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Autore: MorganaMF    14/12/2017    2 recensioni
«Quando Duncan è arrivato al nostro accampamento, non avrei mai potuto immaginare tutto ciò che ne sarebbe conseguito. Voleva reclutare un solo elfo Dalish, e invece se ne è ritrovati due: i gemelli Mahariel, fratello e sorella. Gli ultimi rimasti della nostra famiglia, dopo che nostro fratello Tamlen era sparito nelle rovine.
Il Quinto Flagello mi ha portato via quasi tutto: ho dovuto abbandonare il mio clan, ho perso la mia famiglia... ho perso perfino una parte della mia vita, strappatami via dall'Unione. Ma, per assurdo, questo Flagello mi ha portato alcune delle cose più belle: ho trovato l'amore, ho incontrato le persone più strane... ho stretto rapporti profondi con molti umani, cosa che un tempo non avrei mai creduto possibile. Una di loro, in particolare, mi resterà sempre nel cuore: sarebbe diventata parte della mia famiglia, se le cose fossero andate diversamente. La cara, indimenticabile Hawke. È stata con noi fino alla fine, ci ha aiutati a sconfiggere il Flagello e sarebbe dovuta diventare un Custode Grigio; ma alla fine è andata per la sua strada, come tutti gli altri.
Non dimenticherò mai questo Flagello: nel bene e nel male, ha cambiato per sempre la mia vita.»
[M. Mahariel]
Genere: Drammatico, Fantasy, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Alistair Therin, Altri, Custode, Hawke
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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“La Chiesa ci insegna che è stata l’arroganza degli uomini a portare la Prole Oscura nel nostro mondo. Gli uomini hanno cercato di impossessarsi del Cielo, finendo col distruggerlo. Sono stati cacciati, traviati e maledetti dalla loro stessa corruzione. Sono tornati sotto forma di mostri: i primi Prole Oscura. Sono diventati un Flagello per le nostre terre, inarrestabile e implacabile.
I regni dei nani furono i primi a cadere, e dalle Vie Profonde la Prole Oscura ci attaccò ripetutamente, finché non fummo sul punto di essere annientati.
Poi giunsero i Custodi Grigi: uomini e donne di ogni razza, guerrieri e maghi, barbari e re… i Custodi Grigi sacrificarono ogni cosa per lottare contro le forze dell’oscurità, e alla fine prevalsero.
Sono trascorsi quattro secoli da quella vittoria, e da allora abbiamo tenuta alta la guardia. Abbiamo osservato e atteso il ritorno della Prole Oscura, ma coloro che un tempo ci chiamavano eroi… hanno dimenticato. Ora siamo rimasti in pochi, e i nostri avvertimenti sono stati ignorati per troppo tempo.
Potrebbe essere troppo tardi: ho visto con i miei occhi ciò che si profila all’orizzonte.
Che il Creatore ci aiuti.”

[Duncan, Comandante dei Custodi Grigi del Ferelden.]

 

 

