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Autore: _Frame_    24/12/2017    4 recensioni
“Il mondo è sempre brutto, Beth. Il mondo cerca sempre di non farti vedere le cose come sono davvero. Tira su i teli, sai? Proprio come hanno fatto prima per coprire il cavallo che stava morendo. Ti tengono lontana dalla realtà e la coprono con un telo per non farti vedere le cose come stanno, per non farti rendere conto che la tua vita fa schifo e che non vale la pena continuare a trascinarti per arrivarci fino in fondo. Ti addomesticano, Beth. Ti riempiono la testa di merda, così tu continui a sopravvivere, a lavorare, a riprodurti, e a far andare avanti il mondo come vogliono loro, con la speranza che tutto quello che fai abbia senso, con la speranza che tu farai la differenza, che varrai qualcosa, che avrai uno scopo in tutta questa immondizia. Ma non farà la differenza, non varrà niente. In questo universo siamo talmente piccoli e insignificanti che non importa a nessuno se quel cavallo muore, o se tu muori. Continuano a raccontarti questa bugia solo per non farti impazzire. L’universo non ha bisogno di nessuno per continuare a vivere.”
“Nemmeno di te?”
“Già. Nemmeno di me.”
Genere: Malinconico, Slice of life, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Beth Sanchez, Rick Sanchez
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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N.d.A.

Nell’episodio del visore degli universi alternativi, mostravano come nella dimensione in cui Beth non era rimasta incinta e non aveva sposato Jerry era poi diventata un cardiochirurgo “normale” e non di cavalli. In realtà, mi è sempre piaciuto pensare che almeno nella Dimensione C-137 lei sarebbe sempre e comunque diventata una veterinaria, con o senza Jerry, con o senza figli. Questa storiella spiega il mio perché. È stato poi specificato anche in altri episodi che Beth è rimasta incinta durante la Prom Night delle superiori, quindi ho dedotto che abbia frequentato l’università occupandosi contemporaneamente di Summer e successivamente anche di Morty.


 

 

A tutti i cavalli e a tutti i cavalieri che soffrono e che hanno sofferto nell’ambiente di merda che è quello dell’equitazione agonistica.





Quello che papà non aggiusta



Beth sollevò il cavallino di plastica assieme alla gamba che gli si era appena spezzata, e portò entrambi gli oggetti in controluce, davanti al riverbero del lampadario che pendeva dal soffitto del soggiorno in cui stava giocando. La luce artificiale scintillò sulla vernice arancio che simulava il manto sauro del cavallino, e coronò la zampa spezzata – l’anteriore sinistro – che si era fratturato dove terminava la balzana bianca. Altre tre balzane bianche rivestivano le zampe rimanenti dell’animale, come lunghi calzini che arrivavano fino ai garretti.

Beth sentì il cuoricino gonfiarsi di tristezza. Il sorriso che le teneva le labbra incurvate mentre giocava, mentre faceva correre i suoi cavallini e mentre gli faceva saltare gli ostacoli disposti sul tappeto, sbiadì rendendole le guance più pallide e lo sguardo più grigio, gli occhi meno luminosi. Rigirò più volte la zampa anteriore che si era spaccata. Voltò anche il corpo del cavallino che era proteso in una posizione da galoppo, con il collo allungato, gli zoccoli leggermente rialzati, i muscoli tesi, i tendini gonfi, e la criniera e la coda al vento. Grattò con l’unghia il marchio che gli aveva disegnato con l’indelebile sulla coscia destra, come i veri cavalli da allevamento. Le lettere ‘B.S.’ racchiuse in un cuore.

Beth sbuffò. Girò il muso del cavallino verso di sé, e lo guardò dritto negli occhi smaltati di nero che brillavano come capocchie di spillo. Corrugò le sopracciglia in un’espressione seria e contrariata, una di quelle espressioni che le rivolgeva ogni tanto Rick, come aspettandosi una risposta altrettanto seria da quel muso lungo attraversato dalla lista bianca che si dilatava all’altezza delle narici, dove sfumava in un tenero colorito roseo. “Ti sei rotta, Peach?”

Il muso di Peach rimase immutato. Solo un leggero scintillio all’occhio sinistro, colpito di sbieco dal fascio di luce proiettato dal lampadario sul soffitto che pendeva sopra di loro. La cavallina di plastica non fiatò.

Beth raccolse un ginocchio contro di sé, e il piedino infilato nella ciabatta a forma di orsacchiotto urtò un ostacolo che aveva disposto sul pavimento – l’ostacolo consisteva in un pezzo della staccionata che aveva staccato dalla recinzione di legno che una volta circondava la sua villa delle Barbie. Altri cinque pezzi di staccionata, più un muretto assemblato con pezzi di plastilina gialla, formavano il percorso a ostacoli. Sul tappeto, in attesa del suo turno di saltare, attendeva un cavallino pezzato con una sella all’americana già allacciata al torace. Sull’orlo del tappeto, a godersi lo spettacolo, il musetto bianco di un pony Shetland sbirciava da uno dei box della stalla. Beth aveva ritagliato la stalla in una vecchia scatola di scarpe che poi aveva imbottito lei stessa con erba secca strappata dal giardino. Anche quei due cavallini esibivano il marchio B.S. racchiuso da un cuore sulla loro coscia destra.

Lo sguardo di Beth tornò a posarsi sulla staccionata che aveva appena fatto saltare a Peach, e di nuovo quel senso di tristezza e delusione le appesantì il petto. Peach era atterrata, aveva poggiato male lo zoccolo sinistro, e c’era stato un crack! secco che era risuonato fra le pareti del soggiorno. La zampa anteriore era rotolata via, finendo contro la parete della stalla di cartone, ed era rimasta a giacere immobile fino a che Beth non l’aveva raccolta.

Beth strinse la cavallina di plastica con entrambe le mani e tornò a guardarla dritta nel muso con occhi accusatori e penetranti. Occhi da Rick. “Visto cos’hai combinato?” Corrugò il broncio che le immusoniva il visetto incorniciato dalle ciocche bionde, e la sua voce si fece più aspra, le piccole dita strette attorno al corpo di Peach sbiancarono per lo sforzo. “È colpa tua che non sei capace di saltare in alto, uffi.”

L’uccellino di legno sgusciò fuori dalla casetta spolverata di neve finta che componeva l’orologio a cucù, spalancò il becco e le ali, e il suo cinguettio scandì l’ora appena scoccata.

Beth sollevò il visetto e i suoi occhi si posarono sul quadrante dell’orologio sotto l’uccellino che stava fischiando gli ultimi cinguettii. La lancetta dei secondi passò il numero dodici e continuò a battere regolare il suo tic-toc. Le altre due lancette più tozze segnavano le dieci e mezza di mattina.

Beth arricciò una smorfia di disappunto e si grattò dietro l’orecchio, dove una delle forcine aveva preso a prudere. Papà non esce dal garage prima di mezzogiorno, quando lavora tutta la notte, ragionò. Rigirò il corpo ferito di Peach, la sua zampa anteriore spaccata di netto all’altezza del garretto, e soffiò un altro sbuffo di delusione che le gonfiò le guance. Però Peach è rotta e non posso continuare a giocare se ha male alla zampa. E non posso nemmeno portarla alla gita, e papà aveva promesso che mi portava in gita, oggi! Me l’aveva promesso! Il cuoricino batté un palpito più rabbioso che le infiammò il sangue e salì a bruciare all’altezza delle guance arrossite. Le sue manine ancora strette attorno alla cavallina di plastica ebbero un fremito. Aveva promesso che sarebbe stata la nostra giornata speciale!

Beth saltò in piedi rimbalzando di un saltello di lato per non calpestare un pezzo di staccionata, si lisciò le pieghe della salopette che si era sgualcita, e corse via facendo rimbalzare il ciaf!ciaf! delle ciabatte a forma di orsacchiotto lungo il corridoio. “Ti porto da papà.” Strinse Peach al petto e accelerò, sentendo il cuoricino battere di sollievo e i piedini alleggerirsi per la contentezza. “Papà ti aggiusta e poi ci porta in gita.” Passò attraverso la cucina che profumava di waffles stantii, di toast bruciacchiati e di fondi di caffè, e corse verso la porta interna del garage.

 

.

 

Beth salì sulle punte dei piedini e tese la manina che non reggeva Peach per raggiungere l’interruttore della luce, agitò le piccole dita che profumavano della plastica dei cavallini e dell’erba secca con cui aveva riempito la stalla intagliata nella scatola di scarpe. Sfiorò l’interruttore, la mano scivolò, e lei dovette compiere un saltello per riuscire a premerlo. Click! La lampadina incastrata nello spigolo del soffitto si accese e rischiarì il corridoio di casa che imboccava la porta del garage. Beth scese dalle punte dei piedini, compì un passetto all’indietro tenendo il viso alto, e studiò il secondo interruttore – quello della luce interna del garage che non aveva toccato. Corrugò un sopracciglio in un’espressione dubbiosa. La levetta era sollevata, spenta, e Beth non la spinse. Rick le aveva sempre detto di non accendere mai la luce del garage mentre lui lavorava, e a Rick davano sempre fastidio i bagliori troppo forti quando usciva dal laboratorio dopo averci trascorso tutta la notte o l’intera giornata. Beth scrollò il capo, si tolse dalla mente l’immagine di Rick che si premeva le mani contro gli occhi, sopprimendo un rantolo di dolore contro i palmi per resistere alla bomba di luce spanta dalla lampadina interna del garage, e lasciò stare.

Si infilò Peach nella tasca della salopette e dovette di nuovo tendere le braccia e salire sulle punte dei piedini ciabattati per appendersi al pomello della porticina. Lo chiuse fra le manine, strinse la punta della lingua fra i denti corrugando un’espressione concentrata, e fece forza con i polsi per girarlo a sinistra. Clack! La serratura scattò, i cardini emisero un primo sottile cigolio, e il peso di Beth ancora aggrappata al pomello spinse l’anta verso l’interno, trascinandola sul pavimento. La porta urtò qualcosa, sollevò un sottile clangore di latta che rotola e che sbatte su un’altra superficie, e nella fessura fra l’anta e lo stipite si allungò una lama di luce gialla che penetrò nel garage, tagliando l’ambiente buio colorato solo da un riverbero verde fosforescente. Beth mollò il pomello, scese dalle punte dei piedi riappoggiando il peso sulle ciabatte a orsacchiotto, e arricciò la punta del nasino resistendo all’odore di chiuso, a quello metallico del rame, e a quello più pungente e dolciastro dell’alcol che salì a bruciarle le narici. Restrinse le palpebre, appoggiò una manina alla porta, la spinse ancora di poco tornando a urtare quel suono di latta che rotolò sul pavimento, e sbirciò nel garage finendo investita dal riverbero fluorescente che le tinse le guance di verde.

Lo chiamò con un sussurro cauto, un flebile soffio della sua voce da bambina. “Papà?”

Il raggio di luce gialla proveniente dal corridoio si stiracchiò all’interno del garage, attraversò il pavimento e luccicò sulla lattina di birra che era appena rotolata lontano. Altre lattine giacevano sul pavimento, alcune in piedi e altre ribaltate, a gocciolare gli ultimi rivoletti schiumosi sui fogli e sui fascicoli sparsi a terra, come se lo scaffale dell’archivio fosse esploso. Cristalli viola dalle estremità appuntite e irregolari, raccolti in uno degli scatoloni accostati alla parete, sotto gli scomparti dell’archivio, spandevano la loro luce in mezzo al riverbero verde fluorescente e coloravano di lilla gli altri scatoloni gonfi di cartelle rigide che tenevano fermi i fogli di appunti. Quei portadocumenti ricordarono a Beth tante bocche che hanno voluto ingoiare troppi marsh-mellows e che ora non riuscivano a chiudersi.

Beth aprì di più la porta sollevando un altro cigolio dei cardini, urtò altre lattine, e il clangore metallico ruzzolò nel silenzio del garage, interrotto solo da un ronzio sottile e continuo proveniente dalla parete. La lama di luce gettata dal corridoio si allungò, raccolse l’ombra di Beth stendendo anche quella all’interno del garage, valicò il tappeto di lattine scintillanti, di scatole di cartone con dentro cartelle e rotoli di rame, di colonne di fogli pinzati e tenuti fermi da fasci di elastici, e raggiunse il tavolo da lavoro. Il profilo di Rick giaceva chino sul banco, un braccio a cadergli lungo il fianco, la mano sottile emersa dall’orlo del camice ancora stretta alla fiasca di alluminio che gocciolava su altri fogli sparsi come enormi petali bianchi fra le gambe della sedia girevole, e il capo girato. La guancia premuta sul tavolo, in mezzo ad altre tre lattine di birra e a due colonne di fogli spiegazzati in cui Beth intravedeva dei disegni a forma di vortice, e i capelli scompigliati illuminati dal riverbero verde che si faceva più intenso attorno a lui, come se stesse provenendo dal tavolo stesso. La schiena ricurva era immobile, come se non stesse nemmeno respirando.

Beth soffiò un respiro più pesante per abituarsi all’aria fitta, umida e ferrosa che aleggiava fra le pareti del garage, e si portò una manina attorno alla bocca. Lo chiamò di nuovo, un po’ più forte, ma sempre mormorando. “Papà, dormi?” La sua vocina cadde inascoltata, come il trillo di una moneta gettata nelle profondità di un pozzo. Rick non rispose, non un sussulto, non un sibilo, e rimase immobile, chino sul tavolo, con un braccio cadente e l’altro raccolto attorno al viso schiacciato sul banco. A riempire il silenzio del garage c’era solo quel ronzio sottile ed elettrico, simile a quello che faceva la loro zanzariera quando d’estate l’appendevano fuori dalla porta di casa.

Beth mollò l’orlo della porta, salì sulle punte dei piedini felpati dalle ciabatte a orsacchiotto, e allungò un primo timido passo dentro il garage. Schivò un mucchio di lattine ribaltate da cui proveniva un oleoso e ruvido odore di birra rafferma. Superò un fascicolo di fogli emersi da una delle scatole di cartone fra cui spiccava il disegno di una navicella a forma di disco, protetta da una cupola di vetro e affiancata da due bidoni della spazzatura sezionati a metà. Saltò oltre un rigagnolo di birra che era gocciolata lungo fogli di calcolo riempiti da colonne di scritte nere in cui spiccavano numeri e lettere mescolati, schivò un’altra scatola di cartone che conteneva un cubo di acciaio azzurro marchiato da una grossa croce blu e da cui emergeva un pulsante rotondo sulla cima, compì un passetto di lato per non impigliarsi con le ciabatte in uno dei fasci di fili di rame che serpeggiavano in mezzo agli altri blocchi di appunti, e raggiunse il tavolo da lavoro.

Beth piegò la testolina di lato facendo ricadere i capelli dietro la spalla, corrugò le sopracciglia assottigliando le palpebre per resistere al riverbero verde, e sollevò lo sguardo verso il profilo di Rick. Andò in cerca del suo viso rintanato contro l’incavo del gomito piegato contro il suo capo riverso in mezzo alle lattine, accanto alla cassetta degli attrezzi scoperchiata, e non lo trovò. Beth tornò a corrugare un broncio di disappunto e strinse i pugnetti sui fianchi, parlò con voce più alta. “Papà.” Non aspettò risposta. Raggiunse il braccio di Rick che cadeva verso il pavimento, si appese alla manica del camice sporco di olio nero, e lo scosse per tre volte. “Papà, ti svegli?”

Il corpo di Rick si scosse in un sussulto, come se Beth lo avesse punto, tirò un risucchio di fiato e le sue spalle si irrigidirono in uno spasmo che attraversò anche le gambe e il braccio cadente. Rick sollevò di colpo la faccia dall’incavo del gomito, finì inondato dalla luce verde che gli fece stringere una smorfia di dolore, e urtò una delle lattine con la tempia. La lattina si ribaltò, rotolò in mezzo ai frammenti di cristalli viola sparsi sul bancone e volò giù dal tavolo, schiantandosi accanto ai suoi piedi. “C-chi è?” Rick guardò in alto, verso la lavagna di sughero dove aveva pinzato una mappa del Sistema Solare circondata da altri foglietti che contenevano spirali, frecce puntate verso i pianeti che sfociavano in altre colonne di calcolo, e sbatté più volte gli occhi rossi e appannati di sonno. Una palpebra più gonfia tornò a socchiudersi. Rick fece strisciare sul tavolo la mano che non impugnava la fiasca e si strofinò i capelli arruffati che brillavano di verde. Emise un altro lungo sospiro esausto che gli inasprì la voce già impastata dall’alcol. “D-d-dove sono...”

Beth sciolse la presa delle dita dalla manica del camice, compì un passetto all’indietro e tornò a stringere i pugnetti sui fianchi. “Papà, sono io.” Sul suo visetto era tornato a impietrirsi quel broncio buio e scocciato che le teneva la fronte aggrottata e le guance rigonfie.

Rick sbatacchiò le palpebre cerchiate da profonde occhiaie color fumo, si diede un’altra strofinata ai capelli, e il suo gomito urtò le fascette di rame in mezzo ai cacciavite, alle pinze d’acciaio, ai rotoli di fil di ferro e a quelli di nastro isolante. Aprì e richiuse le labbra grigie come il resto della sua faccia, e soffiò un rauco ansito trascinato. “Beth?” Si girò verso di lei, abbassando la fronte, e un brivido di insicurezza e timore gli attraversò gli occhi. Il suo viso si tese, lo sguardo si accese di una luce più aguzza, sulla difensiva, e le dita stridettero attorno alla fiasca che ancora reggeva fra le dita. “Q-quale sei, tu?”

Beth rinnovò lo sguardo da offesa arricciando la punta del nasino. “Sono Beth,” sbottò. “Siamo a casa, papà. Nel garage.”

