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Autore: Ikari XIII    19/12/2017    2 recensioni
I lampioni attorno l’Arco di Trionfo coloravano la nostra carnagione di una luce aranciata ma nonostante ciò, le guance di Chat Noir sembravano ravvivarsi di una leggera sfumatura rosea, associai quel rossore all’aria fredda della sera in un primo momento, mai avrei preso in considerazione che lo sfacciato Chat Noir potesse sentirsi in imbarazzo.
Come se si fosse alzato un vento leggero, piccole perle nere luminescenti volteggiarono attorno al corpo di Chat Noir, abbandonandolo e lì, in quell'istante, sentii il cuore mancare di qualche battito.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Adrien Agreste/Chat Noir, Marinette Dupain-Cheng/Ladybug, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Say my name, say my name
If no one is around you
Say “baby I love you”
If you ain't runnin' game.


#1 – Un cuore spezzato a Parigi.

La zaffata di acido che aleggiava nel piccolo bagno di casa, riempiva i polmoni e mi faceva girare la testa, al pensiero che quell’odoraccio provenisse dal mio stomaco, un nuovo conato di vomito risalì prepotente, procurandomi l’ennesimo spasmo.
«…ne vuoi parlare?».
La vocina di Tikki risuonava debole e lontana, mentre il fischio che perforava le mie orecchie, iniziava piano piano ad attenuarsi.
Per la terza volta, in quella terribile mezz’ora, tirai lo sciacquone, spossata mi accasciai contro la vasca da bagno.
La piccola kwami volteggiò per poggiarsi sul bordo del lavello, arricciò il musino a causa dell’odore pungente.
« Non è così grave come credi, Marinette».
No, non era così grave, era molto peggio.

Il trambusto delle vetture che viaggiavano frenetiche sotto di me, era quasi confortante.
Lasciai dondolare lentamente i piedi nel vuoto, seduta sull’Arco di Trionfo, ora nuovamente integro e sicuro, cercando tra l’ingorgo delle strade e tra le luci artificiali che costeggiavano i viali qualche segno di allerta, nonostante la battaglia da poco conclusa. Ormai convivevo con questa ansia constante, non riuscivo più a godermi quei brevi attimi di pace tra uno scontro e l’altro. Mi sforzai di prendere un respiro profondo di quell’aria notturna, cercando di rilassare la muscolatura ancora irrigidita delle spalle che iniziava a formicolare sgradevolmente.
«Milady…», il volto ricoperto di graffi e polvere, gli occhi felini arrossati e socchiusi che si facevano largo tra le ombre, era fiacco nello stesso modo in cui lo ero io.
Chat Noir.
Non mi ero mai chiesta chi ci fosse dietro la maschera, la necessità di proteggere la città ha sempre preceduto la curiosità infantile di giocare a fare la detective.
Proteggere la fragile linea di confine che scindeva Marinette da Ladybug è stato sempre faticoso ma necessario e sapevo che lo stesso valeva per tutti coloro che mi hanno preceduta e lo stesso Chat Noir non era assolto dal mio stesso peso.
Proteggere Parigi e i suoi abitanti era ciò che contava davvero.
« Chat Noir, tutto bene?», la bocca asciutta rendeva faticoso pure parlare.
Sembrava zoppicare leggermente mentre si avvicinava al cornicione della struttura, notai dopo qualche istante che il tessuto nero del suo guanto sinistro si stava impregnando di sangue.
« Neanche tu sei fresca come un fiore, ovviamente sei sempre più bella di quanto uno possa credere», almeno aveva ancora la forza di scherzare, la cosa mi rincuorò.
Con una mano mi pulii il viso dai detriti e dal sudore, come se quel gesto potesse rendermi presentabile agli occhi altrui. Più passava il tempo, più sembrava che l’armata di Papillon si stesse rafforzando, ogni scontro ci consumava ma potevamo sempre contare l’uno sull’altro.
Quel gattaccio aveva sempre avuto tanti difetti, il suo carattere insolente e la sua marcata autostima ci avevano causato più di una volta una serie di problemi ma non mi aveva mai lasciata nel momento del bisogno e per quanto non ci conoscessimo al di fuori dai pericoli imminenti che minacciavano la nostra città, mi fidavo di lui.
Il trillo del suo anello ci riportò al presente, il tempo che ci era concesso era terminato ed io volevo solo tornare a casa a recuperare le energie.
« È ora di andare», gli sorrisi debolmente mentre sfilavo il mio yoyo dalla tasca, pronta a lanciarlo lontano dall’Arco di Trionfo che si era prestato nuovamente come campo di battaglia.
«Insettina–, volevo dire, Ladybug…non scappare via».
Aggrottai le sopracciglia, decisamente confusa dalla sua richiesta.
« Cosa stai dicendo?»
« Sto dicendo…», chiuse con forza entrambe le mani in due pugni saldi, un’espressione sofferente lo colse inaspettatamente, le lesioni della mano sinistra gli ricordarono delle sue attuali condizioni, mi avvicinai a lui per tamponare in modo impacciato la ferita con la manica della mia tenuta da combattimento.
« Sto dicendo che non voglio che tu vada via questa volta».
I suoi occhi grandi mi scavavano dentro, doveva aver passato molto tempo a riflettere su questa decisione, lo si capiva dalla sua voce, dal velo di esitazione che si agitava in fondo le sue iridi.
Cercai di fare un passo indietro ma la mano destra stringeva con fermezza il mio braccio, non riuscivo a divincolarmi dalla sua presa né dal suo sguardo.
« Non cambierà niente, ovviamente non voglio costringerti a dirmi chi sei, voglio solo essere del tutto sincero con te, voglio che tu mi guardi e capisca che dietro la maschera c’è un ragazzo comune, esattamente come te. So che sei spaventata, credimi se ti dico che lo sono anche io, ma io mi fido di te e non voglio che il nostro rapporto si limiti solo a guardarci le spalle a vicenda in occasioni come queste. Voglio che tra noi ci siano momenti di…normalità, ecco».
I lampioni attorno l’Arco di Trionfo coloravano la nostra carnagione di una luce aranciata ma nonostante ciò, le guance di Chat Noir sembravano ravvivarsi di una leggera sfumatura rosea, associai quel rossore all’aria fredda della sera in un primo momento, mai avrei preso in considerazione che lo sfacciato Chat Noir potesse sentirsi in imbarazzo.
Come se si fosse alzato un vento leggero, piccole perle nere luminescenti volteggiarono attorno al corpo di Chat Noir, abbandonandolo e lì, in quell’istante, sentii il cuore mancare di qualche battito.