Tamlen teneva la sua freccia incoccata, pronto a lasciarla volare via al primo movimento sospetto dell’umano che teneva sotto tiro.
«Lasciaci passare, Dalish! Non hai il diritto di tenerci bloccati qui!» strillò uno degli altri due umani. Tamlen lo guardò con sufficienza.
«Ah no? Questo è da vedere» disse, alzando leggermente l’arco con un gesto intimidatorio. Gli umani indietreggiarono di qualche passo, spaventati. «Cosa ci fate qui? Siete banditi, ci scommetto.»
«No!» si affrettò a rispondere l’uomo dai capelli rossi che sembrava il leader del gruppo. Agitava le mani, nervoso. «Non siamo banditi, ve lo giuro!»
«Voi shemlen…» sbuffò Tamlen, usando il termine dispregiativo riservato agli umani dall’antica e perduta lingua elfica. «Siete patetici. È assurdo anche solo pensare che siate riusciti a cacciarci dalla nostra terra ancestrale.»
«Noi… noi non abbiamo fatto niente a voi elfi Dalish» balbettò un altro degli uomini, cercando di placare l’elfo. «Lasciateci andare! Noi non sapevamo che questa foresta fosse vostra!»
«Bah. La foresta non è nostra. Noi Dalish non siamo come voi shemlen, non rivendichiamo il possesso di ciò che è molto più grande di noi. Ma voi tre vi siete avvicinati troppo al nostro accampamento, e gli umani come voi non portano mai nulla di buono.»
Tamlen lanciò un’occhiata all’altro elfo, che era rimasto in silenzio qualche passo dietro di lui con il suo arco pronto a scoccare.
«Cosa dici, lethallin¹? Che ne facciamo di questi shemlen?»
L’altro, più giovane di un paio d’anni, non seppe cosa rispondere lì per lì: inclinò la testa da un lato, studiando accuratamente i tre umani tremanti, mentre la sua coda di cavallo bionda pendeva da un lato.
«Direi che dovremmo scoprire perché sono qui, prima di decidere cosa fare con loro» rispose dopo la sua analisi.
«Lo avete sentito, no?» disse Tamlen agli uomini. «Avanti, parlate.»
«Noi… noi cercavamo una caverna» balbettò il rosso in risposta. «Ci sono delle antichissime rovine dentro, e speravamo di trovare…»
«Cosa? Dei tesori, vero? Dunque non siete dei banditi, ma dei viscidi ladri e saccheggiatori di tombe» li disprezzò Tamlen.
«Non ci sono caverne qui attorno» aggiunse l’altro elfo. «Conosciamo la foresta come le nostre tasche, e non abbiamo mai incontrato alcuna rovina.»
«Vi assicuro che c’è, è qui a ovest» insistette l’umano dai capelli rossi, frugando nella sua borsa. I due elfi tesero ancor di più le corde dei loro archi a quel movimento improvviso, ma l’uomo tirò fuori un’innocua tavoletta di pietra. «Ecco, guardate! Ho trovato questa appena oltre l’entrata!»
L’uomo mosse alcuni passi in avanti, e lasciò la tavoletta per terra a qualche metro da Tamlen, tornando subito sui suoi passi. Tamlen raccolse la tavoletta, rigirandola fra le mani.
«Ma queste incisioni… sembra elfico. Elfico scritto!» esclamò, lanciando la tavoletta al fratello per fargliela vedere. Quello l’afferrò al volo e iniziò ad osservarla sbalordito.
«L’antica scrittura elfica… è andata persa millenni fa» mormorò, allibito e affascinato.
«Le rovine sono piene di incisioni come quella» disse l’umano con voce stridula. «Andate a controllare voi stessi!»
Tamlen lo guardò torvo.
«Se avete trovato altri manufatti elfici, dateceli subito. La vostra razza ha già preso abbastanza alla nostra gente!» li minacciò.
«Non abbiamo preso altro, non siamo andati a esplorare la caverna. Ci siamo fermati all’entrata!» esclamò l’altro in risposta.
«Ah davvero? E perché no? Pensavo foste a caccia di tesori» insinuò Tamlen, pressante come un martello sull’incudine.
«Perché, ecco…» disse l’umano, in preda al panico. «C’era un demone! Era enorme, con gli occhi neri… non so nemmeno come siamo riusciti a fuggire!»
Tamlen rise sonoramente.
«Un demone? Questa poi… adesso basta con queste fandonie» disse, tornando a minacciarli con l’arco. «Allora, Merevar… che ne facciamo?»
L’elfo più giovane valutò la situazione prima di rispondere.
«Non vale la pena ucciderli. Attireremmo l’ira di altri umani sul nostro clan. Lasciamoli andare» propose, tirando minacciosamente la corda dell’arco. «Sono certo che non torneranno.»
Gli umani non si fecero pregare: appena gli elfi fecero loro un cenno con la testa, voltarono i tacchi e scapparono via, fra concitate esclamazioni di ringraziamento.

 