“G-garage...” Rick tornò a posare gli occhi sul tavolo, li fece correre in mezzo alle pile di fogli inchiostrati, e un altro lampo di allarme gli attraversò lo sguardo, gli fece sgranare le palpebre. Sollevò una delle lattine di birra ribaltate e gocciolanti che sbrodolò una chiazza accanto alla cassetta per gli attrezzi, raccolse le pinze che aveva usato per tranciare i fasci di rame, spostò due fascicoli di cartoncino rigido da cui si staccarono un paio di fogli che piovvero a terra, e prese a sussurrare a labbra strette. “Dove l’ho messo, dove l’ho messo, dove...” Raggiunse uno dei fogli tappezzati da colonne di calcoli in cui si mescolavano lettere, numeri, frecce e simboli che Beth non riusciva a decifrare, e le sue pupille ristrette per la poca luce schizzarono da una riga all’altra, rileggendo più volte l’intera pagina. La sottile mano di Rick tremolò, le dita strinsero sull’orlo della carta facendola scricchiolare, e tornarono a rilassarsi. La rigidezza impietrita sul suo viso si distese, le sue palpebre sbatterono, e dalle sue labbra soffiò un soffio di voce più fioco che sciolse tutta la tensione. “Ooh. Il garage,” borbottò Rick. “S-sono ancora qua.” Rilassò le spalle contro lo schienale della sedia che emise un sottile cigolio, allentò la pressione delle dita che reggevano la pagina, e lasciò piovere il foglio sul tavolo, in mezzo alle lattine rovesciate e agli altri strumenti da lavoro.

Beth salì sulle punte dei piedi, tese lo sguardo sollevando il mento, e sbirciò la pagina che Rick aveva lasciato cadere. In mezzo alle colonne infittite di numeri e di lettere, riuscì a riconoscere solo una scritta grande il triplo delle altre e cerchiata con il pennarello grosso, quello indelebile. ‘C-137’.

Rick sbatté di nuovo le palpebre livide e rigonfie, reclinò la nuca per rivolgere lo sguardo al soffitto e si prese la fronte con la mano che non reggeva la fiasca. Sogghignò. Un velo di sollievo e allo stesso tempo di delusione gli attraversò il viso scarno e reso cinereo dal buio dell’ambiente. “Nel garage,” tornò a mormorare. Si passò la mano sul viso, come a raschiare via la patina di sonno e stanchezza dalla pelle, spinse le nocche contro gli occhi per stropicciarsi le palpebre, e la sua voce tornò a graffiargli la gola con tono più aspro. “Q-quante volte ti devo dire di non entrare nel garage senza avvertirmi, Beth?” Sollevò il braccio che reggeva ancora la fiasca gocciolante e la ribaltò. Le diede una scrollata. Due piccole e ultime gocce di vodka piovvero sul tavolo e imperlarono la superficie d’acciaio della cassetta degli attrezzi. “P-p-potrebbe esserci un buco nero s-sul pavimento, o un v-varco temporale sotto il tavolo, o c-chissà quali altre merde che potrebbero materializzarsi e farti esplodere m-mentre tu t-t-te ne stai con le spalle girate.” Diede una spinta alla sedia girevole, la fece ruotare in modo da voltarsi verso Beth, e piegò i gomiti sulle ginocchia. Chinò le spalle, fronteggiò il visetto imbronciato di sua figlia, e finì coronato dal riverbero verde fosforescente che brillò sul bianco del camice attorno alle spalle e attraverso i suoi capelli scompigliati. “Come mai sei sveglia così presto?” le domandò con tono più morbido. “N-n-non è domenica? Sai che papà lavora fino a tardi e che non può salire in casa.”

Il viso aggrottato di Beth si fece più triste, gli occhi persero la scintilla di rabbia e si velarono di sconforto, della stessa delusione che aveva provato quando aveva sentito il crack! della zampa di Peach spezzarsi dopo il salto. “Peach è rotta.” Immerse le manine nella tasca della salopette, raccolse la cavallina ferita e l’anteriore sinistro spaccato all’altezza del garretto, e porse tutto a Rick. “Ha fatto un salto troppo alto e si è spaccata la zampa.”

Rick sospirò e raccolse Peach dalle sue manine. “Fai vedere a papà.” Portò la cavallina e l’anteriore sinistro in un punto dove la luce verde era più forte, rigirò entrambi, fece aderire la zampa al moncone, dove il rilievo della balzana bianca combaciava, e scrollò le spalle. “M-mettici la super colla,” disse a Beth. “Quella n-nel cassetto degli attrezzi accanto alle vernici per le scarpe.”

Beth tornò a mostrargli il broncio e scosse il capo facendo oscillare i capelli sulle spalle. “Aggiusta tu,” disse. “Tu aggiusti meglio, come quella volta che mi hai aggiustato Lady Clover quando si era staccata la testa.”

Rick tornò a chinare le spalle per guardarla in viso, sollevò un sopracciglio, e la scrutò con quegli occhi appesantiti dalla stanchezza e arrossati dall’alcol. “T-t-tu le avevi staccato la testa, Beth,” precisò.

Beth annodò le braccia al petto e batté un piedino ciabattato a terra. “Aggiustami Peach,” insistette.

Rick soffiò un altro sospiro esasperato, raddrizzò le spalle e mostrò i palmi aperti in segno di resa. “E va bene. Va bene.” Aprì la mano libera sul ginocchio, la strinse per raccogliere le energie attraverso i muscoli, e si alzò con un grugnito facendo cigolare la sedia girevole. Spinse la mano sul fianco, affondò le dita fra le pieghe del camice strizzandosi l’anca, e reclinò le spalle all’indietro stropicciando il viso in una smorfia di dolore. Soffiò un sospiro pesante, si riprese, e si chinò a raccogliere Beth. “Ecco.” La prese in braccio e la fece sedere al suo posto, davanti al tavolo da lavoro. “M-mettiti qui e non poggiare i piedi per terra, non ti muovere e non toccare niente.”

Beth fece dondolare i musi da orsacchiotto che le felpavano i piedini, e annuì. “Okay.”

Rick tornò a rigirare Peach davanti al suo sguardo corrugato, e si spostò verso la parte più buia del garage, dove erano accostati al muro tutti gli scaffali d’acciaio che traboccavano di scatoloni e fascicoli. Diede un calcio a una lattina vuota che rimbalzò e tornò a giacere immobile sul pavimento, e si immerse nell’ombra.

Beth si sporse dalla seggiola, seguì Rick con lo sguardo finché lui non svanì dalla sua vista, inghiottito dal buio, e non riuscì a contenere un sorriso di entusiasmo. Che bello, papà fa la magia dello scienziato! Le sue gambette dondolarono più velocemente, un groviglio di emozione e impazienza le si ingarbugliò in fondo allo stomaco, e anche i palpiti del cuoricino batterono più forte. Adesso aggiusta Peach e lo riesce a fare perché è il più intelligente del mondo e nessun altro riuscirebbe a farlo bene come lo fa lui.

La luce verde fosforescente che riempiva le pareti del garage e che allungava le ombre degli attrezzi, degli scaffali e degli scatoloni fino al tetto si era fatta più intensa ora che Rick si era alzato dalla sedia e che si era allontanato dal tavolo. Beth ruotò la coda dell’occhio verso il banco da lavoro dove i fili di rame accanto alla cassetta per gli attrezzi gettavano le loro scintille sulle pile di fogli, e finì catturata da un bulbo di riverbero che brillava come la lampadina che ogni tanto la mamma agganciava alla presa della corrente nella sua cameretta, quando Beth aveva paura a dormire al buio. Beth girò il viso, restrinse le palpebre per resistere alla forte luce verde, e sbirciò da dietro la ciocca di capelli che era sfuggita a una delle forcine. Le pupille fisse sul bulbo di luce verde si dilatarono di meraviglia.

Che cos’è quella?

Beth fece ruotare la sedia girevole sollevando un lieve cigolio, si appese al bordo del tavolo screpolato e si tirò in avanti per sporgere le spalle e avvicinarsi all’oggetto che brillava di verde nella nicchia fra il tavolo e lo spigolo della parete.

La grossa prolunga color arancio – quella che usavano per agganciare le luci di Natale – era fissata alla presa della corrente e si arrotolava attorno a una pistola bianca dalla volata piatta e larga, simile a quelle che usavano nei supermercati per prendere i prezzi. Il cavo arancio della prolunga si infilava nell’impugnatura della pistola ed era tenuto fermo con giri e giri di nastro adesivo isolante color argento. La lampadina avvitata sulla parte piatta della pistola gettava la forte e accecante luce verde dal suo bulbo, e splendeva anche in un piccolo quadrante rettangolare posto sopra una manovella che sbucava sopra l’impugnatura. Il ronzio simile a quello di una zanzariera elettrica veniva dalla pistola. Sottili ramificazioni di corrente serpeggiavano all’interno del bulbo, carezzavano la superficie interna della lampadina e si ritiravano arrotolandosi come tentacoli.

Beth socchiuse le labbra, traendo un sospiro di stupore e incanto che le riempì il cuoricino di calore, e i suoi occhi sgranati scintillarono come stelle, catturando tutta la luce gettata dalla lampadina sulla pistola. Bella! Staccò una mano dal bordo del tavolo, allungò il braccio sopra il banco da lavoro, e sfiorò il bulbo di vetro con l’unghia dell’indice. Una sottilissima carica elettrica le pizzicò la pelle, come un ago di spillo sfregato contro il polpastrello, e i tentacoli di corrente verde all’interno della lampadina scossero con più forza le punte delle loro spire.

Un cigolio trascinato strisciò lungo il pavimento e fece eco nel silenzio del garage. Rick diede un calcio a un intreccio di cavi di gomma isolante per farsi spazio, tornò a chinare le spalle, e spinse ancora il piccolo carrello d’alluminio su cui era riposto quello che a Beth sembrava il loro vecchio forno a microonde – quello che mamma aveva dato a Rick perché lo portasse a smaltire in discarica. Fili di gomma rossi e blu, tenuti insieme da fascette in velcro, penetravano nel dorso del microonde. Una lampadina gialla brillava dietro la porticina di vetro, e un secondo pannello – una tastiera con numeri e altri simboli che Beth non riconosceva – era fissato sotto le manopole e i due pulsanti più grossi, uno di accensione e uno per aprire lo sportello. “Ecco.” Rick si passò una mano fra i capelli, si diede una strofinata dietro l’orecchio, e raccolse Peach dalla tasca del camice dove l’aveva infilata. “O-ora aggiusto il cavallo.”

“Cavalla,” lo corresse Beth. “È una femmina.”

Rick fece roteare lo sguardo. “Sì, cavalla.” Spinse il pollice contro uno dei due pulsanti più grossi, la porticina trasparente si aprì da sola con uno scatto e il riverbero della lampadina gialla si unì a quello verde proveniente dalla pistola sul tavolo da lavoro. Rick infilò Peach nel forno a microonde, stendendola sul fianco, e tirò fuori dalla tasca anche l’anteriore sinistro rotto.  Rigirò la zampa fra le dita. “S-solo aggiustare la zampa?” chiese a Beth. “Non vorresti, tipo, cambiarle colore o, che ne so, farla più grande.” Ridacchiò. “Posso anche farle sbucare le corna da toro e...”

Beth sobbalzò. “No, solo aggiustare la zampa!” esclamò. “Non voglio le corna.”

“Va bene, va bene.” Rick infilò anche la zampa nel microonde e richiuse la porticina. “Niente corna, solo zampa.” Pigiò una sequenza di numeri sul pannello, facendo brillare i tasti a ogni pigiata, diede tre giri in senso antiorario a una delle due manopole, e dal forno partì un sottile ronzio. “Sooolo zampa.” Rick premette l’altro dei due pulsanti più grossi e si spostò di un passo all’indietro. La lampadina aumentò di intensità, il ronzio divenne un fischio che fece vibrare il carrello di alluminio, e la luce si dilatò ingoiando l’intero forno a microonde. Saette serpeggianti si agitarono contro il vetro dello sportello, uno scoppio esplose all’interno del forno e rigettò una bolla di fumo grigio e bitorzoluto. La luce si spense facendo diminuire il fischio, fili di vapore grigio evaporarono dagli spazi attorno alla porticina, e il forno smise di tremare. Rick tornò a premere lo stesso pulsante, sganciò lo sportello e fece uscire la risacca di fumo che odorava di bruciato. “Pronta.” Infilò la mano nel microonde, affondandola nella nebbia, e afferrò qualcosa. “Come nuova.” Estrasse il braccio e aprì la mano davanti a Beth.

Peach giaceva sul fianco, le zampe tese in una falcata di galoppo, la criniera e la coda al vento, e il muso teso, gonfio per lo sforzo della corsa. L’anteriore era perfettamente attaccato all’altezza del garretto, e i segni della balzana combaciavano all’altezza della frattura scomparsa. Come nuova.

Beth sgranò gli occhi, e tutta la preoccupazione che si era appesantita attorno al suo cuore svanì, soffiata via dal sospiro di sollievo che le alleggerì i polmoni. Il viso le si illuminò di gioia. “Peach!” Balzò giù dalla sedia, atterrò con i piedini sopra uno dei cavi di gomma che serpeggiavano attraverso il pavimento, e si gettò ad abbracciare la cavallina che Rick che stava porgendo. La strinse al petto e strofinò la guancia sul suo musetto di plastica. “Sei tutta nuova, ora torni a fare i salti come prima.”

Rick si lisciò una piega del camice sbavato da una macchia di olio nero, urtò una delle lattine con un piede, si chinò a spostarla facendola rotolare sotto gli scomparti a parete, e ne raccolse una ancora piena. “Hai già fatto colazione?” domandò a Beth. “Hai fame?” Spinse il pollice sotto la linguetta di alluminio – cli-clack! – aprì la lattina e gettò il capo all’indietro per ingoiare un paio di sorsate di birra.

Beth tenne Peach stretta al petto e annuì. “Ho mangiato i Froot Loops e le uova strapazzate che erano avanzate in frigo.”

Rick scollò la bocca dalla lattina, sospirò per riprendere fiato, e si passò la manica del camice sulle labbra. “S-sono avanzati i pancake?” Rovesciò la lattina, e dalla linguetta di alluminio piovvero le ultime goccioline di schiuma che chiazzarono l’ala di cartone di uno degli scatoloni aperti. L’aveva tracannata tutta. Rick si strinse nelle spalle e gettò via anche quella. “Ormai sono sveglio, t-tanto vale che mangi qualcosa anch’io.”

Beth strinse Peach fra il braccio e il fianco e batté le mani. “Mangiamo fuori, mangiamo fuori!” Saltellò a piedi pari, di nuovo colta da quel formicolio di eccitazione che le scaldò il petto.

Rick corrugò un sopracciglio. Gli occhi socchiusi, gonfi e rossi di sonno, e scavati nella penombra assunsero una sfumatura interrogativa. “Fuori?”

Beth tornò ferma e annuì. “Avevi promesso che oggi era la nostra giornata speciale,” esclamò. “Che oggi passavi tutto il tempo con me e che mi portavi a fare la gita. Andiamo a fare la gita e ci fermiamo a fare la seconda colazione fuori! Possiamo, possiamo?”

Rick infilò la mano sotto il colletto aperto del camice e si massaggiò la nuca sopprimendo una smorfia, rivolse lo sguardo al soffitto e sbatté due volte le palpebre annerite di stanchezza davanti a quegli occhi gonfi e gelatinosi. Una scintilla di illuminazione gli balenò attraverso il viso tinto dal riverbero verde. “Ooh, già.” Si passò la mano fra i capelli spettinati, affondò il viso fra i palmi e si massaggiò le tempie e la fronte. “La giornata assieme,” sospirò con tono più rauco e trascinato, impastato dalla birra che aveva appena prosciugato.

Beth gonfiò un piccolo broncio che le fece cadere il sorriso, si mise a braccia conserte, batté il piedino ciabattato per terra e guardò Rick di traverso nel modo in cui lo faceva sempre la mamma. “Non ti eri dimenticato, vero?”

“N-n-non dire idiozie,” ribatté Rick, “non mi dimentico niente, io.” Tornò a spingere il carrellino con il forno, spostò di nuovo uno dei cavi che strisciavano lungo il pavimento accanto agli scatoloni, e fece rotolare via la lattina che aveva appena prosciugato e che aveva fatto cadere ai suoi piedi. Si strofinò le mani e le ripulì sui fianchi del camice già sciupati sbavati di grigio. “E va bene,” annunciò. “Giornata con papà sia. M-ma s-solo se ci fermiamo a far colazione da Shoney’s.”

Beth tornò a stendere un sorriso smagliante e impennò il braccio sopra la testa. Saltellò sul posto facendo sventolare la mano che non reggeva Peach. “Uh, io prendo le salsicce! Io voglio le salsicce!” Balzò oltre un intreccio di cavi di gomma e imboccò l’uscita del garage segnata dalla lama di luce che entrava dalla porta socchiusa.

Rick stese il braccio per raggiungerla, infilò le punte delle dita sotto una bretella della sua salopette e la tirò delicatamente indietro. “Ehi, ehi, non correre qua dentro, ti fai male.” Si rimboccò le maniche del camice, si piegò sulle ginocchia per non far schioccare la schiena ancora indolenzita, e raccolse Beth fra le braccia. “Su, in braccio con papà. Così n-n-non rischi di calpestare merde dallo spazio.” La sollevò caricandosela fra gli incavi dei gomiti, le diede una spintarella per non farla scivolare, le scostò una ciocca di capelli che si era incastrata fra le loro spalle, e calciò via un’altra lattina per farsi spazio.

Beth ridacchiò, si aggrappò con le braccia attorno al collo di Rick e strinse le piccole dita sulla stoffa del camice, senza lasciar cadere Peach. Spinse la guancia contro la spalla di papà, reclinò il capo finendo solleticata da una sua ciocca di capelli, e si lasciò cullare dalla camminata lenta che portò entrambi verso l’uscita del garage. Beth socchiuse gli occhi, si abbandonò all’abbraccio saldo e sicuro di Rick, respirò tutti i suoi profumi, e un caldo senso di pace la avvolse. Odore di alcol, di camice vecchio, di olio lubrificante e di polvere di rame, di quell’umido fitto che ti entra nelle ossa, di tutto l’olezzo del garage che però si mescolava anche con quello un po’ acidulo, simile a quello della benzina, del sudore mescolato all’Acqua di Colonia. Quel profumo che però sapeva farla sentire al sicuro più di ogni altra cosa.

