue ebbe un moto di paura e si portò le mani alla bocca lasciando cadere la torcia.
Poi si tranquillizzò e, raccolta la torcia, proseguì lungo il corridoio fino ad arrivare alle statue di William e Albert. Padre e figlio ritratti fianco a fianco. Si chinò a leggere le iscrizioni alla base delle statue senza accorgersi che la statua di William iniziava a muoversi!
- Candy!-
A sentire la voce della nonna la piccola ebbe un sussulto.
La vecchia Candy si avvicinò a sua nipote con piglio accigliato e severo. Candy non l’aveva mai vista così!
- Cosa stai facendo qui?! Ti avevo vietato di salire al terzo piano ricordi?! Perché mi hai disobbedito?!-
Al rimprovero piccato della nonna, la piccola Candy si portò le mani agli occhi e cominciò a piangere.
- Mi dispiace nonna… io….-
Al che la vecchia Candy si rese conto di essere stata troppo severa e si chinò sulla bambina abbracciandola.
- Scusami piccola. Non volevo alzare la voce con te. Ne ho fatte tante io di birichinate quando avevo la tua età… è solo che… qui è pericoloso e potresti farti male, mi capisci?-
la piccola smise di piangere e assentì alla nonna.
- Non lo faccio più nonna, promesso.-
- Adesso torna in camera tua. Qui ho da fare qualcosa.-
Una volta che la bambina ebbe scese le scale Candy si voltò verso la statua di William Wallace e la guardò con piglio ancora più accigliato e severo.
- Lascia stare mia nipote!-
 
14.
Patty salì le scale decisa a cantargliene quattro a quella vecchia arpia di sua madre: far piangere la nipotina! Questo era troppo anche per lei!
Arrivata in cima alla scala sentì la voce di sua madre che parlava concitata.
“Con chi diavolo sta parlando quella vecchiaccia?”  pensò. Poi si avvide che sua madre stava parlando con le statue di cera e provò una stretta al cuore.
A passi lenti avanzò verso di lei cominciando a piangere. Possibile che la sua vecchia madre stesse già dando di testa? Non era così vecchia!
- M-mamma? Che stai facendo?-
Candy si girò verso la figlia e Patty la sentì parlare con tanta gentilezza come non la sentiva da anni ormai.
- Bambina mia…- le disse abbracciandola – devo chiederti scusa. Sono stata orribile con te e con tua sorella. Non volevo, credimi…-
Che stava succedendo? Pensò Patty mentre ricambiava l’abbraccio di sua madre.
- Non  succederà più promesso. E sai una cosa? Credo proprio che verrò a Chicago con te, e accetterò anche l’invito di tua sorella Annie ad andare da lei ogni tanto. Non so quanto mi rimane da vivere e voglio godermi le mie figlie e le loro meravigliose famiglie.-
Patty era stupefatta. Pianse mentre abbracciava sua madre.
 
15.
Estate 2000.
Candy salì le scale che portavano al terzo piano, quello con il corridoio delle statue di cera. Le statue erano state rimosse da tanti anni ormai, ci aveva pensato sua nonna. Dopo essersi trasferita a Chicago, l’estate successiva era voluta tornare a Lakewood e aveva provveduto a ripulire il terzo piano che giaceva abbandonato da troppi anni.
Le statue erano state donate a un museo e la stanza in fondo al corridoio era stata ripulita e messa a posto.
Candy si dilettava di pittura e quella stanza era stata trasformata in una sorta di atelier.
Aprì la porta e vi entrò. Tutto era come l’aveva lasciato lei l’estate precedente. Compreso la libreria che aveva fatto mettere sua nonna.
Il diario era sempre lì. Quel diario iniziato tanti anni prima da William Wallace Mac Andrew e continuato da suo figlio Albert Andrew fino ad arrivare a quella pagina finale scritta da sua nonna, dalla sua dolce nonna che si chiamava come lei e che tante peripezie aveva vissuto nella sua travagliata vita.
William Wallace aveva scritto i motivi del suo tormento interiore, dei suoi rimorsi di coscienza.
Albert aveva spiegato la sua decisione di cambiare nome alla famiglia, come a voler dare un taglio alle terribili azioni commesse da suo padre.
E Candy, la sua dolce nonna Candy…
 
“10 luglio 1975.
Sono tornata in questa casa, con l’intenzione di mettere fine a tutto. Il fantasma di William Wallace non si è manifestato e non credo che lo farà mai più.
Lui non voleva spaventare nessuno, non voleva essere lo spettro di questa casa. L’unica maledizione che lo aveva colpito era quella che lui stesso si era lanciato da solo.
I suoi rimorsi, il ricordo terribile di quando aveva ucciso quella bambina e scacciato la sua gente da queste terre. Questo lo tratteneva su questa terra e in questa casa costruita sul sangue di quella gente.
Quella volta che lo vidi entrare nella stanza mentre leggevo il suo diario non voleva farmi del male. Per qualche motivo la sua coscienza tormentata vedeva in me la reincarnazione di quella bambina.
Lui cercava solo perdono, espiazione. E forse adesso ha trovato quello che cercava. Forse adesso il suo spirito si è riconciliato con le sue vittime.
Dopo il mio matrimonio passai lunghi periodi in questa casa e una sera incuriosita, volli salire al terzo piano. Fu allora che vidi la statua di William Wallace Mac Andrew muoversi.
Per poco non mi prese un accidente, ma poi vidi la statua inginocchiarsi davanti a me e chiedermi perdono.
- Perdono di cosa?- chiesi io
- Il mio… diario…-
ricordai quel vecchio diario nel baule ed entrai nella stanza per recuperarlo. Lo lessi tutto d’un fiato e ne rimasi sconvolta. Se non avevo avuto un’allucinazione quella specie di fantasma era ancora lì fuori. Uscii dalla stanza e la statua era di nuovo al suo posto, dritta e immobile come doveva essere.
- Il perdono che cerchi non posso dartelo io William Wallace. Quella bambina e la sua gente ti avranno anche perdonato, ma adesso devi perdonarti da solo.-
Negli anni successivi lo spirito di William Wallace si manifestò più volte, sempre nello stesso modo: qualche movimento, qualche parola smozzicata, niente più. Il terribile fantasma di casa Andrew era solo la manifestazione di rimorsi mai sopiti.
Quando lo vidi la scorsa estate che tentava di manifestarsi alla piccola Candy andai su tutte le furie, al punto di far piangere la mia adorata nipotina.
Adesso continuo a pregare per la sua anima e spero che questo gli dia la pace.
 
Candice White Andrew 18 luglio 1975”
 
Candy pianse. Lo faceva ogni volta che rileggeva quelle righe.
Passò davanti ad un ritratto di sua nonna quando aveva la sua età.
- Anch’io prego per te nonna.-
Poi scese le scale per andare da suo marito e dai suoi figli senza accorgersi che il ritratto le stava sorridendo.
 
   
 
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