Una volta rimasti soli, Tamlen si voltò verso il fratello minore.
«Sei stato magnanimo con loro. Io li avrei ammazzati tutti, quegli shemlen.»
«Lo so» sospirò Merevar, rimettendosi l’arco in spalla. «Per questo mi sono sbrigato a mandarli via. Sei troppo impulsivo, tu» gli disse, mentre l’altro ridacchiava. «Mi hai sorpreso, comunque… come mai hai lasciato decidere me?»
«Sei grande abbastanza per prendere questo tipo di decisioni, ormai» parlò Tamlen dall’alto dei suoi ventuno anni. Il fratello lo guardò con aria di sufficienza, pensando che due anni di differenza non erano poi tanti. Certamente non erano abbastanza da giustificare quell’atteggiamento.
«Se hai finito di atteggiarti a gran veterano, sarebbe ora di tornare all’accampamento» gli disse Merevar, iniziando ad incamminarsi. Ma il fratello lo fermò posandogli una mano sulla spalla.
«Aspetta, Merevar. Prima voglio dare un’occhiata a quella caverna.»
I delicati lineamenti di Merevar si distorsero in un’espressione dubbiosa. «Non mi sembra il caso. Dovremmo prima riferire l’accaduto alla Guardiana.»
«Dai, andiamo solo a controllare» insistette Tamlen, iniziando a dirigersi verso ovest. «Almeno sapremo se questa caverna esiste davvero. Pensa se un gruppo di esploratori partisse per poi non trovare niente. Ce ne direbbero di tutti i colori!»
Merevar sospirò, rassegnato: conosceva bene suo fratello, e quando quello decideva una cosa non c’era modo di dissuaderlo. S’incamminò dietro di lui.
Camminarono per una decina di minuti, finché non videro l’entrata della caverna: era un po’ infossata, nascosta alla vista dalla vegetazione.
«Non c’è da stupirsi che non l’avessimo mai notata» commentò Tamlen. Poi guardò Merevar con un sorrisetto. «Dai, andiamo a dare un’occhiata.»
«Tamlen… avevi detto che volevi solo controllare, e l’abbiamo fatto. La caverna esiste. Ora torniamo indietro» sbuffò l’altro, stanco. Erano stati a cacciare nei boschi tutta la giornata, e voleva solo tornare a casa e sdraiarsi sotto a un albero.
«Non fare storie» borbottò l’altro, sparendo nel buco. Merevar sbuffò di nuovo, roteando gli occhi. Si mise a seguire il fratello controvoglia.
Si ritrovarono in un salone sotterraneo, con un piccolo colonnato in rovina e macerie ovunque. Le incisioni che avevano visto sulla tavoletta erano disseminate in diversi punti sui muri parzialmente crollati.
«Per i Numi» mormorò Tamlen, a occhi sbarrati. «Questo posto dev’essere davvero antico… l’antica scrittura elfica è andata persa da quanto? Millenni?»
«Più o meno. Non ti facevo un esperto di storia» lo guardò sospettoso Merevar. «Come sai queste cose?»
Tamlen fece un sorrisetto beffardo. «Ho sfogliato uno dei libri di Melinor, tempo fa» disse, ridacchiando.
L’altro lo guardò stupito. «Quei libri sono della Guardiana, non sono di nostra sorella» lo rimbeccò. «Solo Melinor li può leggere, perché è la sua Prima! Non avresti dovuto ficcare il naso.»
Tamlen lo interruppe con un gesto seccato. «Bah, Merevar… sei troppo protettivo con nostra sorella» disse, dirigendosi verso la porta davanti a loro.
Finirono in un corridoio che portava a un’altra porta: la aprirono con cautela, e vennero assaliti da un gruppo di ragni giganti. Entrambi si sfilarono le spade e i pugnali dalla cintura, balzando ai lati delle creature e circondandole. Mantenendo il sangue freddo, riuscirono con colpi rapidi e mirati a tagliar loro le zampe e abbatterli in pochi minuti. Il loro addestramento come cacciatori si era fatto valere: i due fratelli erano fra i migliori del clan, nonostante fossero i più giovani.
Merevar si tolse dalla faccia un grumo appiccicoso: uno dei ragni aveva tentato di sparargli addosso una ragnatela, colpendolo solo di striscio.
«Te lo ripeto, Tamlen: dovremmo tornare indietro» bofonchiò, disgustato dal balocco di tela di ragno che non voleva saperne di staccarsi dalle sue dita.
«Perché? Hai paura di un paio di ragni?» disse quello, andando avanti per la sua strada. «Mi dispiace solo che i ragni giganti non siano commestibili, avremmo potuto portarli all’accampamento e farci una bella cena.»
Proseguirono silenziosi e cauti lungo gli antichi corridoi in rovina: una statua catturò la loro attenzione.
«Ehi, ma questa statua… è una raffigurazione dei nostri antichi Dei» sussurrò Merevar, con gli occhi incollati a una rudimentale raffigurazione di una donna alata. Probabilmente la statua aveva visto giorni migliori, e ora era solo un misero avanzo rispetto a ciò che era stata un tempo.
«Non capisco» si grattò il mento glabro Tamlen. «Queste rovine non sono elfiche, sembrano originarie dell’impero Tevinter2… perché ci sono statue dei nostri Numi?»
Merevar si strinse nelle spalle. «Forse umani ed elfi vivevano qui insieme.»