Beth sollevò la manina che impugnava Peach, rigirò la cavallina lasciando che un filo di luce scivolasse sopra la zampa liscia e aggiustata, e sorrise, di nuovo solleticata dai capelli di Rick che le sfioravano il nasino. Il cuoricino pieno di gioia, contento di star battendo contro la spalla di papà e impaziente di vivere la giornata che li aspettava.

 

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Beth strinse forte le mani sugli orli della pagina color arancio che Rick le aveva dato quando erano rimontati in auto, dopo la sosta per la seconda colazione. Sgranò le palpebre facendo scintillare gli occhi di meraviglia, con ancora più intensità rispetto a quando aveva scoperto la pistola con la lampadina verde agganciata alla corrente, e trasse un lungo sospiro che le gonfiò il cuore di gioia. “Una fiera di cavalli?” Si strinse il volantino al petto, contro il cappotto dove aveva infilato Peach, e rivolse lo sguardo luccicante e rosso di emozione al posto del guidatore, verso Rick. Fece di nuovo dondolare le gambette dal suo sedile. Sentì il pancino iniziare a formicolare per l’eccitazione, come quando stava scartando un regalo o stava per salire su un ottovolante al parco divertimenti, anche adesso che era pieno di tutti i French Toast e delle salsicce che aveva appena mangiato da Shoney’s.

Rick fece scivolare il palmo della mano contro l’arco del volante screpolato, rallentò per imboccare una curva, e distolse per un attimo gli occhi dal parabrezza per rivolgerli al viso sorridente di Beth. “Sei contenta, tesoro?” Cambiò marcia e accelerò, sempre tenendo il volante con una mano sola. Sollevò la mano che reggeva la tazza di cartone che aveva portato via dal locale, bevve due sorsi di caffè bollente dal coperchio di plastica forato da un beccuccio, e si asciugò le labbra con la manica della giacca scamosciata che aveva indossato assieme al primo paio di jeans sbiaditi che aveva trovato in lavanderia. Da Shoney’s aveva tracannato altre cinque tazze di caffè senza zucchero, alternandole a due piatti di pancake che aveva invece spalmato con mazzi di fette di burro spesse come tessere di Domino e annaffiato con una cascata di sciroppo d’acero. Ora l’odore di caffè invadeva l’abitacolo della vecchia Subaru e superava persino quello di birra rafferma che proveniva dalle lattine vuote ammassate sui sedili posteriori.

Beth annuì allargando il sorriso raggiante, e fece dondolare le gambette più velocemente. “Tantissimissimo!” esclamò. “Te lo sei ricordato che volevo andarci.”

Rick prese un altro sorso di caffè dalla tazza di cartone. “Ovvio,” soffiò contro il coperchio di plastica. Rallentò l’auto, si fermò al semaforo rosso accanto a una Volvo grigia, e staccò la mano dal volante per aggiustare lo specchietto retrovisore, incrinato a un angolo, da cui pendeva il deodorante al pino che ormai non faceva più profumo. Un raggio di luce arancio entrò dai finestrini e si scontrò sullo specchietto appena sistemato. Sulla superficie rettangolare riflessero i filari di alberi piantati ai lati della strada. Foglie rosse, gialle, arancio e marroni gremivano i rami che si stavano spogliando, creavano un mosaico di luce abbagliato dai tiepidi raggi autunnali, e si scuotevano sotto le lievi carezze del vento che fischiava anche contro la carrozzeria dell’auto. Rick sorseggiò dell’altro caffè che si stava intiepidendo, e fece oscillare il bicchiere di cartone tenendo gli occhi ancora gonfi e rossi di laboratorio – e di postumi – sul semaforo davanti a sé. “L-l’altro giorno ho trovato il volantino dell’anno scorso. S-sai, quello che avevi conservato perché volevi andarci ma alla fine hai preso la tonsillite e sei dovuta rimanere a casa. Era finito in mezzo ai miei fascicoli.” Bevve ancora e diede una scrollata alla testa, come per scuotersi il cervello ancora intorpidito dall’alcol e dal brusco risveglio. “E allora m-m-mi sono detto: ‘Ehi, q-quest’anno faccio una sorpresa a Beth e l-la porto alla fiera come voleva’.” Scosse le spalle. “S-sarà felice, no?”

Beth annuì con foga e rinnovò il sorriso raggiante. “Sì!” Si staccò il volantino arancio dal petto e tornò a far correre gli occhi sulla colonna di scritte. Due cavallini impennati erano disegnati accanto al titolo in grassetto, grande il doppio rispetto alle altre scritte, circondato da vortici di foglie secche trascinate da spirali di vento.

 

 

Horses&Fall Country Feast

 

Rodeo

Concorso sociale di salto ostacoli

Giri sui pony

Gite in carrozza

Cucina locale

Intaglio delle zucche

Country dance

Tanto divertimento per tutta la famiglia!

 

 

Beth sentì il cuore battere più forte, le guance bruciarle di gioia, e i piedini continuarono a oscillare contro l’orlo del sedile, incapaci di stare fermi. “È il più bellissimo regalo del mondo.”

Rick abbozzò un mezzo sorriso contro l’orlo del bicchiere di cartone, scrutando il parabrezza attraverso il nastro di vapore al profumo di caffè che galleggiava davanti al suo volto. “T-ti avevo fatto una promessa o no?” Scattò il verde. Rick ingranò la marcia facendo cigolare la leva del cambio, diede una sgasata e ripartì. Il radiatore della vecchia Subaru emise un gorgoglio sinistro e riempì l’abitacolo di un forte odore di benzina, mescolandolo a quello di stoffa vecchia e di gomma consumata emanato dai sedili sfilacciati. “E io mantengo le promesse,” disse Rick. “O-ogni tanto. E s-solo quelle importanti.” Scrollò le spalle, flesse le sopracciglia in uno sguardo indifferente. “Quelle che mi interessano.” Bevve dell’altro caffè e continuò a guidare con una mano sola.

Beth posò il volantino sulle ginocchia, distese le dita di una mano e contò sulle punte. “Voglio prima fare un giro sui pony, poi uno in carrozza, poi un altro sui pony, poi voglio mangiare le pannocchie arrostite, poi voglio andare a intagliare le zucche.” Passò all’altra manina. “Poi voglio fare merenda con lo zucchero filato, e poi voglio andare a vedere la gara di salto.” Batté le mani e compì un rimbalzo sul sedile, premendo il peso contro la cintura di sicurezza che le passava attraverso il petto. “Papà, papà, in carrozza ci vieni anche tu, eh, ci vieni anche tu?”

“Sicuro.”  Rick gettò il capo all’indietro e bevve ancora dal bicchiere di caffè. Si staccò dal coperchio di plastica, trasse un sospiro rauco per raffreddare la lingua che si era scottata, e rivolse un indice a Beth continuando a tenere il contenitore di cartone fra le dita. “Ma niente country dance, sia chiaro.” Stese le punte delle falangi tenendo le dita rigide attorno al bicchiere, e tagliò l’aria di netto, spazzando via quell’ipotesi. “Q-q-quella proprio non potrei sopportarla.”

Beth scosse il capo facendo oscillare i capelli biondi sulle spalline del cappotto. “Nemmeno io.” Se papà dice la country dance fa schifo, ragionò, allora vuol dire che fa schifo davvero e nemmeno io voglio farla. Perché papà ha sempre ragione. Si spinse sull’orlo del sedile, si mise più vicina al posto di Rick finendo per grattarsi sotto l’abbraccio della cintura di sicurezza, e tornò a rileggere il volantino per la quinta volta, provando una forte stretta al petto ogni volta che incontrava le parole ‘Concorso sociale di salto ostacoli’ e ‘Giri sui pony’. Le sue guance si imporporarono. “Sarà la giornata più speciale di tutte, perché siamo io e te assieme.” Strinse di nuovo la pagina di cartoncino al petto e guardò Rick con occhi splendenti di emozione. “Vero, papà?”

Rick ricambiò con un piccolo sorriso. Un sorriso sobrio, anche se un po’ sbilenco, e anche i suoi occhi apparvero meno rossi, senza più la nebbia dell’alcol o del buio del garage ad appannarli. Un sorriso genuino e sereno. “Vero, tesoro.” Bevve un’altra sorsata di caffè dal bicchiere di cartone e continuò a guidare lungo la strada incorniciata d’autunno, illuminata da una distesa di raggi color arancio e oro che parevano aprirsi come un tappeto davanti a loro, davanti alla loro giornata speciale.

 

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Beth staccò una manina dal pomo della sella dove le avevano fatto arrotolare le redini, sollevò il braccio sopra la testa da cui pendeva il cappello da cowboy che il signore le aveva fatto indossare prima di farla salire sul pony, e sventolò un saluto in direzione di Rick che la guardava dalla staccionata. “Papà, mi guardi?” Il signore che teneva la longhina fece compiere al pony pezzato la curva del tondino dove stavano passeggiando altri due cavallini – uno palomino e uno con il manto Appaloosa – e Beth si sporse con le spalle all’indietro, sbirciando da sotto la visiera del capello per non perdere di vista Rick. Diede due piccole sgambate ai fianchi del pony, sui quartieri della piccola sella americana, e prese fiato per farsi sentire sopra lo zoccolare ritmico che spremeva il tappeto di terra fangosa, sopra qualche nitrito che proveniva dalle stalle, sopra il brusio delle altre persone che uscivano dal chiosco e che si dirigevano verso lo sprazzo di prato allestito per le carrozze, o che passavano sopra le foglie secche degli aceri che non avevano spazzato lungo il vialetto che dava al campo gara. “Papà, papà, guardami!” insistette Beth con voce più alta. “Guarda come cavalco!”

Rick incrociò lo sguardo sorridente di Beth che lo cercava da sotto il cappello da cowboy, snodò una mano dalle braccia che aveva intrecciato sullo steccato di legno su cui avevano steso ad asciugare alcuni sottosella, e anche lui la salutò con uno sventolio. “Ti guardo, ti guardo, Beth.” Abbassò il braccio, raccolse la lattina di Red Bull che reggeva nell’altra mano – l’aveva comprata all’ora di pranzo –, e bevve un sorso. Il muso sauro di Peach sbucava dalla tasca della giacca scamosciata. Accanto a Rick, gli altri genitori erano sporti sullo steccato del tondino, un paio di loro reggevano le telecamere fra le mani e salutavano i figli che stavano cavalcando assieme a Beth, altri tenevano per mano i bambini che aspettavano il loro turno, e le loro voci si mescolavano al brusio proveniente dai chioschi disposti sul prato e al frusciare delle chiome degli aceri rossi scossi dal vento. L’aria profumava di fieno, di terreno umido, di fango, di foglie appassite, di stalla, del cuoio delle selle, e del districante che avevano strofinato sui manti dei pony per farli apparire più lucidi.

L’uomo che teneva alla longhina il pony pezzato di Beth fermò il passo, fece pressione sul morso dell’animale, e lo fece fermare accanto al cancelletto d’uscita del tondino. “Eccoci,” annunciò. “Puoi scendere, Beth.”

Beth annuì. “Sì.” Fece anche lei pressione sulle redini, tenendole solo con le tre dita centrali, come aveva letto sul libro che la mamma le aveva regalato per il compleanno, e il pony pezzato tirò indietro la testolina dando una ruminata al morso da cui già colavano rivoli di schiuma bianca.

L’uomo della longhina si mise al fianco sinistro del pony e compì un passo all’indietro per lasciare spazio a Beth. “Da sinistra,” le spiegò con voce paziente. “Togli prima i piedi dalle staffe e poi datti una bella spinta con la gambetta destra per atterrare con i piedini pari.”

Beth annuì con convinzione. Sfilò le scarpe dalle grosse staffe di cuoio della sella americana, fece oscillare due volte le gambette tenendo le mani salde sul pomo infoderato d’argento, e si diede lo slancio. Atterrò a piedini pari sul suolo fangoso che emise un sonoro squish! sotto le sue suole, e la mano del signore la resse per le spalle, per non farla sbilanciare. “Eccoci,” le disse con tono entusiasta. “Bravissima, Beth.”

Beth sorrise orgogliosa. Infilò una manina nella tasca del cappotto ed estrasse un pezzetto di carota bollita. Lo aveva conservato quando lei e Rick avevano pranzato con lo spezzatino e il contorno di verdure dalle vaschette di plastica che vendevano al chiosco dove distribuivano anche i corn-dog, la grigliata di carne e le torte di zucca con la panna montata. Beth appiattì la mano distendendo per bene le dita – come aveva imparato dal suo libro – e mostrò al pony il pezzetto di carota che teneva sul palmo. “Ecco, Smaug,” gli disse, “tieni la carota.”

Smaug girò il muso, dilatò le narici soffiando un fiotto di alito caldo sulla manina di Beth, annusò la carota, e la strinse fra le labbra sporche di schiuma giallognola. Masticò avidamente, aprendo e chiudendo la bocca per via del morso che gli ingombrava la dentatura, ingoiò, e spinse il muso contro il petto di Beth per chiederne un’altra.

Beth rise, gli diede una carezza lungo il muso, fin sotto il vaporoso ciuffo bianco e nero che cadeva davanti al frontalino della testiera, e lo strofinò dietro la piccola orecchia. “Bravo cavallino.” Si tolse il cappello da cowboy, lo porse al signore che aveva guidato Smaug con la longhina, e saltellò verso l’uscita del tondino dove altri bambini aspettavano il turno accanto ai genitori.

L’uomo, alle sue spalle, chiamò in direzione dei bambini. “Chi è il prossimo?”

Uno di loro si staccò dal fianco di sua mamma, sventolò il braccio verso l’alto e sorrise di gioia. “Io, io, c’ero io!” Incrociò la camminata con Beth ed entrò nel tondino, dirigendosi verso Smaug.

Beth si spolverò le mani sul cappottino, sporcò la stoffa con i peli di cavallo che le erano rimasti incollati alle dita quando aveva dato la carezza a Smaug, e corse verso Rick. “Hai visto,” gli fece, compiendo un saltello sull’erba indurita dal freddo, “hai visto che brava?”

Rick si sporse a lanciare uno sguardo alle scarpette di Beth che si erano incrostate di fango sotto le suole e a cui erano rimasti incollati anche dei fili di paglia, e corrugò un’espressione di disappunto. “Avrei dovuto farti mettere gli stivali da pioggia.” Si staccò dalla staccionata e bevve un altro sorso dalla lattina di Red Bull. “Ora avrai le scarpe lerce.”

Beth scosse il capo. “No, sono tutte pulite.” Diede una strofinata alle suole, come se l’erba fosse stata uno zerbino, e tornò a mostrare a Rick quel sorriso smagliante e gonfio di aspettativa. Gli occhi luccicarono in cerca di approvazione. “Ma io sono stata brava, vero?”

Rick si incamminò lontano dal tondino, sgusciò in mezzo ad altri genitori che si stavano sporgendo dalla staccionata del tondino, e imboccò la stradina di sterrato che si immetteva fra i chioschi ombreggiati dalle chiome degli aceri rossi. Le diede una strofinata ai capelli e le sistemò una ciocca dietro l’orecchio. “La più brava di tutte.” Schivò i tavolini che avevano disposto fuori dalla bancarella che distribuiva la birra nei bicchieri di plastica, bevve un altro sorso dalla sua Red Bull, e si girò a buttare un’ultima occhiata al tondino dei pony. Nascose una risata di scherno dietro l’orlo della lattina. “C’era quel ragazzino, quello imbranato c-che stava dietro di te, che non riusciva nemmeno a tenere le redini in mano.”

Beth imitò la sua risata portandosi le manine davanti alla bocca, e le sue guance si spolverarono di rosa. “Perché è imbranato.” Saltellò in mezzo alle foglie secche che scricchiolarono sotto i suoi piedini, e superò assieme a Rick i vapori che aleggiavano dai chioschi – profumi di noccioline tostate e candite, di pastelle fritte, di salsicce abbrustolite, e di polpa di zucca intagliata. Lo zoccolare dei cavalli in carrozza che attraversavano le stradine sul prato si mescolava alle voci delle persone che camminavano sullo sterrato, allo sfrigolio della carne che veniva grigliata, a quello delle patate fritte, e all’eco della musica che si propagava dalla piccola piazzetta dove stavano ballando la country dance. Beth compì un passetto contro il fianco di Rick, per non perdersi, e infilò di nuovo le mani nella tasca da cui aveva estratto la carota per Smaug. Sollevò un fruscio cartaceo fra le dita. “Adesso, adesso...” Estrasse il volantino arancio che aveva piegato in quattro, lo aprì, e rilesse l’elenco aiutandosi con la punta dell’indice. “Adesso andiamo a prendere lo zucchero filato per fare merenda,” esclamò. “E poi andiamo a vedere la gara di salto!”

Rick abbandonò il capo in mezzo alle spalle traendo un sospiro esasperato. “Anche la gara di salto?” Tastò la tasca della sua giacca, incontrò il corpicino di Peach che stava ancora custodendo lui, e passò all’altro fianco. Raggiunse la fiasca, la stappò, e rovesciò parte della vodka dentro la lattina di Red Bull. “Ma n-non sei stanca?” Perse un sorso della miscela e strizzò le palpebre per resistere al bruciore improvviso.

Beth strinse i pugnetti sul foglio di cartoncino e gonfiò un broncio da offesa. “No, papà, dobbiamo ancora vedere la gara di salto.”

“E non preferisci il rodeo?” le propose Rick. “Q-quello comincia prima.”

Beth scosse il capo e gli saltellò davanti, facendo scricchiolare le foglie secche. “Gara di salto, gara di salto, gara di salto!”

