Videogiochi > Life Is Strange
Ricorda la storia  |      
Autore: GirlWithChakram    01/01/2018    4 recensioni
Le delicate corde del cuore dell’involontaria guardiana di una villa d’epoca; il corno squillante foriero di un millantato concerto di beneficenza; il flautato parlottare della crème de la crème di una cittadina costiera; le note soavi eppure graffianti di una misteriosa sconosciuta; la martellante tendenza a cadere in vividi sogni ad occhi aperti. Sono questi gli strumenti necessari a comporre l’originale colonna sonora per la notte di Capodanno che, si sa, è da molti considerata la più magica ed indimenticabile dell’intero anno.
[Pricefield]
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Yuri | Personaggi: Chloe Price, Max Caulfield
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
DREAMING WIDE AWAKE
 
 
 
La seguente storia è ispirata ad eventi realmente accaduti, ma ovviamente filtrati attraverso la mia suggestionabile mente e rielaborati in chiave Pricefield per il vostro intrattenimento. Non ho particolari avvertimenti da segnalare; nel caso non vi piaccia, prendetevela con la me stessa che ha iniziato a scrivere questa cosa un anno e mezzo fa e non con la me attuale che ha deciso di concluderla e pubblicarla.
 
 
 
Ebbene sì, per l'ennesima volta mi sono fatta fregare. Maxine Caulfield, professione: fessa.
Avrei dovuto dire di no quando ne avevo la possibilità, avrei dovuto defilarmi, convincere qualcun altro a prendere il mio posto. Ma il signor Wells mi era sembrato così cordiale e la signora Grant così ben disposta... Mai avrei potuto immaginare come sarei stata incastrata.
“Si tratterà solo di un paio d'ore, non temere, non ti rovinerai i festeggiamenti di Capodanno” mi avevano assicurato con testuali parole.
Guardo l'orologio: le 18:04.
Un paio d'ore, come no?
Batto nervosamente il piede sul lucido pavimento in marmo decorato a scacchi. È dalle tre di questo pomeriggio che sono di sorveglianza alla Blackwell Manor, la bella villa d'epoca che svetta sul piccolo borgo di Arcadia Bay. Ho con me l'unico mazzo di chiavi e sono l'unica presente a conoscere il codice d'allarme. Vorrei tornare a casa a trascorrere l’ultima notte dell’anno in santa pace, perché mi era stato assicurato che avrei potuto farlo.
E invece no.
Illusa.
Mi lascio sfuggire un sospiro rassegnato, che serve a sfogare la mia frustrazione.
Dipendesse da me avrei chiuso già da un pezzo. Eppure, proseguo nel mio compito di sorveglianza, come mi è stato ordinato.
Illuminato dai numerosi lampioni in ferro battuto in funzione nel parco, per contrastare l’oscurità delle brevi giornate invernali, scorgo un gruppo di uomini trafficare lungo il viale acciottolato, attrezzando e spostando strani macchinari.
Sbuffo.
Naturalmente i miei superiori avevano dovuto omettere il piccolo particolare del concerto di Capodanno e il fatto che io sarei dovuta restare fino a mezzanotte per dare una rassettata finale e chiudere a chiave la villa, come una brava Cenerentola sentinella. Col senno di poi, avrei dovuto capire che i giorni precedenti, trascorsi a mettere in ordine ed approntare con uno stuolo di sedie la sala principale, fossero di preparazione per questo evento.
In fondo sembra quasi che me la sia cercata.
Il mio occhio vaga pigramente sulla marmaglia indaffarata. Stanno tentando di caricare un enorme pianoforte su un pericolante trabiccolo in modo da sollevarlo per fargli fare le scale. Sarebbe stato meglio per tutti, soprattutto per me, se avessero deciso di tenere questo spettacolo da un'altra parte.
Il cartellone appeso di fronte ai miei occhi sembra deridermi.
“Prescott New Year’s Eve Charity Concert”. Nulla organizzato dai Prescott potrà mai risultare in qualcosa di caritatevole o benefico.
«Sta' attento! Pezzo d'idiota!»
Mi volto di scatto verso il giardino, dove, sotto un cono di luce, spicca una ragazza fasciata in sbrindellati abiti punk e con una quantomeno singolare chioma blu che sta imprecando pesantemente contro uno dei facchini.