Tamlen si lasciò scappare una sonora risata.
«Certo, felici e in armonia» canzonò il fratello. «Molto probabilmente gli elfi che vivevano qui erano schiavi degli umani del Tevinter³. Anche se questo non giustifica affatto la presenza della statua…»
Un rumore alle loro spalle li fece voltare. Rimasero inorriditi alla vista di ciò che stava andando loro incontro. Istantaneamente misero mano agli archi, iniziando a colpire le creature che emergevano dal fondo del corridoio.
Cadaveri ambulanti? pensò Merevar, spaventato. Mantenere la calma con le bestie e i ragni giganti era una cosa, ma quello… a quello non era preparato.
Riuscirono miracolosamente ad abbattere i morti a distanza, evitando che si avvicinassero troppo. Il più vicino giaceva ora a terra a due metri da loro, la mano ancora allungata in avanti come se volesse afferrarli.
«Che… che cosa sono questi cosi?» esclamò Tamlen.
«Sono il mio “te l’avevo detto”!» imprecò l’altro, spazientito.
Ancora ansimante, Tamlen guardò in fondo al corridoio: un po’ di luce filtrava dal soffitto, e lui riuscì a scorgere una porta.
«Controlliamo quella stanza, e poi andiamo» disse, incapace di resistere alla tentazione. Bloccò sul nascere le proteste del fratello. «Non una parola, da’len⁴. Ormai siamo arrivati fin qui e ce la siamo cavata.»
Merevar voleva dirgli di non sfidare la fortuna, ma ricacciò giù le parole a fatica. Sarebbe stato fiato sprecato.
Si mossero silenziosi come felini lungo il corridoio, giungendo fino alla porta chiusa; non si sentiva alcun suono dall’altra parte. Dopo essersi scambiati un cenno d’assenso, i due si prepararono: aprirono la porta con spade e pugnali già in mano.
Un orso di una specie che non avevano mai visto si scagliò contro di loro: Merevar fece un balzo all’indietro, agile e aggraziato come solo gli elfi sapevano essere, e iniziò a colpire con le frecce l’orrida bestia. Tamlen, nel frattempo, l’affrontava viso a viso: poteva sentire il puzzo putrescente di quella creatura immonda, e vedere il male nei suoi occhi gialli e demoniaci. Non fu uno scontro facile: Tamlen dovette usare tutta la sua destrezza per schivare gli artigli neri dell’orso deforme, e assestare rapidi e precisi colpi nei punti vitali. Merevar lo assisteva da lontano: era una tattica che usavano sempre durante le battute di caccia. Merevar era bravo quanto il fratello con i pugnali e la spada, ma lo superava di gran lunga nel tiro con l’arco; cosa che al maggiore dei due non era mai andata giù.
Dopo parecchi minuti di lotta, la bestia cadde a terra senza vita. Tamlen indietreggiò fino ad appoggiare le spalle al muro più vicino, ansimante. Merevar lo raggiunse, gli occhi verdi come due oceani fissi sul cadavere. Si portò una mano al naso.
«Che fetore» si lamentò, mentre guardava le sue frecce conficcate nel corpo morto. «Credo che le lascerò lì, quelle. Non intendo rimetterci le mani sopra.»
Tamlen non commentò, esausto per lo scontro. Si limitò a camminare oltre il vano della porta. Appena vide cosa c’era nella stanza si fermò.
«Guarda… che cos’è?»
Merevar entrò a sua volta e lo vide: uno specchio, antichissimo e imponente, si ergeva davanti a loro su di una piccola piattaforma in pietra a cui era possibile accedere salendo un paio di gradini. Tamlen si avvicinò ammaliato.
«Chissà da quanto è qui» mormorò, curioso. Rimase  a bocca aperta ad ammirare le scritte incise nella cornice dello specchio. «Mi domando cosa significhino…»
«La Guardiana potrebbe riuscire a tradurle. Magari persino Melinor ne è capace» commentò Merevar, appena dietro il fratello.
«Già, pensa a come si arrabbierà quando scoprirà che siamo stati qui prima di lei» disse Tamlen, ridacchiando. «Forse… ehi, hai visto?» s’interruppe. «Qualcosa nello specchio… si è mosso!»
«Se speri di spaventarmi, non ci casco» ribatté Merevar incrociando le braccia.
«No, dico sul serio! Guarda!» esclamò ancora Tamlen, costringendo Merevar a guardare. Quello si voltò giusto in tempo per vedere la superficie dello specchio muoversi, quasi fosse fatta d’acqua e non di vetro. Sgranò gli occhi.
«Guarda, credo voglia attirare la nostra attenzione» bisbigliò Tamlen eccitato, avvicinandosi. «Mi sta… mostrando delle cose… una città sotterranea? Ma che…»
Merevar rimase a guardare il fratello mentre la sua espressione cambiava: Tamlen sbiancò, e il terrore gli riempì le iridi chiare.
«Allontanati da lì, lethallin» disse Merevar, preoccupato.
«Non riesco… non posso muovermi!» si allarmò l’altro. «Aiuto! Non riesco a smettere di guardarlo!»
Merevar fece per soccorrere il fratello, ma non ci riuscì. Un’esplosione lo fece volare all’indietro, sbalzandolo via con una forza tale da fargli perdere i sensi.