“D’accordo, d’accordo,” si arrese Rick. “Gara di salto sia.” Prese un altro piccolo sorso di Vodka Red Bull, tenne le labbra accostate alla lattina, e fece roteare lo sguardo. Parlò pianissimo, a filo della latta. “Merda, mi sembri tua madre.”

Beth sentì un guizzo al cuore che la fece sentire sia triste che felice allo stesso tempo. Chinò la fronte, guardò in mezzo alle scarpe ancora incrostate di fango e paglia schiacciata, e sospirò. Ma io voglio sembrare te. Tornò a piegare il volantino in quattro, lo rinfilò nella tasca del cappotto, e l’occhio le cadde su una bancarella ombreggiata da una tendina bianca e rossa sotto la quale alcuni bambini erano in fila tenendo le mani ai genitori. Le persone uscivano dalla fila addentando vaporose nuvole di zucchero filato, una mamma porse a suo figlio lo stecco, una coppia di ragazzi spizzicò dallo stesso batuffolo, e altri si unirono alla coda. A Beth venne l’acquolina, gli occhi le brillarono di golosità, e lei si appese a una manica di Rick per tirarlo verso la bancarella. “Zucchero filato, papà!” esclamò. “C’è lo zucchero filato! Tu puoi prendere le noccioline se non ti piace.”

Rick si lasciò tiare saltellandole dietro, ribaltò la lattina di Red Bull, la scosse facendo piovere solo una gocciolina dall’orlo, e sospirò. “Per me solo un’altra Red Bull.” Lanciò la lattina contro il primo cestino a cui passò di fianco, e camminò dietro a Beth, a mettersi in fila per lo zucchero filato.

 

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Beth saltò i tre gradini che salivano sugli spalti della tribuna, sollevò il rimbombo della lastra d’acciaio sotto i suoi piedini, fece dondolare tutta la struttura prefabbricata che avevano disposto davanti al campo gara, e si infilò fra le file di poltroncine di plastica arancioni per raggiungere i posti al centro. Strinse la manina sullo stecco di legno attorno a cui era arrotolata la sua nuvola di zucchero filato, e si girò a chiamare Rick con il braccio libero. “Di qua, di qua, papà, ci mettiamo su quelli al centro, si vede meglio.”

Rick si aggrappò a una delle sbarre che sostenevano l’impalcatura, salì anche lui facendo tremolare la struttura sotto i suoi passi, e sfilò fra le seggiole passando accanto alle gambe di un uomo che spizzicava patatine fritte da una vaschetta di plastica bianca, sedendo da solo. Oltre all’uomo, c’erano solo altre sei persone sedute sulla tribuna davanti al campo gara. Rick calciò via un bicchiere di plastica vuoto e incrostato di schiuma di birra, lo fece rotolare sotto le poltroncine di plastica, calpestò un fazzoletto unto di olio di frittura, e avanzò sul pavimento di ferro sporco di cenere di sigaretta e su cui erano incollati i cadaveri stecchiti di gomme da masticare rosa e verdi. Prese un sorso dalla nuova lattina di Red Bull che aveva comprato al chiosco, fece un cenno a Beth col mento e le indicò i posti in cima. “C-cerca i posti in alto, altrimenti non vedi niente, sei bassa.”

Beth corrugò un broncio che le increspò il faccino in una smorfia offesa, serrò i pugni sui fianchi e batté un piede a terra. “Non sono bassa.”

Rick fece spallucce, bevve un altro sorso dalla Red Bull. “Ti tenevo sulle ginocchia, se vuoi.”

“So sedermi da sola, papà,” si lamentò Beth. “Ho sei anni!” Corse di altri tre saltelli e scelse due poltroncine al centro, a tre file dalla cima. Si arrampicò sulla sua – qualcuno ci aveva incollato sopra un adesivo dell’Hard Rock Cafè –, tenendo la mano alzata per non rischiare di schiacciare lo zucchero filato contro lo schienale, e si mise a sedere facendo oscillare i piedi che non toccavano il pavimento. Sgranò le palpebre, e i suoi occhi si riempirono dello scuro verde prato che formava il campo gara. Il suo sguardo luccicò di gioia come quando aveva stretto fra le mani il volantino della fiera o il corpo aggiustato di Peach. Beth trasse un sospiro di meraviglia. “Si vede tutto!”

Alcuni uomini erano radunati attorno alla staccionata che incorniciava il campo gara, alcuni in piedi e altri con le braccia incrociate sul legno, e uno di loro stringeva fra le mani il guinzaglio di un Border Collie accucciato ai suoi piedi. Cavalieri vestiti in pantaloni bianchi, stivali tirati a lucido, e con i cappotti pesanti buttati sopra le giacche nere, si aggiravano in mezzo agli ostacoli numerati che componevano il campo gara, accompagnati dagli istruttori che gli parlavano tracciando il percorso da un ostacolo all’altro. Nuvolette di condensa uscivano dalle loro bocche, alcune zolle di terra più molle si sfaldavano sotto i loro passi schiacciati con le suole degli stivali di cuoio nero. I cartellini numerati giacevano ai piedi dei pilieri, le bandierine di plastica bianche e rosse erano inserite sulla cima, le siepi riempivano gli oxer, un muretto color mattone occupava lo spazio sotto il verticale numero due, quello con le barriere rosse e bianche, e altri cancelletti bianchi riempivano gli ostacoli della doppia gabbia e della linea di due verticali che passava proprio sotto la tribuna della giuria. Beth aveva imparato tutto guardando i concorsi alla tv la domenica pomeriggio, quando Rick riusciva a sintonizzare i canali sulla parabola del vicino di casa.

Rick raggiunse la sua poltroncina e si lasciò cadere seduto. Si stravaccò e stese le gambe contro lo schienale del posto davanti, vuoto, accavallandoci i piedi sopra. Raccolse la fiasca di vodka dalla tasca della giacca, la stappò, ci rovesciò dentro quello che rimaneva della Red Bull, sgocciolò la lattina e la lanciò a terra, facendola rotolare fra i bicchieri di plastica vuoti e i mozziconi di sigaretta. Prese due sorsate di Vodka Red Bull, si strofinò la manica della giacca sulla bocca, e anche lui rivolse lo sguardo al campo gara ancora occupato da cavalieri e istruttori.

Un istruttore seguito da una nidiata di cinque allievi si avvicinò al primo verticale della linea disposta sotto la tribuna della giuria. Appiattì la schiena contro le barriere bianche e blu che gli arrivavano all’altezza della spalla, allungò un passo, e procedette fino al secondo verticale affondando altre falcate lunghe e profonde attraverso il prato. Gli allievi lo seguirono.

Rick corrugò un sopracciglio, seguì con lo sguardo i loro movimenti, e tamburellò le unghie sull’alluminio della fiasca. “C-che cosa diamine fanno con i piedi?” domandò a Beth.

Beth strappò un batuffolo di zucchero filato dal suo stecco e lo addentò. “Contano la distanza.” Lasciò sciogliere lo zucchero sulla lingua, diede una rosicchiata facendo scricchiolare i grani fra i molari, e continuò a dondolare le gambette che formicolavano per l’emozione. “Così sanno quanti salti di galoppo devono far fare al cavallo prima di saltare l’ostacolo.”

Rick mantenne quello sguardo interrogativo stampato sulla faccia e si girò a guardarla. “Chi ti ha insegnato?”

Beth si succhiò l’indice appiccicoso di zucchero. “C’era nel libro che mi ha regalato mamma per il compleanno.” Diede una leccata anche al pollice su cui era rimasto incollato uno sbuffo di filamenti bianchi. “Quello con tutti i disegni e le fotografie giganti e il poster delle razze dei cavalli che ho appeso sopra il letto.”

“Ah.” Rick fece oscillare la fiasca, sparse il pungente odore di vodka sotto il suo naso, tornò a guardare il campo. “Quello.” Reclinò il capo all’indietro e bevve altri due sorsi.

Un’altra famiglia si avvicinò alle scalette che risalivano l’impalcatura metallica. L’uomo – aveva una telecamera spenta allacciata al collo – si spostò e lasciò passare per primi i due bambini che si aggrapparono alle sbarre e si infilarono in mezzo alle poltroncine di plastica. La moglie rimboccò la bretella della borsetta attorno alla spalla e indicò la fila di poltroncine più in basso rispetto a quella dove sedevano Beth e Rick. “Ecco, mettiamoci su quei posti là,” disse. “Quei quattro là, così stiamo tutti vicini assieme.”

Il bambino più piccolo si appese al gomito di suo papà e saltellò in mezzo ai suoi piedi. “Papà, dove hai messo il sacchetto con le caramelle? Te l’avevo dato in tasca.”

La donna bloccò il figlio più grande che stava per andare a sedersi su una delle poltroncine. “No, no, fermo, non ti sedere ancora, aspetta ché lo pulisco con un Kleenex.”

Rick reclinò il capo all’indietro, buttò un’occhiata distratta alla famiglia, e sollevò un sopracciglio. Soppresse una risata contro l’orlo della fiasca, per poco non si strozzò con la sorsata di Vodka Red Bull che aveva appena ingoiato, e si sporse a punzecchiare Beth con una gomitata. “Ehi, ehi, guarda,” stese l’indice verso il bambino più grande, “l’imbranato delle redini.”

Beth squadrò a sua volta il bambino che era appena salito sull’impalcatura assieme ai genitori, restrinse le palpebre – riconobbe il suo cappello verde, la cuffia di lana che gli copriva le orecchie –, e si abbassò dietro la nuvola di zucchero filato per nascondere una ridacchiata cattiva come quella di Rick. “Imbranato.”

“Ehi, ehi, Beth,” le fece ancora Rick, “dici che fa anche lui il concorso?”

Beth scosse il capo. “No,” rispose, maligna. “Quello cade. È un imbranato.” Diede un altro morso al suo zucchero e ridacchiò di nuovo.

La famiglia si spostò fra le poltroncine di plastica attraverso la fila che aveva indicato la donna, quella sotto Rick e Beth, e la madre si fermò davanti al posto su cui Rick aveva accavallato le gambe. La donna guadagnò un respiro profondo, abbassò le palpebre come per non far notare le rughe di irritazione che le avevano contratto la fronte sotto le ciocche di capelli mossi, e si rivolse a Rick con voce smielata ma stridente. “Mi scusi.” Rimboccò la tracolla della borsetta e gettò a Rick un’occhiata buia ma ancora calma. “Potrebbe gentilmente togliere i piedi dallo schienale? Dovremmo sederci.”

Rick ricambiò l’occhiataccia storta. Spostò lo sguardo attorno a lui, lo fece sfilare sul tizio che stava ancora smangiucchiando dalla vaschetta di patatine, sulle due donne che si stavano mostrando a vicenda delle fotografie dentro i portafogli, sull’uomo in prima fila che teneva le braccia incrociate sulla sbarra, e sui tre ragazzi più giovani seduti sui posti in ultima fila che chiacchieravano facendo passare fra le mani lo stesso sacchetto di noccioline candite da cui spizzicavano a turno. Tutte le altre poltroncine erano libere. Rick scrollò le spalle, non degnò la donna di uno sguardo e fece dondolare i piedi accavallati. “È pieno di posti liberi.”

“Ma noi vorremmo sederci qui.”

Rick tornò a fare spallucce. “P-problemi vostri.” Prese una rumorosa sorsata di Vodka Red Bull che suonò come una risata di scherno.

La donna stritolò le dita attorno alla cinghia laccata della borsetta, la sua mano tremò di rabbia, i suoi occhi si accesero come bracieri. “Ma lei chi si crede di essere per...”

Il marito le posò una mano sulla spalla e la bloccò con un mormorio. “No, no, dai, Claire, non ne vale la pena.” La spostò verso i posti più in basso, dove aveva già guidato i bambini. “Prendiamo altri posti.”

La donna lo trattenne e piantò la suola della scarpa a terra, il suo volto si indurì. “Se io decido di sedermi qui, allora io ho il sacrosanto diritto di...”

“Mettiamoci più in basso, Claire, ti prego.” Il marito tornò ad avvolgerle il braccio e le rivolse un’occhiata complice e un po’ succube da dietro le lenti degli occhiali. “Fammi un favore.”

La donna soppresse un grugnito di disappunto contro il colletto di pelliccia della sua giacca, diede le spalle a Rick e scese di un gradino, spostandosi sulla fila più bassa. Si sfilò la borsetta dalla spalla, pescò la confezione dei Kleenex, ne estrasse uno, e prese a strofinare le poltroncine di plastica. Guardò Beth di sfuggita e buttò un’ultima occhiataccia distratta a Rick da dietro una ciocca che le era caduta sul viso. Scosse la testa, strappò un altro fazzoletto umido dalla confezione e pulì anche l’altra poltroncina. “Ma guarda che razza di persone che girano,” sibilò.

Il marito sospirò a fondo. “Claire, lascia perdere,” le mormorò. “Non roviniamoci la giornata per una sciocchezza del genere, ti prego.”

“Ah, no?” La donna finì di passare il Kleenex sullo schienale della poltroncina e lanciò al marito una di quelle occhiatacce con cui aveva fulminato Rick. “Perché non mi hai difesa?” sbottò. “Sempre così. Ogni volta che...”

“Papà, le caramelle.” Il figlio più piccolo tornò a strattonare il giaccone del padre.

“Sì, hai ragione.” L’uomo si girò, spostò la telecamera che gli pendeva dal collo, e infilò una mano nella tasca. Sollevò uno scricchiolio di plastica stropicciata. “Le ho messe qui. Aspetta un attimo.”

Al di fuori della tribuna, altre persone si radunarono attorno alla staccionata del campo gara, il brusio della folla aumentò e mascherò i borbottii provenienti dalla famiglia seduta davanti a Beth e Rick.

Rick diede una rosicchiata con le punte degli incisivi alla bocca d’alluminio della fiasca. Fece schioccare la lingua fra i denti emettendo una smorfia di disprezzo che suonò come uno sputo. “B-branco di patetiche piccole creature.” Fece dondolare i piedi che teneva ancora accavallati sullo schienale della poltroncina e reclinò il capo all’indietro per bere ancora dalla fiasca. “Scannarsi per un posto a sedere,” brontolò con voce più bassa e inacidita dall’alcol.

Beth fece ciondolare le gambe dalla sua poltroncina, rigirò lo stecco dello zucchero filato fra le dita, chinò lo sguardo dietro la nuvola bianca, e si rosicchiò il labbro per nascondere l’espressione contrariata nel vedere Rick di cattivo umore. Le venne un’idea. “Vuoi zucchero?” Inclinò il bastoncino verso Rick e gli rivolse un sorrisetto invitante.

Rick ruotò lo sguardo senza separare le labbra dal colletto della fiasca, distese la tensione del viso sciogliendo quel broncio che aveva mantenuto davanti alle lamentele della donna, e i suoi occhi appannati e ancora cerchiati di nero tornarono sereni. Abbassò la Vodka Red Bull e mostrò l’indice a Beth. “Un boccone solo.”

Beth annuì. Strappò un ciuffo di zucchero filato e lo accostò al viso di Rick. “Di’ ‘aah’.”

Rick chiuse gli occhi e separò le labbra. “Aah.”

Beth trattenne un risolino e gli incollò lo sbuffo di zucchero filato sulla punta del naso. Rise di gusto.

Anche Rick grugnì uno sbuffo di risata. “Ah, è così?” Raccolse il batuffolo di zucchero filato che Beth gli aveva incollato sul naso e lo divorò con una leccata. Ne strappò un altro pezzo dallo stecco di legno, “Be’, ecco qua, signorina”, e lo sbavò sul nasino di Beth.

Beth rise ancora – una risata gioiosa e cristallina –, si lasciò avvolgere dal braccio di Rick e si strinse al suo fianco, aggrappata alla giacca di camoscio che profumava di spezzatino e di olio di cottura dopo che avevano pranzato al chiosco, appiccicati ai vapori che uscivano dalla cucina.

Rick le strofinò una carezza lungo la spalla e Beth sentì la sua voce rauca vibrarle accanto all’orecchio. “Che c’importa degli altri, eh, Beth?”

Beth annuì sfregando la nuca contro la giacca scamosciata di Rick e addentò un altro boccone di zucchero filato che si sciolse fra le guance. “Oggi è solo la nostra giornata speciale.”

“Ah, dimenticavo.” Rick si girò su un fianco, infilò la mano libera nella tasca, sollevò uno scricchiolio cartaceo, ed estrasse un foglio bianco piegato in quattro. “T-ti ho preso questo.” Lo porse a Beth. “Lo davano alla segreteria accanto ai cessi.”

Beth reclinò il capo, sbatacchiò le ciglia squadrando il foglio con aria interrogativa. “Cos’è?” Porse lo stecco di zucchero filato a Rick e si fece passare la pagina. La aprì, ne lisciò i bordi, ed esibì una griglia di colonne numerate in cui erano segnati nomi di cavalli accanto a nomi e cognomi di cavalieri. Ce n’erano trentanove in tutto. Beth strabuzzò le palpebre e trasse un profondo sospiro che le illuminò lo sguardo. “L’ordine di partenza!”

Rick raddrizzò le spalle sistemando il braccio attorno alle spalle di Beth e le indicò il foglio con un cenno del capo. “Su, f-f-fammi vedere se stai imparando a leggere bene.”

Beth sollevò il mento esibendo una gonfia espressione d’orgoglio. “Sto imparando benissimo, e anche la maestra dice che sono la più brava della classe. Ecco, ecco, guarda.” Si schiarì la voce, posò la punta dell’indice ancora sporco di grani di zucchero sul foglio, accanto alla prima riga della colonna con i nomi dei cavalli, e diede una letta solo ai primi sedici.

