Say my name, say
my name
If no one is around you
Say “baby I love you”
If you ain't runnin' game.
#1
– Un cuore spezzato a Parigi.
La zaffata di acido che aleggiava nel piccolo bagno di casa, riempiva i
polmoni
e mi faceva girare la testa, al pensiero che quell’odoraccio
provenisse dal mio
stomaco, un nuovo conato di vomito risalì prepotente,
procurandomi l’ennesimo
spasmo.
«…ne
vuoi parlare?».
La vocina di Tikki
risuonava debole e lontana, mentre
il fischio che perforava le mie orecchie, iniziava piano piano
ad attenuarsi.
Per la terza volta, in quella terribile mezz’ora, tirai lo
sciacquone, spossata
mi accasciai contro la vasca da bagno.
La piccola kwami volteggiò per poggiarsi sul bordo del
lavello, arricciò il
musino a causa dell’odore pungente.
« Non è così grave come credi,
Marinette».
No, non era così grave, era molto peggio.
Il trambusto delle vetture che viaggiavano frenetiche sotto di me, era
quasi confortante.
Lasciai dondolare lentamente i piedi nel vuoto, seduta
sull’Arco di Trionfo,
ora nuovamente integro e sicuro, cercando tra l’ingorgo delle
strade e tra le
luci artificiali che costeggiavano i viali qualche segno di allerta,
nonostante
la battaglia da poco conclusa. Ormai convivevo con questa ansia
constante, non
riuscivo più a godermi quei brevi attimi di pace tra uno
scontro e l’altro. Mi
sforzai di prendere un respiro profondo di quell’aria
notturna, cercando di
rilassare la muscolatura ancora irrigidita delle spalle che iniziava a
formicolare sgradevolmente.
«Milady…»,
il volto ricoperto di graffi e polvere,
gli occhi felini arrossati e socchiusi che si facevano largo tra le
ombre, era
fiacco nello stesso modo in cui lo ero io.
Chat Noir.
Non mi ero mai chiesta chi ci fosse dietro la maschera, la
necessità di
proteggere la città ha sempre preceduto la
curiosità infantile di giocare a
fare la detective.
Proteggere la fragile linea di confine che scindeva Marinette da
Ladybug è
stato sempre faticoso ma necessario e sapevo che lo stesso valeva per
tutti
coloro che mi hanno preceduta e lo stesso Chat Noir non era assolto dal
mio
stesso peso.
Proteggere Parigi e i suoi abitanti era ciò che contava
davvero.
« Chat Noir, tutto bene?», la bocca asciutta
rendeva faticoso pure parlare.
Sembrava zoppicare leggermente mentre si avvicinava al cornicione della
struttura, notai dopo qualche istante che il tessuto nero del suo
guanto sinistro
si stava impregnando di sangue.
« Neanche tu sei fresca come un fiore, ovviamente sei sempre
più bella di
quanto uno possa credere», almeno aveva ancora la forza di
scherzare, la cosa
mi rincuorò.
Con una mano mi pulii il viso dai detriti e dal sudore, come se quel
gesto
potesse rendermi presentabile agli occhi altrui. Più passava
il tempo, più
sembrava che l’armata di Papillon si stesse rafforzando, ogni
scontro ci
consumava ma potevamo sempre contare l’uno
sull’altro.
Quel gattaccio aveva sempre avuto tanti difetti, il suo carattere
insolente e
la sua marcata autostima ci avevano causato più di una volta
una serie di
problemi ma non mi aveva mai lasciata nel momento del bisogno e per
quanto non
ci conoscessimo al di fuori dai pericoli imminenti che minacciavano la
nostra
città, mi fidavo di lui.
Il trillo del suo anello ci riportò al presente, il tempo
che ci era concesso
era terminato ed io volevo solo tornare a casa a recuperare le energie.
« È ora di andare», gli sorrisi
debolmente mentre sfilavo il mio yoyo dalla
tasca, pronta a lanciarlo lontano dall’Arco di Trionfo che si
era prestato
nuovamente come campo di battaglia.
«Insettina–,
volevo dire, Ladybug…non
scappare via».
Aggrottai le sopracciglia, decisamente confusa dalla sua richiesta.
« Cosa stai dicendo?»
« Sto dicendo…»,
chiuse con forza entrambe le mani in
due pugni saldi, un’espressione sofferente lo colse
inaspettatamente, le
lesioni della mano sinistra gli ricordarono delle sue attuali
condizioni, mi
avvicinai a lui per tamponare in modo impacciato la ferita con la
manica della
mia tenuta da combattimento.
« Sto dicendo che non voglio che tu vada via questa
volta».
I suoi occhi grandi mi scavavano dentro, doveva aver passato molto
tempo a
riflettere su questa decisione, lo si capiva dalla sua voce, dal velo
di esitazione
che si agitava in fondo le sue iridi.
Cercai di fare un passo indietro ma la mano destra stringeva con
fermezza il
mio braccio, non riuscivo a divincolarmi dalla sua presa né
dal suo sguardo.