 

Quando riaprì gli occhi, credette di essere ancora davanti allo specchio: un viso dai lineamenti delicati e dagli occhi dello stesso verde acqua dei suoi lo guardava di rimando. Gli stessi lunghi capelli biondi cadevano ai lati del viso in due ciuffi. Due ciuffi un po’ troppo lunghi per essere i suoi.
Riconobbe sua sorella Melinor che lo guardava: la sua gemella. Non appena si accorse che il fratello era cosciente si voltò verso qualcuno.
«Si è svegliato! Vai a chiamare la Guardiana, presto!»
Melinor aiutò il fratello a mettersi seduto, preoccupandosi di chiedergli se ne era in grado; poi gli somministrò una bevanda calda e amara, che fece storcere la bocca a Merevar.
«Bevila tutta, ti farà bene» gli stava appresso la sorella, preoccupata. «Come ti senti? Ce la fai ad alzarti?»
«Sì, credo di sì» disse lui, appoggiandosi a lei mentre si rimettevano in piedi.
«Come ti senti?» chiese ancora la ragazza, scrutandolo con attenzione.
«Meglio, ora. Non preoccuparti» la rassicurò lui.
Lei tirò un sospiro di sollievo, lieta di udire quelle parole. Poi la sua espressione cambiò repentinamente, e diede una pacca in testa al fratello.
«Ahi! È così che trattate gli infortunati, voi Guardiane?» brontolò lui; ma lei non lo sentì nemmeno.
«Cosa vi è saltato in mente, a tutti e due? Addentrarvi da soli in una rovina sconosciuta!» lo rimproverò, attirando gli sguardi degli altri elfi nei paraggi.
«Lo so, hai ragione» si difese lui, alzando le mani. «Ho cercato di convincere Tamlen a tornare indietro, ma sai anche tu com’è… non ha voluto ascoltarmi, e non potevo lasciarlo andare da solo!»
Melinor non replicò: non poteva, d’altronde. Anche lei conosceva Tamlen: faceva sempre di testa sua.
«A proposito, lui dov’è? Sta bene?» chiese Merevar, guardandosi attorno: non vedeva traccia di Tamlen nel piccolo ospedale del campo. Tornò a guardare la sorella in cerca di una risposta, ma la sua espressione era tutt’altro che rassicurante.
«Dov’è, Melinor?» insistette lui.
«Non lo abbiamo trovato» rispose finalmente lei, abbassando lo sguardo. «L’umano che ti ha portato qui ha detto di aver trovato te, solo e malato fuori dalle rovine… di Tamlen non c’era traccia. Abbiamo provato a cercare nel bosco per giorni, per vedere se anche lui era uscito febbricitante da quel posto maledetto… abbiamo pensato potesse essersi perso, ma…» terminò la frase scuotendo il capo.
«Melinor… quanti giorni sono passati?» chiese allora lui, serio.
«Tre giorni, da quando siete usciti a caccia» rispose lei. «Due da quando l’umano ti ha trovato.»
«Cosa? Tre giorni? E in tutto questo tempo nessun segno di nostro fratello?» esclamò lui, preoccupato. Melinor asserì, cupa in viso.
«Sei sveglio, da’len. Siano ringraziati i Numi.»
Si voltarono nell’udire le parole della Guardiana Marethari. L’anziana si avvicinò a Merevar, studiandolo attentamente: sembrò soddisfatta.
«Sei stato davvero fortunato, Merevar. Se Duncan non ti avesse trovato, non so come sarebbe finita.»
«Chi è Duncan? Lo shemlen che mi ha trovato?» chiese il giovane.
«Non un semplice umano, ma un Custode Grigio. Stava indagando nella foresta e ti ha trovato già ammalato fuori dalle rovine. Teme che la Prole Oscura infesti quel luogo; è vero?»