 

 

Prestige

Willow Z

Miss Molly du Beumont

Prima di te

Bojack HM Secretariat

Choco-Sky

Kirschtein J from Shiganshina

Picard Spock

Resca’s Rose

Ballata dell’Acacia

Colorado III

Poker Poe

Overlord

Nattramn

Merkur Blue

Mortimer

 

 

Beth si accigliò, corrugò la fronte in una scura espressione concentrata, e passò la punta dell’indice lungo le lettere che componevano il primo nome. “Pres... tige. Prestige.” Passò a quello più in basso, e le suonò più facile. “Willow. Willow Z.” Arrivò al terzo. “Miss.” Restrinse di più le palpebre e fece scivolare quelle parole nuove fra le labbra un po’ irrigidite dal freddo. “Miss Molly. Du. Beu... ” Flesse il capo di lato, si rosicchiò l’interno della bocca, e un prurito di nervosismo attraversò le dita strette sui bordi della pagina. “Belmo... ”

“Du. Beumont,” la aiutò Rick.

Beth annuì, si bagnò le labbra che sapevano di zucchero, e ci riprovò. “Du Beumont.” Fece scivolare gli occhi verso il nome più in basso, il quarto, ma Rick scoppiò a ridere prima di farle aprire bocca. “‘Prima di te’?” esclamò. Si sporse e rivolse l’indice alla riga numero quattro. “C-c-che r-razza di nome è ‘Prima di te’?”

Beth annuì e scosse le spalle. “Sì, è brutto.”

“Scherzi?” ribatté Rick. “Devi essere fulminato per chiamare un cavallo così. Mi piace.” Sollevò il braccio che passava dietro le spalle di Beth, quello che non reggeva lo stecco dello zucchero filato, e prese un altro piccolo sorso di Vodka Red Bull. “I-io tifo per quello.”

Beth lanciò uno sguardo veloce al campo gara – tutti i cavalieri e gli istruttori stavano uscendo, c’era solo un ultimo gruppetto di tre di loro accanto alla doppia gabbia, con l’istruttore che spiegava qualcosa indicando la curva da compiere prima di imbattersi nell’ostacolo – e tornò sull’ordine di partenza. Corrugò di nuovo le sopracciglia. Anch’io devo tifare per un cavallo, si disse. Devo trovare un nome più bello di quello che ha scelto papà. Lesse mentalmente. Sorpassò quello che cominciava con la K – troppo lungo e complicato – andò anche oltre Ballata dell’Acacia – perché lei odiava le acacie piene di spine che le impedivano sempre di giocare all’ombra in giardino durante l’estate –, superò Colorado III – perché le ricordò quella vacanza in Colorado quando aveva vomitato durante il viaggio d’andata –, e scartò anche gli altri, troppo brutti. Arrivò a Merkur Blue, sorpassò anche quello spostando l’indice sul nome successivo, e si fermò per leggerlo ad alta voce. “Mor...” Piegò la testolina di lato e restrinse le palpebre, concentrandosi. “Mor-ti... mer.” Lo ripeté con più sicurezza. “Mortimer.” Le piacque. Aveva un bel suono sulla lingua, dolce e forte allo stesso tempo, le faceva pensare a qualcosa che cade spesso ma che si rialza sempre, e le trasmetteva un calore familiare. Annuì. “Mortimer è facile da leggere. Io tifo Mortimer.”

“Che?” Rick strabuzzò gli occhi. “M-Mortimer? C-come si fa a chiamare un cavallo ‘Mortimer’?” Guardò in disparte e soppresse una risata rauca e profonda che Beth sentì vibrare attraverso il suo petto. “È un cavallo o un regista ebreo?”

“Io tifo Mortimer!”

“Va bene, va bene.” Rick sollevò una mano in segno di resa. “Se mia figlia tifa Mortimer, allora va bene. M-ma io tifo Prima di te.”

Il trillo della campana si elevò dalla tribuna della giuria, il suo eco squillante attraversò il campo gara ormai sgombero, e arrivò fino agli spalti dove era seduto il pubblico.

Beth impennò lo sguardo dall’ordine di partenza e lo rivolse all’entrata del campo gara, attirata dal movimento di un uomo che si chinò a spostare il cancelletto, mettendosi poi in disparte per far passare un cavallo grigio pomellato che sbuffava un alito caldo e bianco dalle narici lucide e dilatate.

Uno dei giurati parlò dal microfono e la sua voce sgranata e amplificata fece eco fino agli spalti del pubblico. “Primo binomio in campo: Danielle Newton su Prestige. Si prepari alla porta Willow Z.”

Beth fece un saltello sul posto, punta da una scossetta di eccitazione ed entusiasmo. “Oh, comincia, comincia!” Posò la pagina con l’ordine di partenza sulle ginocchia, tornò a prendere lo stecco dello zucchero filato dalle mani di Rick, e si spinse più in avanti con le spalle per guardare meglio.

Prestige marciò a passo pesante attraverso il prato, sbuffò altre due alitate di fiato bianco che fremette attraverso la tensione del collo e quella del torso fasciato dalle gambe del suo cavaliere. Compì tre passi trotterellando, la ragazza tirò le redini facendo pressione sul morso, lo rimise al passo, e gli diede una carezza sotto la folta criniera striata di nero, bianco e grigio per tranquillizzarlo. Lo portò davanti alla tribuna della giuria, compì un alt mostrando il volto ai tre giurati, tese il braccio destro sul fianco e fece il saluto chinando il capo. La campana squillò di nuovo. La ragazza che montava Prestige spostò il frustino sulla mano destra che era tornata a impugnare le redini, girò il cavallo, gli diede due colpetti di gamba, schioccò la lingua, e partì al galoppo. Passò i due pilieri della fotocellula di partenza e si buttò sul primo oxer rosso riempito da due siepi rigogliose. Prestige sbuffò, arricciò il collo sotto la pressione del morso che lo faceva schiumare dalla bocca, accelerò, e i suoi muscoli in tensione si ingrossarono gettando un sottile velo di condensa dal manto già lucido e sudato. Staccò la falcata, volò oltre l’ostacolo, e riatterrò sul prato senza far cadere barriere.

La gara cominciò.

 

.

 

Beth rosicchiò le ultime incrostazioni di zucchero filato attorno allo stecco di legno, rigirò il bastoncino, ne raggiunse la punta e grattò con le punte degli incisivi per succhiare le ultime tracce dolci senza però scollare lo sguardo dal campo gara. Nei suoi occhioni larghi e luminosi di meraviglia si specchiava l’immagine in corsa di Merkur Blue, alla fine del suo percorso, che imboccò la curva per dirigersi all’ostacolo successivo.

Merkur Blue compì la curva al galoppo e fece schizzare zolle di terra da sotto i suoi zoccoli. Il suo cavaliere tirò indietro le spalle e spinse i talloni verso il basso, lo mise di fronte al primo verticale della linea di fronte alla giuria e gli diede due sgambate. Merkur Blue saltò l’ostacolo, atterrò soffiando uno sbuffo di fatica, tirò indietro la testa dando una ruminata al morso da cui schiumavano fiotti di saliva bianca, compì sei violente falcate e superò anche il verticale numero undici. Il cavaliere gettò lo sguardo verso il muretto finale, l’ostacolo numero dodici. Tirò le redini, spinse le spalle all’indietro per far rallentare Merkur Blue, e in viso divenne rosso di fatica, soffiando anche lui fiotti di condensa dalle labbra come il suo cavallo. Chiuse i pugni inguantati attorno contro le redini tese, premette le punte degli speroni sul costato di Merkur Blue, schioccò la lingua, gli fece compiere due falcate più pesanti che sradicarono altre zolle di terriccio volante dal prato, ed entrambi si staccarono da terra per l’ultima parabola. Merkur Blue riatterrò lasciando il muretto intero, schizzò al galoppo verso i due pilieri della fotocellula, e la campanella della giuria trillò. Seguì l’applauso delle persone radunate attorno alla staccionata e di quelle sedute in tribuna. Beth posò lo stecco di legno scarnificato di tutto lo zucchero e batté anche lei le manine con foga, sentendo i palmi bruciare per tutte le volte che aveva già applaudito, a ogni cavallo.

Il cavaliere di Merkur Blue allentò le redini, gli lasciò distendere il collo, lo mise al trotto, e si chinò a dargli due pacche di gratitudine sotto la criniera che ricadeva folta sul manto morello. Merkur Blue emise un altro sbuffo di fatica. Scrollò la testa e scosse il ciuffo che ricadeva sul frontalino color indaco, in tinta con il sottosella e con le fasce che gli proteggevano le gambe.

L’eco cristallino della campanella si dissolse, lasciò posto alla voce filtrata dal microfono di uno dei membri della giuria. “Zero penalità e un tempo di ottantatre e dodici. Merkur Blue si classifica per il barrage.”

Il cavaliere di Merkur Blue trotterellò davanti alla tribuna del pubblico, sollevò un braccio per esultare verso le persone che lo aspettavano alla porta, e partì un altro breve scroscio di applausi e gridolini di entusiasmo.

Beth smise di battere le manine e raccolse dalle ginocchia il foglio spiegazzato con l’ordine di partenza, si sfilò dalla tasca del cappotto la penna che le aveva dato Rick, e segnò un piccolo cerchio accanto al nome ‘Merkur Blue’, come aveva fatto con tutti i cavalli ammessi al barrage. Accanto a Prima di te era segnata una croce. Il cavallo aveva terminato con otto penalità, senza riuscire a qualificarsi assieme ad altri cinque, e Rick aveva borbottato qualche protesta annaffiandosi la bocca con un’altra sorsata dalla fiasca. Beth staccò la penna dal cerchietto appena segnato, fece scivolare la punta a sfera verso la riga più in basso, e toccò il nome del cavallo successivo. Mortimer.

Beth sobbalzò sulla poltroncina di plastica, le guance si chiazzarono di rosso, gli occhi si accesero di emozione, e il cuore fece una capriola di contentezza. “Oh, Mortimer, Mortimer,” esclamò lei. Abbassò la pagina, fece volare lo sguardo verso la porta del campo gara sbarrata dal cancelletto, e vide Merkur Blue uscire incrociando il passo con un cavallo baio, più snello, che entrò nel prato. Un sottosella di trapunta gialla gli fasciava il dorso esibendo la scritta ‘Morty’ in caratteri neri corsivi. Beth si girò, si appese con una mano alla giacca di Rick e gli diede tre strattoni. “Tocca a Mortimer, papà, tocca a Mortimer, dobbiamo fare il tifo.”

Rick levò lo sguardo al cielo – gli occhi si stavano lentamente ritingendo di rosso come dopo essere uscito dal garage – e bevve ancora un sorso dalla fiasca. “Va bene.”

Beth si portò l’indice davanti alle labbra e corrugò uno sguardo di rimprovero. “Ssh, deve concentrarsi, non possiamo parlare.”

“S-sei tu che hai parlato per prima.”

Driiing! La campana della giuria squillò, nella tribuna e attorno alla staccionata cadde il silenzio, e Mortimer ingranò una prima falcata di galoppo, tirò su il muso e si lasciò guidare verso il primo ostacolo.

La voce del membro della giuria tornò a farsi sentire attraverso il filtro del microfono. “Numero di testiera Centotrentasette e sedicesimo a partire, Mortimer, montato da Julia Beckermann.”

Beth strinse le dita attorno agli orli della pagina, trattenne il respiro per l’emozione, per non disturbare il silenzio che aveva fatto scomparire tutti i rumori della fiera – l’eco della musica country, lo zoccolare dei cavalli da carrozza, lo sfrigolio d’olio proveniente dai chioschi –, e il cuore salì a batterle direttamente nelle orecchie, assecondando il ritmo cadenzato del galoppo di Mortimer. I suoi zoccoli piccoli e tondi, da purosangue arabo, avanzavano a falcate fluide e leggere che non lasciavano quasi impronte sul terreno d’erba, dando l’impressione di volarci sopra. Il suo manto baio luccicava come cioccolata al latte, i crini corvini – ben pettinati e pareggiati sulle punte – oscillavano al vento come striature d’inchiostro. Mortimer tese le punte delle orecchie, diede una sola ruminata al filetto, e i suoi occhi brillarono di concentrazione. Occhi scuri e lucenti, intelligentissimi, intagliati in quel muso buono e placido, di una dolcezza infinita. Era il più bel cavallo che Beth avesse mai visto.

Il binomio si mise in linea con il primo oxer, passò le fotocellule di partenza, la ragazza diede un piccolo colpo di gamba, tirò le spalle all’indietro, e Mortimer staccò la parabola per il primo oxer rosso. Atterrò senza far cadere nulla, imboccò la curva puntando già l’ostacolo dopo, scivolò con un anteriore sull’erba, e chinò la spalla compiendo un leggero rimbalzo. Avanzò di due falcate di trotto, e riprese a galoppare. La ragazza diede altre due sgambate sui suoi fianchi. Fra i sospiri del fiatone, le sue labbra vibrarono e composero un sussurro affaticato: “Dai, Morty, su, bello.” Tornò composta, la schiena dritta, le spalle indietro e i talloni bassi, e gli fece saltare il verticale.

Uno degli uomini che teneva le braccia intrecciate sulla staccionata – quello accanto all’uomo con il Border Collie al guinzaglio – si sporse per seguire il loro percorso, corrugò le folte sopracciglia grigie, e tirò il bavero del cappotto fin sotto le labbra, mormorando un borbottio che non fece condensa. “Non ha i ramponi.”

Rick sollevò un sopracciglio, punto da quella voce come se gli avessero infilato un ago dietro l’orecchio, e posò lo sguardo sui due.

L’uomo che si era sporto tornò a tirare le spalle all’indietro e indicò Mortimer con un cenno del mento. “Con ‘sto terreno non può correre senza ramponi. Cosa le è venuto in mente?”

L’uomo con il Border Collie si strinse nelle spalle. “In giuria non hanno dato l’obbligo.”

“Un po’ di buon senso farebbe comunque bene,” ribatté l’altro. “Non senti com’è scivoloso?” Sollevò il piede e batté la punta dello scarpone sul terreno cedevole, scavò un piccolo solco in mezzo all’erba. “Ieri ha piovuto tutto il giorno, la terra è molle e l’erba è umida.” Scosse il capo e si rimboccò il bavero attorno al collo. “Questo si spacca le gambe alla prima curva presa male.”

Rick tenne la palpebra socchiusa in quell’espressione appuntita di sospetto e curiosità, ma subito si strinse nelle spalle, non ci badò, e prese un altro sorso dalla fiasca.

La ragazza in sella a Mortimer terminò la parabola dopo avergli fatto saltare il verticale decorato con le barriere a forma di onde, gettò lo sguardo verso la doppia gabbia allestita davanti al palco del pubblico, tirò indietro le spalle e tese le redini per far prendere equilibrio anche al cavallo. Compì la curva guidandolo verso l’oxer d’entrata. Spinse con gli speroni sul costato di Mortimer, dove il manto era già leggermente consumato da una lieve fiaccatura, lo fece accelerare, e corrugò la fronte arrossata da sudore e fatica sotto la visiera del cap. Gli occhi fiammeggianti di tensione e concentrazione.

Mortimer staccò la falcata, superò l’oxer dando una sfiorata alla barriera d’uscita con i posteriori, e affondò gli zoccoli nel terreno erboso. Un anteriore slittò facendogli chinare la spalla e Mortimer scivolò. La ragazza strattonò le redini, schioccò più volte la lingua, gli diede due forti sgambate, e lo fece avanzare di una falcata incerta. Staccarono la parabola per il verticale al centro. Mortimer spiccò il volo, soffiò un grugnito di fatica, rannicchiò gli anteriori contro il petto sbattendo gli zoccoli contro il sottopancia, tese il collo gonfiando i muscoli e facendo salire le vene in rilievo, e dilatò le narici umide di sudore. Criniera e coda al vento come una gettata di lucido inchiostro nero. Piantò gli anteriori al suolo, una zolla cedette, e il garretto traballò scuotendo la zampa fino alla spalla del cavallo. Le forze lo abbandonarono facendolo precipitare con il muso a terra.

Mortimer si schiantò sull’oxer d’uscita. Il suo peso spaccò le barriere bianche e azzurre emettendo un secco crack! del legno che si spezzava, la ragazza finì sbalzata fuori dalla sella facendo volare staffe e redini al vento, e cadde al di là dell’ostacolo rotto.

Un corale gemito d’orrore si elevò dal pubblico. Beth sobbalzò sulla poltroncina di plastica e cacciò un gridolino di spavento. Tutti trattennero il fiato, e la donna con i due figli seduta davanti a Rick e Beth si portò una mano sulla bocca e una sul cuore.

La ragazza volata via dalla sella atterrò sull’erba, rotolò sul fianco attorcigliando un braccio contro lo stomaco, e rimase immobile, supina. La faccia contorta in una scura smorfia di dolore e i pantaloni bianchi chiazzati da una strisciata di terriccio umido.

Qualcun altro gridò. “Cielo!” E un brusio di voci riempì il silenzio che aveva invaso il campo.

Mortimer tirò su il muso da terra ed esibì una spolverata d’erba che gli si era incollata al naso. Diede uno spintone all’indietro con la groppa, si trascinò con i posteriori, incespicò sulle redini che si erano aggrovigliate fra gli zoccoli, e un frammento di barriera spezzata gli rotolò fra i garretti. Cadde di nuovo sul fianco, schiacciò la sella sollevando lo schiocco secco dell’arcione frantumato, e scrollò gli zoccoli all’aria per liberarsi.

Qualcuno fischiò per calmarlo. Un uomo si infilò sotto la staccionata del campo gara e gli corse incontro tendendo una mano verso il suo muso. “Buono, buono, fermo, bello, fermo.”

La campanella della giuria trillò due volte, e la solita voce si propagò attraverso il microfono. “Medico di servizio in campo.”

La donna seduta davanti a Rick e Beth si tolse la mano da davanti la bocca, si fece aria al viso e si sporse verso il marito, a sussurrargli da sopra la spalla. “Si sarà fatta male?” Era sbiancata all’altezza delle guance.