Ed eccolo salire il quarto conato di vomito.
Sentivo il sudore colare lungo il collo, appiccicoso e lento.
Mi trascinai svogliatamente verso il lavello, facendo scorrere l’acqua gelida sotto ai polsi, sulle tempie e dietro la nuca, cercando di lavare via l’angoscia e il dolore che traspiravano attraverso i pori. Lavati i denti, cercai di sistemare come meglio potevo i codini ridotti ormai ad una matassa di capelli intricati.
Mi muovevo lentamente, quasi in modo autonomo, cercavo di metabolizzare la notizia senza il reale pericolo di andare incontro ad una crisi isterica ma la kwami  che mi affiancava, non sembrava voler lasciarmi sola con i miei pensieri, quella notte.
« Importa tanto chi ci sia dietro quella mascherina? Siete sempre voi. Da una prospettiva diversa, sì, ma sempre voi. Perché sei così spaventata?»
« Non posso accettarlo, Tikki. Chat Noir è così infantile e pieno di sé, non prende mai nulla sul serio, non riesco a immaginare che dietro a quel casanova da strapazzo possa esserci il mio Adrien. Lui è…è…», le parole mi morivano sulla punta della lingua mentre la chiara immagine di Adrien mi sorrideva timidamente sul monumento storico.
«Perfetto? Marinette, stiamo parlando di un ragazzo di soli diciassette anni con cui non hai mai avuto il coraggio di parlare più di quanto non avresti fatto con un qualsiasi altro compagno di classe. È un essere umano e in più di cinquemila anni non ne ho mai visto uno che potesse essere considerato perfetto. Scusa se te lo dico ma non è colpa di Adrien se hai delle aspettative così alte nei suoi confronti, forse non lo conosci così bene come credi».
Aveva fatto male.
Sentire quelle parole, proprio da Tikki, sempre così pacata, bruciava profondamente.
Non volevo essere spronata da lei, non volevo cercare di sentirmi meglio in quel momento, tantomeno essere consolata, volevo essere libera di sentire lo schifo che provavo dentro, ogni cosa in quel momento mi irritava, anche i suoi occhioni che mi guardavano con aria compassionevole.
Mi era impossibile reggere sotto il peso del suo sguardo.
«…credo sia il caso che vada a letto. Buonanotte».
« Ma Marinette…va bene, d’accordo. Buonanotte».

Il silenzio opprimente della mansarda rendeva i pensieri più rumorosi, più mi rigiravo nel letto, più le lenzuola mi si aggrovigliavano attorno.
Allungai entrambe le braccia sotto il cuscino, affondai il viso in modo così irruento che mi mancò l’aria per qualche istante, mi voltai verso il muro bianco, cercandovi qualche dettaglio nascosto che in diciassette anni in cui dormivo in quella camera, magari non avevo mai notato, una crepa o una macchia d’umidità, qualcosa che mi distraesse dalla piccola Marinette che continuava a sbraitare nella mia testa, non mi dava pace.
Era così molesta e capricciosa, non mi faceva prendere sonno. Detestavo quando il mio lato infantile prendeva il sopravvento, ferendomi e soprattutto ferendo le persone a cui tenevo.
Quando le cose non andavano come desideravo, mi impuntavo, nonostante sapessi di dover lasciar perdere, ma era più forte di me.
Mentre la mia testa viaggiava da un avvenimento all’altro del mio passato, sentii il polso sinistro sfiorare il lato affilato di una foto che conoscevo ormai fin troppo bene. La tenevo sotto il cuscino dal giorno in cui l’avevo fatta stampare.
Cercai a tentoni di afferrare l’oggetto che si era spostato all’angolo del materasso, nonostante l’oscurità, potevo intravedere i lineamenti sfumati del viso sorridente di Adrien mentre mi affiancava durante il mio ultimo compleanno.
Era stato davvero molto dolce e premuroso quel giorno…
Adrien.
Gli occhi iniziarono a pizzicare in modo irrefrenabile.
Forse, alla fine, Tikki aveva ragione ma non immaginavo che un ideale infranto potesse fare così male.

   
 
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