Merevar si fermò a frugare fra i ricordi: era distratto dal fatto che un Custode Grigio fosse apparso così dal nulla. Sapeva soltanto che i Custodi Grigi combattevano la Prole Oscura, e che erano gli unici in grado di fermare i Flagelli; cosa ci faceva uno di loro lì?
«Non so come sia fatto un Prole Oscura, ma c’erano dei cadaveri ambulanti nelle rovine» confessò.
Marethari lo guardò con rinnovato interesse e con crescente preoccupazione.
«I cadaveri ambulanti sono opera della magia oscura, Guardiana» intervenne Melinor. «Non ha nulla a che vedere con la Prole Oscura.»
La Guardiana annuì. «Raccontami tutto, Merevar.»
Il giovane fece come gli era stato ordinato: raccontò delle rovine, delle incisioni elfiche e delle statue, dei cadaveri e dell’orso, e infine dello specchio. La Guardiana e Melinor si scambiarono un’occhiata preoccupata.
«Se Tamlen era ammalato come te, allora la sua condizione sarà terribile a quest’ora. Il Custode Grigio è tornato alle rovine, ci ha suggerito di tenerci alla larga vista la pericolosità del sito… ma non cercherà Tamlen, ha i suoi affari di cui occuparsi. E noi non possiamo abbandonare così un nostro fratello.» Guardò Merevar con intensità. «Te la senti di tornare con tua sorella alle rovine per cercarlo? Sei l’unico a conoscerne l’ubicazione.»
Lui non esitò ad annuire con il capo; a quel punto, Marethari guardò Melinor.
«Molto bene. Allora andrete voi due. Melinor, fai attenzione laggiù. E… porta anche Merril con te.»
La ragazza aggrottò le sopracciglia dorate in un’espressione contrariata.
«Perchè devo portare Merril? Due maghe non serviranno, sarebbe meglio portare un altro cacciatore…»
«I tuoi fratelli sono due cacciatori, e guarda cosa è capitato» la interruppe la Guardiana. «No, da’len: avrai bisogno di Merril. Qualunque cosa ci sia in quelle rovine… non è un male che può essere affrontato solo con una lama.»
Marethari si congedò, lasciando i due gemelli a fissarsi: lo specchio uno dell’altra, nel corpo e nello spirito. Solo una cosa contava per entrambi, in quel momento: ritrovare il loro fratello perduto.

 

 

 

NOTE:

¹: termine elfico maschile (fem. lethallan) per indicare una persona familiare: amico, parente, ecc.
2: l’impero Tevinter è la nazione più antica dell’intero Thedas (il continente di cui fa parte). Nell’antichità la sua dominazione si estendeva su quasi tutto il continente, ma nel tempo il potere dell’impero è diminuito in seguito a numerose guerre. Ora sia la sua influenza, sia l’estensione del territorio si sono di molto ridimensionate, ma la nazione ha comunque mantenuto il titolo di Impero.
³: nell’antichità, l’impero Tevinter si scontrò con Elvhenan, il regno degli elfi. Gli elfi avevano vissuto in pace nel Thedas per millenni, finché l’impero Tevinter non decise di conquistare il loro territorio. Dopo un’aspra battaglia, la civiltà elfica venne sconfitta e ridotta in schiavitù dagli umani.
⁴: appellativo elfico usato per indicare una persona più giovane.

   
 
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