L’uomo scosse il capo e si strinse nelle spalle. “Non lo so.” Si sporse a sbirciare verso i quattro paramedici che stavano passando sotto la staccionata reggendo una barella e le borse rosse per il pronto soccorso.

Altri uomini erano entrati a tenere Mortimer per le redini, uno di loro indicò l’anteriore che il cavallo non riusciva ad appoggiare a terra e disse qualcosa. Un altro annuì.

Alcune persone si avvicinarono alla staccionata, i loro sguardi tesi all’interno del campo – alcuni verso Mortimer ma la maggior parte verso la ragazza caduta – e le loro voci si mescolarono in un brusio confuso. “Che volo”, “Poveretta”, “Si sarà rotta qualcosa?”, “Ma è ancora cosciente?” I paramedici furono attorno alla ragazza caduta che si stava ancora reggendo il fianco con il braccio, si inginocchiarono accanto a lei, uno di loro aprì la borsa rossa marchiata dalla croce bianca, e un altro iniziò a slacciare le cinghie della barella.

Le persone radunate attorno a Mortimer lo continuarono a tenere per le redini, anche se il cavallo non si muoveva. Teneva un anteriore sollevato. Il suo corpo sudato prese a tremare e a oscillare di lato, il respiro accelerò soffiando sbuffi di condensa più spessi, e i suoi larghi occhi scuri luccicarono di dolore.

Rick si sporse a guardare e restrinse lo sguardo, facendo calare una leggera ombra fra le palpebre socchiuse.

Una fitta d’ansia chiuse lo stomaco a Beth, fece tornare su il sapore dello spezzatino che aveva mangiato a pranzo e quello dello zucchero filato che ora le parve disgustoso come una sorsata di sciroppo per la tosse. “Papà.” Beth si girò a guardare Rick con occhi impauriti. “Papà, Mortimer si è fatto male?”

Rick si strinse nelle spalle, continuò a guardare la scena. “Mi sa di sì.”

Mortimer tremò ancora. Il manto lucido di sudore e scuro come cuoio gettava un velo di condensa che si univa agli sbuffi soffiati dalle narici dilatate che vibravano sotto i suoi mugugni di dolore. Chinò una spalla, rannicchiò contro il petto la zampa che non riusciva ad appoggiare a terra, e gli uomini attorno a lui fecero un passo all’indietro per lasciare che si accasciasse. Uno di loro si chinò, gli slacciò la doppia cinghia del sottopancia e gli sfilò la sella dal dorso assieme alla trapunta gialla.

“Qualcuno può portare un telo?” Un altro degli uomini accorsi attorno a Mortimer sollevò il braccio sopra la testa, fece un cenno a quelli rimasti attorno alla staccionata, e alzò la voce. “Un telo, svelti.”

I paramedici spostarono la ragazza sulla barella, allacciarono le fette di stoffa attorno al suo corpo – le avevano già fatto indossare un collare sanitario – e tutti e quattro la sollevarono da terra, corsero verso l’ambulanza parcheggiata fuori dal campo gara che aveva già i portelloni spalancati.

Un uomo si spinse in mezzo alla folla radunata attorno alla staccionata. Sottobraccio reggeva un telo verde ripiegato più volte, ed era accompagnato da un altro uomo vestito con un gilet di trapunta che impugnava una borsa nera. Un veterinario. Tutti e due raggiunsero Mortimer e gli uomini che gli stavano attorno, in tre di loro aiutarono a spiegare il telo e coprirono la scena.

Beth fu scossa da un altro fremito di spavento, corrugò un sopracciglio in uno sguardo confuso, e tenne gli occhi fissi sul telo che avevano elevato come la tenda di un palcoscenico per coprire quello che succedeva a Mortimer. “Cosa fanno, papà?” Si girò verso Rick, gli strinse una manica della giacca, diede un piccolo strattone, e indicò il campo gara. “Perché lo coprono?”

Anche gli occhi di Rick erano fermi sulla scena, leggermente ristretti e concentrati come quando guardava all’interno di un microscopio. Rick sospirò a fondo, distese la tensione del viso, e i suoi occhi si velarono di un’amara consapevolezza. “Povera bestia.” Tornò a reclinare le spalle contro lo schienale della poltroncina e diede una scrollata alla Vodka Red Bull che era avanzata nella fiasca.

Anche i due bambini della famiglia che si era seduta più in basso si sporsero dalle loro poltroncine e tesero gli sguardi verso quello che stava succedendo nel campo gara. Il più grande – l’imbranato delle redini – si girò verso sua mamma e le tirò una manica del cappotto come aveva fatto Beth con Rick. “Mamma, mamma,” indicò il prato, “cosa fanno al cavallo?”

La donna distolse gli occhi dal campo gara e forzò un sorriso. “Starà bene, starà bene,” lo rassicurò. “Adesso lo devono solo guarire e fanno in un secondo.”

“Ma perché hanno messo il telo?”

“La magia.” La donna annuì mostrando uno sguardo così rassicurante che sembrava stesse cercando di convincere se stessa. “Adesso fanno la magia al cavallo per farlo guarire più in fretta.”

Beth corrugò la fronte, guardò la donna di traverso, e strinse i pugnetti sulle ginocchia, accanto al foglio stropicciato dell’ordine di partenza. Un formicolio di dubbio rimase a stagnarle nella gola, fastidioso come un boccone andato di traverso che non riusciva a tossire via. Non ci cascò. “Papà.” Beth si girò di nuovo e tornò a strattonare la giacca di Rick. “Cos’è che fanno a Mortimer, adesso?”

Rick diede un’altra scrollata di spalle e fece tamburellare le unghie contro l’alluminio della fiasca. “Lo abbattono, mi sa.”

Beth flesse il capo di lato facendo scivolare i capelli dietro la spalla. Ripeté quella parola con incertezza, “Ab... battere?”, come aveva fatto leggendo i nomi dei cavalli dall’ordine di partenza.

“Sì,” annuì Rick. “Lo uccidono.”

La donna seduta davanti a loro lanciò una fulminea occhiata lancinante a Rick – una delle tante – ma non aprì bocca.

“E perché uccidono Mortimer?” insistette Beth.

“Perché si è rotto una zampa.” Rick sollevò il mento e indicò il campo gara con un breve cenno del capo. “E s-sai, quando un cavallo si rompe una zampa è una faccenda seria, n-non è come con noi che basta mettere il gesso come hanno fatto con te quando sei caduta dall’altalena. T-ti ricordi quando sei caduta dall’altalena?”

Beth annuì, e la sua espressione si fece più triste. Non poté fare a meno di strofinarsi il braccio sotto il gomito, dove ogni tanto sentiva ancora il fantasma del dolore all’osso e il prurito del gesso.

“I cavalli sono delicati,” continuò a spiegarle Rick, “e potrebbe non riuscire più a correre e a saltare gli ostacoli come prima, o nemmeno ad appoggiare lo zoccolo.” Prese un sorso di Vodka Red Bull. I suoi occhi stavano di nuovo tornando ad appannarsi e a farsi più rossi attorno all’iride. “Q-quindi preferiscono ucciderlo. Ucciderlo costa di meno che guarirlo o mantenerlo quando non ti può fruttare soldi con le gare. L-lo uccidono in fretta, così non soffre troppo.”

Beth sentì un groppo di dolore annodarsi nel petto, far salire un calore bruciante all’altezza delle palpebre. “Ma adesso muore, allora?” pigolò. Nella sua testa comparve l’immagine di Mortimer che spiegava le ali da pegaso e che risaliva le nuvole del cielo con un’aureola dorata a roteare attorno alle orecchie.

“Sì, tesoro,” le rispose Rick. “Gli animali muoiono.”

Il bambino seduto davanti a loro sgranò le palpebre e divenne bianco di paura, gli occhi si riempirono di sconcerto. Si girò verso sua madre e tornò a tirarle il cappotto. “Muore davvero il cavallo, mamma?” domandò con voce soffocata da un groppo di pianto.

La donna si affrettò a scuotere il capo. “Oh no, tesoro, certo che no.”

Al bambino si annacquarono gli occhi per la tristezza. Lui girò la spalla e puntò l’indice verso Rick. “Ma il signore ha detto che adesso lo devono uccidere.”

“Il signore non sa nulla.” La donna si girò e lanciò a Rick la stessa occhiataccia di disprezzo che gli aveva rivolto quando erano saliti sugli spalti e lui non aveva tirato giù le gambe dallo schienale della poltroncina. “Ha detto solo una sciocchezza.”

Tutta la tristezza di Beth finì incenerita da una violenta fiammata di rabbia che saltò su come latte sul fuoco. Beth schiacciò i pugni fino a far tremare le braccia, fino a sentire le unghie piantarsi nei palmi. Le guance si infiammarono, gli occhi si accesero, si infossarono nella penombra delle orbite, e divennero pungenti e feroci come quelli di Rick quando si infuriava con qualcuno. “Non è vero che il mio papà non sa nulla!” Si aggrappò alla poltroncina davanti e urlò contro la donna. “Il mio papà sa più di tutti voi, il mio papà è il più intelligente di tutto l’universo, il mio papà è un genio!”

Rick le toccò una spalla. “Beth...”

“Dovrebbe educare meglio sua figlia.” La donna tornò a rivolgersi a Rick, sollevò il mento mostrando uno sguardo altezzoso, e parlò con tono più grave. “E anche imparare a non dire certe cose davanti a una bambina.”

Il marito, che era rimasto fino ad allora a trattenere in braccio il bambino più piccolo, si girò a sua volta. “Claire...”

Rick fece spallucce senza nemmeno degnare la donna di un’occhiata. “P-perché?” sbottò con noncuranza. “È mia figlia, io cresco mia figlia come voglio. Se tu vuoi crescere i tuoi figli come degli smidollati che non sanno nemmeno dove vivono allora accomodati, ma mia figlia sarà sempre consapevole del mondo che la circonda. Tapparle gli occhi le farebbe solo male.”

La donna trasse un sospiro indignato, le guance divennero rosse e gli occhi fiammeggiarono come quelli di Beth. “Come si permette?” esclamò. “È solo una bambina. I bambini non dovrebbero...”

“Cos’è?” la stroncò Rick, brusco. “Avete paura a mostrare la realtà ai bambini? Se avete paura a fargli aprire gli occhi è solo p-perché siete voi quelli ad avere paura del mondo e della sua crudeltà.” Distese il braccio e aprì la mano per indicare il campo. “Cresci,” brontolò ancora. “Di’ ai tuoi figli che quel cazzo di cavallo sta morendo, insegnagli ad affrontare la morte senza che debba cadere dalle nuvole quando sarà troppo tardi, quando sarà troppo vecchio per avere la forza di alzarsi.”

La donna strinse a sé il figlio e contenne un ringhio fra le labbra imporporate di rossetto. “Lei è un indecente,” sbottò. “Dovrebbe solo vergognarsi di se stesso, non dovrebbe nemmeno avere il permesso di crescere dei figli.”

Rick sogghignò, divertito. “Ah.” Reclinò il capo all’indietro e fece oscillare la fiasca mantenendo quel ghigno sbilenco a incurvargli le labbra. “F-fosse la cosa peggiore che mi sono sentito dire.” Bevve ancora.

Beth sentì di nuovo una fitta di dolore e tristezza soffocarle il battito del cuore, come quando aveva visto Mortimer schiantarsi contro l’ostacolo e crollare sul prato in mezzo alle barriere spezzate. Raccolse le ginocchia al petto, posò i piedini sopra la poltroncina di plastica, e si rannicchiò al fianco di Rick. Gli cinse le piccole braccia attorno al busto, premette la guancia sul suo petto, e lo tenne lontano dalle accuse della donna, protetto dalle brutte parole che facevano più male a lei che a lui. Sempre così, si disse. Sempre tutti contro papà, ma io no. Lo strinse di più, si aggrappò al calore del suo corpo magro, e andò in cerca del suo profumo acidulo e familiare ora coperto da quello di frittura dolciastra emanato dalla giacca scamosciata. Io non sarò mai contro papà. Papà ha sempre ragione, sono gli altri che non lo capiscono, perché loro sono stupidi e lui è intelligente. Però...

Rick le passò a sua volta un braccio attorno alle spalle, la tenne stretta a sé e le fece una carezza fra i capelli, sotto le forcine che tenevano le ciocche bionde raccolte dietro l’orecchio.

Beth socchiuse gli occhi, si concentrò solo sul calore della mano di Rick, sull’affetto trasmesso dalla sua carezza, ma il suo sguardo tornò a scivolare sul campo gara dove il telo era ancora alto a coprire Mortimer e gli uomini radunati attorno a lui. Nemmeno la presenza di Rick riuscì a soffiare via quell’opprimente sensazione di tristezza e disagio che gravava sul suo cuoricino. “Mortimer morirà davvero, papà?”

Rick le passò un’altra carezza fra i capelli e annuì. “Sì, Beth.” La voce aveva perso la nota di scherno con cui si era rivolto prima alla donna.

Beth sollevò lo sguardo strofinando la guancia contro la sua giacca e gli cercò gli occhi. “E non puoi andare ad aggiustarlo tu?” gli domandò. “Lo metti nella macchia a microonde come hai fatto con Peach. Tu riesci ad aggiustarlo, tu aggiusti sempre tutto nel garage.”

Rick sospirò – Beth sentì il suo petto alzarsi e abbassarsi sotto il suo capo – e i suoi occhi si persero in un’espressione più distante e malinconica. “Ci sono cose che nemmeno papà sa aggiustare, purtroppo.”

“Anche se sei il più intelligente dell’universo?”

Un’ombra più cupa calò sul volto di Rick, gli nascose gli occhi sotto quel velo di buio, e lui annuì con un gesto lento e rassegnato. “Anche se sono il più intelligente dell’universo.”

“Oh.” Beth tornò a sentire una stretta al cuoricino. Il viso prima rosso di emozione si fece freddo e bianco, e tutta la dolcezza che lo zucchero filato le aveva lasciato fra le labbra si sciolse, venne sostituita da un saporaccio amaro.

Un paio di uomini spostarono il cancelletto d’entrata del campo gara, si fecero da parte e lasciarono passare uno dei camioncini che usavano per trasportare il letame, con la parte posteriore piatta e scoperta. Il camioncino avanzò nell’erba a passo d’uomo, schivò uno degli ostacoli, e si diresse verso le persone radunate attorno a Mortimer che avevano abbassato il telo. Il telo verde giaceva sull’erba dello stesso colore, rigonfio sopra il corpo del cavallo disteso e ormai senza vita, accanto alla sella che avevano lasciato sul prato assieme al sottosella di trapunta gialla.

Rick bevve l’ultimo sorso di Vodka Red Bull, risucchiò la miscela fino all’ultima goccia, e riavvitò la fiasca, facendola sparire nella tasca della giacca. Distolse gli occhi dal campo gara ed emise un sospiro più aspro. “Ti va un altro giro sui pony?”

 

.

 

La luce del giorno stava calando. I raggi del sole, già sommerso dietro le vaporose chiome gialle e arancio degli alberi piantati attorno alla stazione di servizio, passavano attraverso i finestrini polverosi della Subaru e riempivano l’abitacolo dell’auto di un riverbero più scuro e sanguineo, accentuando l’odore afoso di birra rafferma che emergeva dai sedili sfilacciati. Fuori qualcuno borbottava accanto alla pompa di benzina. Si udì il suono di uno schiocco metallico e del risucchio che cominciava a macinare sparando la benzina nel serbatoio di un’altra auto. Anche Rick era sceso a fare benzina.

Beth rigirò Peach fra le manine ancora appiccicose di zucchero filato e odoranti di pelo di cavallo e di paglia umida. Ruotò a pancia insù il corpicino di plastica della cavallina, in modo da vederle le zampe, e fece correre indice e pollice attorno all’anteriore sinistro che si era spaccato quella mattina. Grattò la balzana con l’unghia, in cerca del punto che Rick le aveva saldato, ma non lo trovò. La zampa era davvero liscia e lucida come nuova.

Beth sospirò a fondo, si accasciò con le spalle contro lo schienale, finendo stretta dall’abbraccio della cintura che le attraversava il petto, e i suoi occhi si intristirono. Non faceva nemmeno più dondolare le gambette dal sedile. Passò di nuovo il tocco delicato lungo l’anteriore di Peach, e nella sua testa tornò a udire il crack! secco che aveva sentito quella mattina, quando l’aveva fatta atterrare dall’ostacolo e la zampa si era piegata, spaccandosi di netto e volando via sulle piastrelle del soggiorno. Lo stesso crack! che avevano fatto le barriere bianche e azzurre dell’oxer d’uscita dalla doppia gabbia, quando Mortimer ci era caduto sopra e quando Beth aveva visto il cavallo rialzarsi, appoggiare gli zoccoli a terra, e tremare di dolore per la frattura all’altezza del garretto che lo aveva fatto accasciare di nuovo sul prato.

Beth rannicchiò le ginocchia al petto, abbracciò Peach e la cullò andando avanti e indietro con le spalle. La tristezza tornò a invaderle il cuoricino, a inumidirle gli occhi, ad avvolgerla in quell’aria grigia e pesante come una brutta nuvola di pioggia.

Lo sportello per la benzina della Subaru si richiuse, ci fu il cigolio e lo schiocco della pompa che veniva riagganciata alla torretta, e un dolce e nauseabondo odore di benzina invase l’abitacolo dell’auto. L’ombra di Rick percorse il fianco dell’auto, tappando i raggi del sole rosso che battevano attraverso gli alberi vestiti d’autunno, e lui riaprì lo sportello, facendo entrare l’odore di aria umida e fresca, di pozzanghera, che regnava nella stazione di servizio.