« Non cambierà niente, ovviamente non voglio
costringerti a dirmi chi sei,
voglio solo essere del tutto sincero con te, voglio che tu mi guardi e
capisca
che dietro la maschera c’è un ragazzo comune,
esattamente come te. So che sei
spaventata, credimi se ti dico che lo sono anche io, ma io mi fido di
te e non
voglio che il nostro rapporto si limiti solo a guardarci le spalle a
vicenda in
occasioni come queste. Voglio che tra noi ci siano momenti di…normalità,
ecco».
I lampioni attorno l’Arco di Trionfo coloravano la nostra
carnagione di una
luce aranciata ma nonostante ciò, le guance di Chat Noir
sembravano ravvivarsi
di una leggera sfumatura rosea, associai quel rossore
all’aria fredda della
sera in un primo momento, mai avrei preso in considerazione che lo
sfacciato
Chat Noir potesse sentirsi in imbarazzo.
Come se si fosse alzato un vento leggero, piccole perle nere
luminescenti
volteggiarono attorno al corpo di Chat Noir, abbandonandolo e
lì, in
quell’istante, sentii il cuore mancare di qualche battito.
Ed eccolo salire il quarto conato di vomito.
Sentivo il sudore colare lungo il collo, appiccicoso e lento.
Mi trascinai svogliatamente verso il lavello, facendo scorrere
l’acqua gelida
sotto ai polsi, sulle tempie e dietro la nuca, cercando di lavare via
l’angoscia e il dolore che traspiravano attraverso i pori.
Lavati i denti,
cercai di sistemare come meglio potevo i codini ridotti ormai ad una
matassa di
capelli intricati.
Mi muovevo lentamente, quasi in modo autonomo, cercavo di metabolizzare
la
notizia senza il reale pericolo di andare incontro ad una crisi
isterica ma la kwami che
mi affiancava, non sembrava voler
lasciarmi sola con i miei pensieri, quella notte.
« Importa tanto chi ci sia dietro quella mascherina? Siete
sempre voi. Da una
prospettiva diversa, sì, ma sempre voi. Perché
sei così spaventata?»
« Non posso accettarlo, Tikki.
Chat Noir è così
infantile e pieno di sé, non prende mai nulla sul serio, non
riesco a immaginare
che dietro a quel casanova da strapazzo possa esserci il mio Adrien.
Lui è…è…»,
le parole mi morivano sulla punta della lingua
mentre la chiara immagine di Adrien mi sorrideva timidamente sul
monumento
storico.
«Perfetto? Marinette, stiamo parlando di un ragazzo di soli
diciassette anni
con cui non hai mai avuto il coraggio di parlare più di
quanto non avresti
fatto con un qualsiasi altro compagno di classe. È un essere
umano e in più di
cinquemila anni non ne ho mai visto uno che potesse essere considerato
perfetto. Scusa se te lo dico ma non è colpa di Adrien se
hai delle aspettative
così alte nei suoi confronti, forse non lo conosci
così bene come credi».
Aveva fatto male.
Sentire quelle parole, proprio da Tikki,
sempre così
pacata, bruciava profondamente.
Non volevo essere spronata da lei, non volevo cercare di sentirmi
meglio in
quel momento, tantomeno essere consolata, volevo essere libera di
sentire lo
schifo che provavo dentro, ogni cosa in quel momento mi irritava, anche
i suoi occhioni che mi
guardavano con aria compassionevole.
Mi era impossibile reggere sotto il peso del suo sguardo.
«…credo
sia il caso che vada a letto. Buonanotte».
« Ma Marinette…va
bene, d’accordo. Buonanotte».
Il silenzio opprimente della mansarda rendeva i pensieri più
rumorosi, più mi
rigiravo nel letto, più le lenzuola mi si aggrovigliavano
attorno.
Allungai entrambe le braccia sotto il cuscino, affondai il viso in modo
così
irruento che mi mancò l’aria per qualche istante,
mi voltai verso il muro
bianco, cercandovi qualche dettaglio nascosto che in diciassette anni
in cui
dormivo in quella camera, magari non avevo mai notato, una crepa o una
macchia
d’umidità, qualcosa che mi distraesse dalla
piccola Marinette che continuava a
sbraitare nella mia testa, non mi dava pace.
Era così molesta e capricciosa, non mi faceva prendere
sonno. Detestavo quando
il mio lato infantile prendeva il sopravvento, ferendomi e soprattutto
ferendo
le persone a cui tenevo.
Quando le cose non andavano come desideravo, mi impuntavo, nonostante
sapessi
di dover lasciar perdere, ma era più forte di me.
Mentre la mia testa viaggiava da un avvenimento all’altro del
mio passato,
sentii il polso sinistro sfiorare il lato affilato di una foto che
conoscevo
ormai fin troppo bene. La tenevo sotto il cuscino dal giorno in cui
l’avevo
fatta stampare.
Cercai a tentoni di afferrare l’oggetto che si era spostato
all’angolo del
materasso, nonostante l’oscurità, potevo
intravedere i lineamenti sfumati del
viso sorridente di Adrien mentre mi affiancava durante il mio ultimo
compleanno.
Era stato davvero molto dolce e premuroso quel giorno…
Adrien.
Gli occhi iniziarono a pizzicare in modo irrefrenabile.
Forse, alla fine, Tikki
aveva ragione ma non immaginavo
che un ideale infranto potesse fare così male.