L'ho già notata nel primo pomeriggio. È entrata più o meno insieme a me ed è rimasta su una delle panchine del querceto a fumare e fissare il vuoto. Pensavo che dopo qualche ora si sarebbe stancata, scoraggiata dal freddo, invece continua ad aggirarsi per il parco, come uno spettro irrequieto.
Una voce mi riscuote dai miei pensieri.
Gli uomini richiedono il mio aiuto per aprire la porta di servizio e far passare lo strumento laccato di nero lucido, che pare quasi una bestia addormentata, pronta ad emettere il proprio armonioso richiamo non appena ridestata. Insieme al colosso a tasti viene portata, con cura quasi sacrale degna di una reliquia, una custodia scura, che probabilmente deve contenere uno strumento a corde o a fiato, ma di più non riesco ad intuire.
Le ore passano e la ragazza del mistero continua a fumare nervosamente, ora percorrendo il vialetto a lunghe falcate, ora dondolando pericolosamente le gambe da uno dei muretti ornamentali che affiancano le scalinate in pietra dell’ingresso.
I suoi occhi dardeggiano a destra e a sinistra, mentre sempre più persone si presentano all'entrata per assistere al concerto. Sono tutti esponenti dell'alta società della zona, giunti dalle rispettive proprietà a bordo di auto costose; famiglie straordinariamente ricche pronte a spendere migliaia di dollari per un paio d'ore di intrattenimento.
La cosa che più mi urta è che il mio misero salario è di tre dollari l'ora. Se decidessi di frugare anche solo in una delle borse di questi facoltosi individui o nelle tasche di un paio dei loro cappotti, potrei pagarmi gli studi per i prossimi cinque anni.
Un altro sospiro di sconfitta mi sfugge dalle labbra, mentre mi riaccomodo sulla sedia nell’androne, dietro la traballante scrivania che delimita la mia postazione.
La giovane dai capelli tinti, ora stravaccata sulla scalinata d'ingresso, incurante del viavai, ode il mio lamento e mi sorride.
Arrossisco di colpo e distolgo lo sguardo.
«Ehi» mi si rivolge poco dopo una voce «Hai da accendere? Il mio zippo è rimasto a secco.»
Alzo gli occhi con una pesantezza quasi fisica, incrociando un profondo sguardo celeste.
«Vedi?» insiste la ragazza, facendo scattare un paio di volte il meccanismo dell'accendino, che emette scintille, ma non genera alcuna fiamma.
«Mi dispiace» mormoro «Ma non fumo.»
L'eco delle mie ultime parole rimbomba tra le spesse pareti della sala.
«Quindi non posso aiutarti» aggiungo.
«Non fa niente» risponde, riponendo la sigaretta spenta nel pacchetto «Vuol dire che per ora ho fumato abbastanza.»
Mi sento fortemente a disagio, scrutata da quei suoi occhi limpidi che sembrano considerarmi di particolare interesse.
«Ragazzina!» soggiunge uno degli organizzatori, stirandosi il completo da migliaia di dollari ed aggiustando la cravatta di seta «Servono altre sedie per il concerto, non è che potresti andarle a prendere?»
Storco il naso. Sono cinque piani di scale fino alla torretta dove c'è l'arredamento di riserva ed ognuna di quelle cose pesa almeno la metà di me.
«Dieci dovrebbero bastare.»
Dieci! penso tra me e me, morirò oggi, qui, facendo questo lavoro ignobile.
Non basta aver già portato venti sedie ieri pomeriggio, aiutata per fortuna da Warren e Kate. No, ovviamente c’è bisogno di recuperarne altre.
Per l'ennesima volta, sospiro, augurandomi che la morte sopraggiunga rapida ed indolore.
«Serve una mano?» si propone la sconosciuta «Sono sempre disponibile se c'è da aiutare una donzella in difficoltà.»
«No, grazie» la liquido, sperando di non sembrare troppo rude «Posso farcela da sola.»
«Come vuoi» ribatte, scuotendo le spalle «L’ho detto solo per essere gentile.»
Mi fa sentire in colpa per aver rifiutato tanto bruscamente la sua offerta, così tento di rimediare: «Beh, se proprio ci tieni, una mano la potrei accettare.»