Rick si lasciò cadere sul sedile del guidatore con un sospiro, richiuse lo sportello, e incastrò un pacco da sei lattine di birra sotto la leva del freno a mano. “In questa stazione di servizio del cazzo avevano solo Busch,” commentò, acido. “C-c-che razza di posto vende solo le Busch?” Sganciò i primi tre bottoni della sua giacca scamosciata, allentò il bavero, e gracchiò una risata sarcastica. “Cosa dovrò bermi alla prossima stazione? Heineken Light? Eh, Beth?” Le rivolse lo sguardo, finì toccato di striscio da un raggio di sole rosso penetrato dal finestrino, e incontrò il visetto triste della figlia, nascosto dai capelli che le erano scivolati davanti alle spalle chine. Le sue manine rigiravano Peach carezzandole il collo e le zampe, le gambette stavano ferme invece che dondolare di gioia come quando erano partiti. Anche Rick perse quel mezzo sorriso sdrammatizzante con cui era entrato in auto. I suoi occhi si fecero più miti, il suo sguardo assunse una sfumatura più persa e malinconica, coronato dalla luce del sole rosso e caldo che passava attraverso il parabrezza. Rick si schiarì la gola e si girò a infilare una mano nella tasca della giacca, sollevando uno scricchiolio cartaceo. “Tieni,” disse con voce più morbida, “ti ho comprato le liquirizie.” Porse a Beth un sacchetto di carta stropicciata dal quale emergevano dieci stringhe di liquirizia rossa che profumavano di caramella.

Beth raccolse il sacchetto dalla mano di Rick e annuì senza sollevare gli occhi da terra. “Grazie,” mormorò. Accostò la bocca a una delle stringhe e la rosicchiò a morsi piccoli, gustandosi il sapore dolce e leggermente acidulo della liquirizia rossa. Nemmeno la caramella però riuscì a spazzare via quella nuvola nera che le teneva soffocato il cuoricino in quella pesante morsa di tristezza.

Rick rimise in moto la Subaru senza allacciarsi la cintura, ingranò la marcia ignorando il gorgoglio cavernoso del radiatore difettoso, e uscì dalla stazione di servizio immettendosi nella corsia che imboccava la strada verso il tramonto. Non c’erano auto, e la distesa di asfalto deserta luccicava di rosso, bagnata dalla luce del mezzo sole inghiottito dal’orizzonte, investita dai suoi raggi come in un bagno di sangue. Le ombre degli alberi cadevano larghe e scure verso il centro della strada, le foglie morte formavano un tappeto giallo e marrone che si scuoteva sotto le ali di vento sollevate dal passaggio dell’auto.

Rick raddrizzò il volante e tornò ad abbassare lo sguardo su Beth. Flesse le sopracciglia in un’espressione più triste, simile a quella della figlia, e sospirò tornando a posare gli occhi sul paesaggio fuori dal parabrezza. “Sei ancora triste per il cavallo, tesoro?”

Beth rosicchiò un altro pezzetto di liquirizia rossa tenendo il visetto basso, e annuì. Fece assaggiare un pezzettino anche a Peach, accostando la stringa al suo muso striato.

Rick si strinse nelle spalle e le rispose con un tono di voce più stanco e trascinato. “S-sono cose che succedono, Beth,” le disse. “Non puoi farci niente, purtroppo. Bisogna solo imparare a conviverci.”

Beth si leccò le labbra sporche di liquirizia rossa e alzò gli occhi da terra, rivolse a Rick uno sguardo interrogativo ancora velato di tristezza. “Succede che le cose muoiono?”

“Sì,” annuì lui. “E succede anche c-che le cose a cui vogliamo bene ci lasciano improvvisamente, quando meno ce l’aspettiamo, così,” staccò una mano dal volante, unì i polpastrelli e li fece schioccare, “in uno schiocco di dita. Nell’esatto tempo che quel cavallo ha impiegato a saltare e a cadere. Le persone vanno e vengono, e a volte ti abbandonano senza nemmeno lasciarti il tempo di rendertene conto.” Rick abbassò la mano che aveva usato per schioccare le dita e se la posò sul petto, reclinò la spalla per avvicinarsi di più al sedile di Beth. “S-s-sai, anch’io potrei sparire da un giorno all’altro, p-per questo è sempre pericoloso volere troppo bene alle persone. Maaai dare fiducia alle persone, Beth. Mai. Soprattutto a quelle a cui vuoi più bene.”

Beth sentì un tuffo al cuore e una morsa di timore si inghiottì tutta la tristezza che le stagnava nel petto. “Ma io posso volerti bene?”

Rick tornò a guardare fuori dal parabrezza, finendo inondato da quella forte e calda luce rossa che accentuava le ombre infossate attorno ai suoi occhi di nuovo così malinconici e distanti. Strinse un angolo della bocca in un’espressione più crucciata e scosse il capo. “Forse non dovresti avere così tanta fiducia in me, Beth.” Calò il braccio che non reggeva il volante e staccò una delle birre dagli anelli di plastica della confezione, incastrò l’unghia del pollice sotto la linguetta di latta e le diede un paio di colpi per riuscire a stapparla anche con una mano sola. “F-forse io un giorno potrei essere quello che ti deluderà più di chiunque altro.”

“No, non è vero!” Beth compì un saltello e si sporse dal suo sedile, trattenuta dalla cintura di sicurezza. Guardò Rick con occhi increduli. “Tu rimani sempre il migliore, e sono gli altri che fanno le cose sbagliate e che pensano le cose sbagliate, tu hai sempre ragione.”

Rick forzò ancora due volte la linguetta della lattina e la piegò con uno schiocco. Cli-clack! Il gas soffiò fuori con un fischio, spanse un rivolo di schiuma che scivolò lungo la latta, e Rick mosse le dita per sgocciolare la birra che era colata a bagnargli le nocche. “A volte nemmeno io riesco ad avere ragione come dovrei, o a far funzionare sempre le cose come vorrei.” Gettò la testa all’indietro e tracannò tre sorsate di seguito.

Beth inarcò l’estremità di un sopracciglio, gli mostrò un’espressione interrogativa. “Tipo?” Staccò un altro morso dalla stringa di liquirizia e la rosicchiò con più vigore.

Rick separò la bocca dalla lattina, si asciugò le labbra con la manica della giacca, e scrollò le spalle. “T-tipo a risolvere le equazioni per i viaggi interdimensionali, o a trovare la formula per il concentrato d-di materia oscura, o a salvare quel cavallo.” Spostò gli occhi dal parabrezza e guardò la lattina stretta fra le sue dita bagnate di birra. La fece oscillare, le rivolse un’espressione di disgusto, e parlò più piano. “O a salvare un matrimonio fallito che ormai è solo da buttare nel cesso.” Bevve di nuovo.

Gli occhi di Beth tornarono a velarsi di tristezza, e il cuoricino batté un palpito più profondo e addolorato che le rese lo sguardo umido. “Ma così è brutto.”

“C-certo che è brutto.” Rick bevve ancora dalla lattina di birra e i suoi occhi guardarono fissi davanti a sé, rossi contro la luce del tramonto che si apriva lungo la strada e che gli abbagliava il viso pallido e scarno per tutte le ore passate in garage. Sospirò, e la sua voce suonò arrochita e amareggiata. “Il mondo è sempre brutto, Beth. Il mondo cerca sempre di non farti vedere le cose come sono davvero. T-tira su i teli, sai? Proprio come hanno fatto prima per coprire il cavallo che stava morendo. Ti tengono lontana dalla realtà e la coprono con un telo p-per non farti vedere le cose come stanno, per non farti rendere conto che la tua vita fa schifo e che non vale la pena continuare a trascinarti per arrivarci fino in fondo. T-t-ti addomesticano, Beth.” Accostò l’indice alla testa, senza staccare le dita dalla lattina, e picchiettò il polpastrello sulla tempia. “Ti riempiono la testa di merda, c-così tu continui a sopravvivere, a lavorare, a riprodurti, e a far andare avanti il mondo come vogliono loro, con la speranza che t-t-tutto quello che fai abbia senso, c-con la speranza che tu farai la differenza, che varrai qualcosa, che avrai uno scopo in tutta questa immondizia. M-m-ma non farà la differenza, non varrà niente.” Rick guardò di nuovo la lattina. I suoi occhi cerchiati di nero si fossilizzarono sulle bollicine della schiuma che era colata lungo il dorso e si persero, divennero più bui e distanti, annebbiati come lo erano stati quella mattina, quando Beth era andata a svegliarlo nel garage. “In questo universo siamo talmente piccoli e insignificanti che non importa a nessuno se q-q-quel cavallo muore, o s-se tu muori. Continuano a raccontarti questa bugia solo per non farti impazzire.” Strinse le dita graffiando le unghie sulla latta, il suo braccio tremò, e il suo sguardo tornò a cadere in ombra, celato dai capelli spettinati. “L’universo non ha bisogno di nessuno per continuare a vivere.”

Beth flesse il capo di lato, i capelli le scivolarono sopra la spalla. “Nemmeno di te?”

Rick annuì. “Già.” Sbuffò un accenno di risata sarcastica che però gli rese gli occhi ancora più avviliti. “Nemmeno di me.” Bevve altri due sorsi, si scollò dalla lattina di birra con un sospiro, e rivolse l’indice a Beth. “M-ma tu sei speciale, sai, Beth? P-proprio perché sai queste cose, allora un giorno saprai sempre affrontare la crudeltà del mondo a faccia dritta, senza farti spaventare. P-perché la vita non è altro che una vecchia puttana che si diverte a prenderti a calci. Anzi, no.” Tenne la mano stretta alla lattina e appoggiò il polso sul volante. Le braccia leggermente flesse e l’auto che procedeva regolare, in linea retta lungo la strada contornata dagli alberi illuminati dal tramonto. Rick scosse il capo. “Non è vero che la vita è una puttana. Le puttane hanno s-sentimenti. Le puttane hanno un cuore, una testa, hanno p-principi morali. Ridono, piangono, commettono errori, soffrono come te e come me. La vita è peggio.” Aggrottò le sopracciglia e aggravò il tono di voce. “Non ti odia e non ti ama. S-s-se ne fotte. Non segue nessun principio, va a caso, a volte ti premia e a volte ti punisce, indipendentemente da quello che tu fai o d-da come ti comporti. E tu non puoi fare altro che assecondare il suo gioco. Anche se a volte ti sembrerà di essere tu a giocare con lei, a-anche se a volte ti sembrerà di essere riuscito a prenderla per le corna, in realtà sarà sempre e solo lei quella a infilarti le corna su per il culo.” Sospirò, socchiuse le palpebre, e la sua espressione bagnata di rosso rimase fossilizzata in quella sfumatura malinconica, così chiara e profonda all’interno dei suoi occhi sciupati e rivolti all’orizzonte. “Ricordatelo.”

Beth strinse le manine sul sacchetto di carta che conteneva le liquirizie e rivolse a Rick uno sguardo interrogativo un po’ più luminoso, rischiarito da un raggio di speranza che aveva sciacquato via tutta la tristezza che le gravava sul cuoricino. “E come faccio a non farmi prendere per il sedere?”

Rick fece oscillare la lattina di birra e la sollevò oltre il volante. “Sii libera,” esclamò. “Sii intelligente, sii consapevole. T-tu puoi farcela, te l’ho detto. Hai potenzialità.” Le batté le punte di due dita sulla spalla, sfiorandole il braccio con la lattina. “Sei mia figlia. Sei figlia dei miei geni, s-sei nata dal mio c...” Singhiozzò, le parole si impastarono sulla lingua, le dita tornarono a picchiettare sulla spalla di Beth. “D-dal mio c-c...” Rick scosse il capo, stropicciò le palpebre, e tornò a guardare all’interno della lattina. “Dal mio cervello.” Reclinò il collo contro il poggiatesta del sedile e tracannò altri tre sorsi di birra.

Beth si strinse nelle spalle e sentì le guance imporporarsi di imbarazzo. Pensavo che avrebbe detto quella parolaccia con la ‘C’ che grida sempre con la mamma quando litigano. “Sul serio?” chiese a Rick, senza pensarci troppo.

Rick staccò la bocca dalla lattina. “O-ovvio che sì.” Flesse leggermente il braccio per raddrizzare la traiettoria dell’auto in moto, e tornò a indicare Beth, guardandola con occhi più sobri. “Tu saprai sempre come ottenere quello che vuoi dalla vita. E non,” scosse il capo con più vigore, “n-non ti ridurrai a farti mantenere dal primo idiota c-che ti metterà incinta al ballo della scuola o dopo la serata al cinema drive-in.”

Beth strinse i pugnetti davanti al petto, sentì un guizzo di emozione e di coraggio attraversarle il cuore e farle luccicare gli occhi. “E potrò anche aggiustare i cavalli che si fanno male come Mortimer?”

“Tesoro, tu potrai fare sempre tutto quello che vuoi.”

“Allora voglio farlo!” Beth impennò un braccio sopra la testa e sventolò la manina. Gli occhi erano due scintille di determinazione. “Io voglio diventare il dottore dei cavalli, voglio essere una scienziata che aggiusta le cose come te, voglio diventare brava come sei tu, voglio diventare la scienziata dei cavalli.”

Rick piegò un fine sorriso sulle labbra e borbottò una risatina. Sollevò le sopracciglia e rivolse a Beth uno sguardo ammiccante. “E poi dove metterai il tuo laboratorio?” le disse. “In garage ci sono già io, non possiamo metterci anche i cavalli dentro.”

Beth allargò uno smagliante sorriso d’orgoglio e si batté la manina sul petto rigonfio, sopra la cintura che le attraversava il cappotto. “Io avrò un laboratorio molto più gigante del garage,” annunciò. “Lavorerò in un ospedale grandissimo dove tutti sapranno quanto sono brava, e tutti porteranno i cavalli solo da me ad aggiustare.”

Rick rise di nuovo. “Anche i cavalli spaziali?”

E Beth confermò annuendo tre volte. “Anche i cavalli spaziali.”

“Ooh, ma quelli hanno un sacco di gambe in più, lo sai?” Rick prese un altro sorso di birra, e scosse la lattina agitando l’ultima gocciolina che era avanzata sul fondo. “E dovrai studiare davvero tantissimo per riuscire a curarli.” Gettò il braccio all’indietro e fece cadere la lattina vuota sui sedili posteriori.

“Davvero?” Beth si sporse dal sedile per avvicinarsi di più a Rick, il cuoricino riprese a battere di emozione, e i suoi occhioni tornarono a luccicare di meraviglia e curiosità. “E tu li hai visti?”

“C-certo che li ho visti.” Rick le accostò la mano al fianco. “Hanno le gambe che escono da qui.” Le pizzicò due volte il pancino da sopra il cappotto, facendole il solletico, e Beth scoppiò a ridere tenendosi il busto con le braccia e agitando le gambette. Rick la punzecchiò anche l’altro fianco, facendola ridere di nuovo. “E anche qui.” La solleticò nell’incavo del collo che sbucava dal bavero del cappotto e rise anche lui. “E qui e qui.”

Beth trillò gli ultimi singhiozzi di risata che le fecero sbocciare qualche lacrimuccia in mezzo agli occhi di nuovo luminosi di gioia, si arricciò contro il sedile e premette la fronte contro il braccio di Rick che continuava a farle il solletico. Riprese fiato, si asciugò le palpebre, e si abbandonò a quella sensazione di calore e leggerezza che soffiò via tutto il dolore del petto, come quando il vento spazza via le nuvole di pioggia facendo tornare il cielo limpido e azzurro. Perché papà riusciva sempre ad aggiustare tutto, anche quando diceva il contrario.

Beth tornò a sistemare Peach accanto a sé, mettendo anche lei sotto il nastro della cintura di sicurezza, e raccolse il sacchetto di carta che teneva fra le ginocchia. Fece dondolare i piedini sospesi, accostò una stringa di liquirizia alle labbra che erano tornate a sorridere, e rivolse a Rick uno sguardo colmo di affetto e gratitudine. “Ti voglio bene, papà.” Diede un morso alla liquirizia, masticò avidamente, e anche la sua bocca si addolcì, le guance si tinsero di rosso come la caramella.

Rick tenne il braccio flesso sul volante, chinò lo sguardo finendo di nuovo carezzato di striscio da uno dei raggi del tramonto che stava calando all’orizzonte, e ricambiò il dolce e sincero sorriso di affetto. Anche i suoi occhi sfumati dalla penombra e appesantiti da alcol e sonno si fecero più sereni e limpidi. “Ti voglio bene anch’io, tesoro.”

La Subaru proseguì dritta e liscia attraverso l’asfalto rettilineo, incorniciato dai filari di alberi che stavano appassendo gettando le loro ombre sulla strada, e andò incontro alla luce sanguigna proveniente dal sole gonfio e rosso come l’interno di un’arancia matura che calava all’orizzonte. Portò entrambi a casa.

 

* * *

* * *

 

Beth sollevò un lembo della sua toga blu per evitare che si impigliasse sotto il tacco della scarpa, scalò l’ultimo gradino della pedana che saliva sul palco allestito nel giardino dell’università, sotto l’ombra dei noccioli, e compì un primo passo sulle travi di legno che scricchiolarono sotto il suo peso. Lo studente in fila prima di lei raccolse la sua pergamena porta dal decano, si piegò in un breve e timido inchino di spalle dando la schiena al pubblico disposto sulle seggiole pieghevoli, e scosse la mano all’uomo rispondendo al sorriso che gli aveva rivolto quando lo aveva chiamato. “Grazie.” Lo studente scivolò in disparte, si resse il tocco sul capo con la mano libera che non reggeva la pergamena, e scosse il pugno verso il pubblico, accolto da alcune voci esultanti che si mescolavano agli applausi.

Il decano si spinse gli occhiali alla radice del naso, sistemandosi la montatura, e si voltò a raccogliere un altro rotolo dal vassoio d’argento foderato di velluto rosso.

Beth sentì il cuore stringersi, mozzarle il fiato in gola. L’aria primaverile che sapeva di boccioli di fiori e di erba tagliata si fece più calda e umida sotto l’ombra del tocco che le fasciava la testa prudendo fra i capelli, il battito prese a martellare, e una scarica di brividi roventi le percorse l’intero corpo soffocato dalla stoffa della toga che le arrivava fino alle nocche sbiancate per la tensione dei pugni chiusi.

Il decano si girò verso di lei, rinnovò il sorriso che aveva rivolto a tutti gli altri studenti, e lesse dalla cartella aperta che teneva sotto gli occhi. “Beth Sanchez,” pronunciò nel bulbo del microfono, e Beth sentì un’altra vampata di calore inondarle il viso facendole tremare le ginocchia. Dal pubblico sorse un altro scroscio di applausi, e lei riconobbe un “Vai, mamma!” gridato dalla vocina di Summer.

Beth tenne il sorriso nascosto sotto l’ombra del tocco, compì altri tre passi che fecero traballare la pedana di legno sotto i suoi piedi, e raggiunse il decano che le stava già porgendo la mano aperta ancora prima di consegnarle la pergamena. L’uomo le rivolse un sorriso gonfio, increspato dalle rughe che gli attraversavano il viso abbronzato all’altezza delle guance. L’espressione gentile e sincera. “Congratulazioni.”

Beth tese il braccio nascosto dalla manica blu della toga, raggiunse la mano calda e nodosa del decano, e si piegò anche lei in un breve inchino di rispetto. “La ringrazio.” Si resse il tocco sul capo per non farlo scivolare dai capelli, e raddrizzò le spalle. Il decano le avvicinò il rotolo alla mano libera. Beth raccolse un respiro di incoraggiamento che le riempì i polmoni e si appese alla pergamena gialla tenuta ferma da un fiocco rosso. Impugnò forte il rotolo, e dalla carta di pergamena si propagò una sensazione vibrante e magnetica che le riempì il cuore. Una sensazione di appagamento simile a quella che si prova ad appendersi alla sbarra di ferro della piscina dopo quaranta vasche consecutive; una sensazione che aveva un dolce sapore di vittoria e di salvezza; una sensazione che la fece sentire finalmente al sicuro.

Il decano sciolse la presa di mano e si sporse a raccogliere un altro dei rotoli dal vassoio d’argento. Beth scivolò in disparte stringendo ulteriormente la presa sulla sua pergamena che pulsava di vita, battendo forte e rapida come il suo cuore che ancora sentiva soffocarle la gola, e la voce dell’uomo si fece più fioca alle sue spalle, mescolandosi ad altri esulti e ad altri applausi. “Consegno l’attestato di laurea a...”

Beth soffiò un profondo respiro liberatorio, un sospiro che la svuotò di tutto il peso che le gravava sui polmoni e sulle ossa. Si sistemò il tocco sul capo, dopo che le era scivolato verso un’orecchia, e rigirò il rotolo della laurea fra le mani, soffermandosi su ogni piccola increspatura della pergamena, sulle estremità sfilacciate del sottile nastrino rosso stretto allacciato a forma di fiocco, e sulle lettere nere che si intravedevano anche dall’esterno. La vista si appannò, gli occhi si fecero più gonfi e annacquati, pizzicarono di emozione e bruciarono come il nodo di felicità che le stava infiammando il petto. Ce l’ho fatta.

Una sbracciata si elevò dal pubblico disposto davanti al piccolo palco, accanto ai tavoli del rinfresco. Una voce familiare si mescolò al brusio delle altre voci e degli applausi che battevano dal giardino fino alle orecchie dei laureandi. “Beth!” Il movimento di quella mano che la chiamava sventolando sopra le altre teste le fece girare lo sguardo verso le file di seggiole.

Jerry le sorrise dal pubblico, anche lui con gli occhi umidi di commozione e le guance arrossate, abbagliate dal tiepido sole primaverile che si frammentava attraverso le foglie degli alberi. Abbassò il braccio con cui l’aveva chiamata, sistemò il corpicino addormentato di Morty contro il petto, tenendolo rintanato nell’incavo del suo gomito, e il bimbo chiuse le piccole dita sulla camicia del papà, tenendosi appoggiato con la guancia sulla sua spalla. Morty strinse le labbra attorno al ciuccio, diede una succhiata, e le palpebre addormentate ebbero un fremito, restando chiuse nonostante le voci delle altre persone che disturbavano il suo sonno. Le gambe a ciondoloni raccolte dal braccio di Jerry e alcune ciocche di capelli castani a cadergli davanti agli occhi chiusi.

Jerry si chinò a posare una mano sulla spalla di Summer, seduta accanto a lui, e le diede una carezza di incitamento. “Fai l’applauso alla mamma. Falle sentire come batti le manine.”

Summer fece dondolare i piedini dalla sedia pieghevole – non riuscivano a toccare terra – e batté le manine sopra la testa per farsi sentire oltre gli altri applausi. “Brava, mamma!” Le sue gambette oscillarono dalla seggiola, fremettero di emozione e crearono vaporosi sbuffi nella stoffa dell’abito che le cadeva attorno alle ginocchia. Le avevano comprato il vestito nuovo solo per l’occasione. Un abito a fiori rossi, in tinta con il colore dei capelli che Beth le aveva acconciato raccogliendoglieli in uno chignon pinzato da un fiore bianco.

Beth tornò a sentirsi avvolta da un caldo abbraccio di emozione nel vederli tutti e tre assieme – Morty in braccio a Jerry, Jerry che teneva la mano sulla spalla di Summer – e ricambiò anche lei i sorrisi che le stavano rivolgendo. Sollevò la pergamena di laurea, la sventolò con trionfo verso il pubblico, e la manica della toga le dondolò attorno al polso. Scese dai gradini di legno dal lato opposto da dov’era salita, schivò un gruppetto di tre studenti che si erano fermati a parlare, e accelerò il passo per infilarsi in mezzo al pubblico e raggiungere la sua famiglia che la aspettava.

Una voce la chiamò in mezzo ai borbottii che riempivano l’aria del giardino. “Signorina Sanchez.”

Beth arrestò il passo, bloccata da quel richiamo familiare, e tornò a girarsi verso il gruppo di studenti in toga blu appena scesi dal palchetto.

Il professor Basil si girò di profilo e sgusciò via dalla folla passando in mezzo alle loro spalle dei ragazzi, sollevò il braccio come aveva fatto prima Jerry, e la chiamò di nuovo con un sorriso amichevole. “Signorina Sanchez.”

Beth rasserenò il sorriso, tenne stretto il rotolo della laurea e girò la mano per esporre la fede all’anulare. Sollevò il mento dando una scossa ai capelli che caddero dietro le spalle, ruotò ancora il polso in modo che la fede finisse sotto un abbaglio di luce che colpì l’anello con una scintilla dorata. Esibì la fede con la stessa fierezza con cui aveva esposto la laurea dal palco. “Signora Smith, in realtà,” disse con tono gonfio d’orgoglio.

Il professor Basil le tese la mano aperta, porgendole la presa. “Mi permetta di farle le mie congratulazioni. Davvero un ottimo traguardo.”

Beth si lasciò scuotere la mano e annuì. “La ringrazio.”

Il professor Basil trattenne la stretta, calda e solida, e gettò un’occhiata rapida al pubblico seduto sulle file di seggiole e disposto ai due tavoli adornati con tovaglie di carta bianca su cui era apparecchiato il rinfresco. Alcuni studenti si stavano già servendo dalle portate di champagne, brindavano facendo trillare gli orli dei flute, e altri chiacchieravano rosicchiando i salatini o pescando dal vassoio di tramezzini. Il professore mostrò uno sguardo d’intesa a Beth. “Ha due minuti da dedicarmi, dottoressa?”

Beth sentì di nuovo una stretta di orgoglio strapparle un battito dal petto. Dottoressa. Non poté fare altro che annuire. “Certo.”

Il professor Basil le posò una mano sulla spalla, aprì il braccio verso il tavolo del rinfresco, e la accompagnò. “Venga, venga.” Si fece spazio fra due studenti che si stavano facendo una foto reggendo entrambi le rispettive lauree, tese il braccio al centro del tavolo, scavalcò la boccia con il punch e quella con i gamberetti disposti a corona attorno alla salsiera addobbata con foglie di insalata, e raccolse la bottiglia di champagne dal secchiello del ghiaccio. Prese anche due flute vuoti dal vassoio. “Abbiamo ricevuto la sua domanda di richiesta per la specializzazione.” Riempì i due bicchieri facendo gonfiare la schiuma frizzantina fino all’orlo, e ne porse uno a Beth. “Cardiochirurgia, è esatto?”

Beth raccolse il flute e annuì. “Sì, esatto.” Accostò la bocca all’orlo sottilissimo del bicchiere, e prese un sorso lasciandosi toccare le labbra dalle bollicine scoppiettanti. Il sapore improvviso dell’alcol, fresco e fruttato, le punse la lingua e la estraniò per un istante. Beth sorseggiò piano, scosse la testa, e si costrinse a rimanere lì dove voleva essere, e non dove di solito scappava quando beveva e quando sentiva il sapore dell’alcol scenderle nella gola e scaldarle lo stomaco. Lasciò scivolare l’orlo del flute dalle labbra, fece oscillare lo champagne fra le pareti di vetro del bicchiere, e tornò a rivolgere lo sguardo al professore. “Speravo di riuscire a inserirmi già nei corsi di questo semestre.”

“Mi farebbe piacere,” rispose lui. “Ho revisionato i suoi resoconti e i suoi elaborati dal tirocinio.” Anche il professor Basil bevve un piccolo sorso del suo champagne, lo fece oscillare fra le pareti del flute, e continuò a guardare Beth con quell’espressione intensa e ammirata. “Non male,” annuì con tono compiaciuto. “Non male davvero. Sarei felice di averla nel mio corso, e posso farle trovare gli orari in segreteria entro questa sera stessa.”

Beth non seppe trattenere un sorriso. “Sarebbe grandioso, per me.” Rigirò la pergamena della laurea fra le dita e prese un altro sorso di champagne, più abbondante. “Contavo di cominciare il prima possibile, dato che sto già ricevendo delle proposte di lavoro sia dal Saint Eustache che dall’Equus. Vorrei sapermi organizzare.”

“Ma certamente.” Il professor Basil si spostò verso l’angolo della tavolata, lontano dal chiacchiericcio degli studenti che si stavano accumulando sempre di più, e si lasciò seguire da Beth. Fece tintinnare le unghie sul suo flute. “Sa, ora che ha raggiunto questo traguardo posso anche confessarglielo.” Le rivolse un’occhiata da sopra la spalla, senza far cadere quel fine sorriso da faina dalle labbra. “Ero scettico nei suoi riguardi, quando ha cominciato gli studi, molto scettico. Ero al corrente della sua situazione...” Sollevò un sopracciglio, spostò gli occhi all’interno del flute, lasciando che le sue iridi si tingessero d’oro. “Delicata,” specificò con tono più cauto. Il suo sguardo scivolò verso il pubblico, verso Jerry che stava sistemando il ciuccio a Morty che si era svegliato e che si stava stropicciando gli occhietti ancora gonfi e assonnati, verso Summer che si teneva aggrappata ai pantaloni del papà per proteggersi dalle altre persone che si stavano alzando. Il professor Basil sollevò le sopracciglia guardando Jerry con un’espressione compassionevole, l’espressione che tutti mostravano sempre davanti a lui, e fece oscillare di nuovo il suo bicchiere di champagne. “Con la bambina così piccola,” commentò, “poi anche quando è arrivato il secondo.” Scosse il capo e soffiò una risata leggera. “Temevo che non ce l’avrebbe fatta a ottenere dei risultati simili nel suo percorso di studi, dovendo occuparsi anche dei figli. Con la tenacia che è riuscita a dimostrare, poi.”

Un lieve fremito attraversò il braccio di Beth che reggeva il rotolo di laurea diventato improvvisamente più pesante, e le dita avvolte attorno al gambo del flute si chiusero dando una graffiata contro il vetro. Quelle parole la estraniarono davvero, anche senza bisogno della nuvoletta di alcol ad avvolgerle e a gonfiarle la testa, e la trascinarono via. Tenacia...

I ricordi la risucchiarono, le sbatterono in faccia tutto il dolore della tenacia che aveva dimostrato in quegli anni di sacrifici. La vergogna dei primi tempi, quando andava a lezione con il pancione che diventava ogni giorno sempre più gonfio, quando teneva gli occhi bassi mentre camminava nei corridoi per non incrociare gli sguardi deridenti degli altri studenti e quelli compassionevoli dei professori che ogni tanto le offrivano di portarle i libri o la borsa, o di farla sedere nei posti in prima fila per non farle fare le scale fino alla cima dell’aula. La stanchezza di quando si trovava a studiare a notte fonda, con il cuore che batteva rapido per tutto il caffè che aveva bevuto, le mani che tremavano mentre sfogliavano le pagine e ricopiavano gli appunti, e gli occhi gonfi e brucianti, o per il sonno o per tutte le lacrime che aveva versato dopo una crisi di pianto perché non riusciva a far addormentare Summer, o dopo una litigata con Jerry. Tornò il sapore delle notti in cui si dimenticava di avere un marito e una figlia in casa. Le notti di quando prendeva con sé i libri, due bottiglie di Cabernet rosso, e andava a rannicchiarsi nei sedili posteriori dell’auto in garage, lontana dall’odore stomachevole di pappe di verdura e di pannolini nuovi. Tornò l’odore della vecchia Subaru con il radiatore ancora rotto dove si rintanava solo per sentire l’aroma stopposo dei sedili, quello di birra rafferma – l’odore di Rick, dai, Beth, dillo che ti rifugiavi là solo per ubriacarti e sentire ancora la presenza di tuo padre –, quello delle bottiglie di vino rosso che era capace di buttare giù in una notte sola, e quello dei libri e dei blocchi di appunti che ripassava e ripeteva a mezza voce. In quelle notti, Beth studiava con rabbia, fino a che gli occhi non le facevano così male da darle l’impressione di star cadendo come quelli dei pupazzetti che si spremono per far uscire lo slime dalle orbite, e fino a che non sentiva il cervello scoppiare e colarle dalle orecchie. Passava troppo tempo nell’ambulatorio dell’università, in mezzo alle bocce di organi sotto formaldeide, e troppo poco a casa, in mezzo ai suoi figli e a suo marito, a volte per necessità e a volte solo per non subirsi gli sguardi pietosi di Jerry e i pianti dei bambini che avevano fame o mal di pancia o che volevano essere tenuti in braccio. Beth cominciava sempre di più a puzzare di lattice, di disinfettante, di sangue coagulato e di interiora lacerate – e anche di stalla, durante il periodo del tirocinio al maneggio –, invece che di pappe per neonati, coperte di lana, latte in polvere e talco. Lei puzzava come un chirurgo e non come una mamma, e le stava bene. Aveva tenuto duro, aveva dimostrato tenacia, e ora tutte le lacrime e il sudore che aveva versato si erano condensati in quel foglio di pergamena arrotolata che reggeva fra le mani e che le pareva pesare come una vita intera, come il futuro che la attendeva da quel giorno in poi. Un futuro senza più liti con Jerry, senza più nottate passate a studiare in auto, senza più bottiglie di vino vuoto comprate e bevute di nascosto, senza più attenzioni negate ai suoi figli. Una normale vita felice con una normale famiglia felice. Ma c’era ancora qualcosa che le pesava dentro. Un buco sanguinante all’altezza del petto che Beth non riusciva a riempire, né con la pergamena della laurea né con l’idea di quella sua nuova vita felice.

Beth tornò con la mente in mezzo alle voci ridenti degli studenti, in mezzo ai trilli dei bicchieri che venivano accostati per i brindisi, in mezzo ai flash delle macchine fotografiche e al suono di qualche applauso che ancora scrosciava nell’aria che profumava di primavera. Sospirò, socchiuse le palpebre, e i suoi occhi si posarono su quello che era avanzato del suo champagne. Si sfumarono di un’ombra malinconica ma forte. “Mi hanno sempre insegnato a lottare per ciò che voglio proseguendo per la mia strada, senza badare troppo ai giudizi delle persone.”

Il professor Basil le sorrise, e le mostrò un sorriso più caldo e comprensivo, sbarazzandosi dello sguardo da faina. “Dovrebbe essere fiera di se stessa.” Le batté con affetto una mano sulla spalla, da sopra la toga, e tornò a guardare in direzione di Jerry e dei bambini. “La sua famiglia lo sarà, di certo. Ora che sono tutti qua a guardarla e a sostenerla, per lei dev’essere una gioia immensa.”

Beth continuò a fissare il suo riflesso specchiato sulla superficie dello champagne, il taglio del viso sottile e asciutto come quello di Rick, gli occhi increspati dalla stessa perenne espressione di disappunto, e una stretta al cuore fece salire il sapore aspro delle lacrime fino alla gola. “No.” Fece oscillare il flute, agitando le bollicine che scoppiettarono contro la superficie di vetro, e sciolse la curva delle labbra in un sorriso triste e rassegnato. “No, non sono tutti qui a guardarmi.”

L’ombra di Rick si materializzò su una delle sedie rimaste vuote. Beth lo immaginò seduto lì a guardarla, con il vecchio camice a cadergli attorno alle spalle stravaccate sullo schienale e attorno alle ginocchia accavallate. Un suo braccio sollevato a reggere una lattina di birra in un cenno di brindisi, i suoi occhi sciupati dall’alcol che la guardavano con una scintilla di orgoglio, e il mezzo sorriso sbilenco – ma caldo e sincero – a incurvargli la bocca. Il suo ricordo scavò in quel buco nel cuore di Beth che né Jerry né i bambini e né quel rotolo che ora stringeva fra le mani riuscivano a riempire.

Beth sospirò sentendo il respiro vibrare. Torna, papà. Abbassò il tocco sulla fronte per nascondere il viso sotto l’ombra del copricapo, e chinò il viso. Si morsicò il labbro che sapeva ancora di champagne, la bocca tremò, e gli occhi tornarono a bruciare come quando si trovava sul palchetto davanti al decano. Torna presto. Una singola lacrima si staccò dalle sue ciglia, rotolò lungo la guancia come una perla di vetro, e piovve dentro il bicchiere di champagne.

 

 

 

Fine


   
 
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