Sul suo viso trionfa un sorriso compiaciuto. «Fammi strada, allora.»
Senza spiccicare una sola parola in più del necessario, la guido lungo la grande scalinata che porta al primo piano e con la coda dell'occhio la vedo ammirare l'immenso salone decorato con motivi floreali incisi nel marmo o dipinti sugli stucchi. Forse potranno non essere di suo gusto, ma non può negare che siano molto belli.
Proseguiamo percorrendo una nuova rampa di scale fino al secondo e poi al terzo piano, dove una volta vivevano gli individui più ricchi dell'intera baia. Arriviamo dunque alla base della torretta, che è divisa a propria volta su due dislivelli.
«Manca ancora molto?» chiede la ragazza, trottando dietro di me lungo i ripidi scalini.
«Non tanto» la rassicuro.
«Sarà meglio, perché comincio ad essere hella-stanca! Mi sento mancare il fiato» annaspa provata, inspirando con foga.
Concludiamo l’ascesa arrivando alla polverosa cima della villa, in cui le belle travi a vista del soffitto sono collegate tra loro da decine di ragnatele e l’intonaco cade a pezzi per via della totale assenza di cura e manutenzione.
Impilati contro un muro ci sono alcuni materassi e cuscini, mentre dal lato opposto dominano sedie e poltroncine rimosse dalle sale inferiori.
Sollevo tre seggiole in un colpo solo, rischiando seriamente di provocarmi un’ernia, ma non faccio in tempo a fare tre passi che mi rendo conto di non essere in grado farcela.
La suola troppo consumata delle mie sneakers non fa presa sui gradini liscissimi, portandomi a scivolare verso un impatto doloroso, e potenzialmente pericoloso, contro la scalinata. Lascio andare le sedie in un ultimo, disperato, tentativo di restare in piedi, ma non posso combattere la gravità.
Qualcosa mi afferra per le braccia e mi sostiene facendomi scampare il tanto temuto scontro con la pavimentazione in prezioso legno cerato. Scalcio a vuoto, mentre una forza mistica mi solleva per poi riposizionarmi accuratamente coi piedi per terra.
Il rumore delle seggiole che rotolano lungo la tromba delle scale e si schiantano l’una addosso all’altra sovrasta ogni cosa, percuotendo tutte le pareti fino alle fondamenta della casa. Il mio cervello rimbomba nella scatola cranica, stordendomi.
Attorno a me la confusione perdura per qualche istante, ma poi il mondo torna ad essere il luogo tranquillo di sempre all’interno della Blackwell Manor. Volute di granelli di polvere danzano a ritmo del mio respiro affannato, mentre il mio cuore martella rapido cercando di riprendersi dallo scampato pericolo.
«Per un pelo, eh?» commenta la ragazza alle mie spalle «Sei contenta di aver accettato il mio aiuto adesso, vero?»
Non riesco neppure a comprendere esattamente tutte le sue parole, da tanto sono ancora scossa, ma trovo la forza di mormorare: «Grazie…»
«Ma figurati» ribatte, saltando i gradini due a due fino ad arrivare al mucchio di detriti che una volta erano le tre seggiole. Solleva un pezzo di legno, un tempo stato una gamba, e lo fa ciondolare osservandone le schegge che cadono numerose. Poi solleva uno dei cuscini dell’imbottitura e lo scuote, osservando come praticamente le si disfi tra le dita.
«Roba di “qualità”» sbuffa, pulendosi i palmi sui jeans strappati «Piena di tarme e acari… All’apparenza perfetta, ma marcia dentro, proprio come i Prescott.»
Deglutisco rumorosamente. Non dovrebbe permettersi di fare commenti simili, soprattutto non con il concerto al piano inferiore quasi sul punto di iniziare. Qualcuno potrebbe sentirla ed associarla a me, il che mi farebbe probabilmente licenziare in tronco.
«Forza» dice, risalendo le scale a balzi «Prendiamone una alla volta e cerchiamo di uscirne vive.»
Seguo il suo consiglio come un robot, muovendomi in automatico.
Facendo quelli che mi sembrano centinaia, se non migliaia, di gradini, alla fine riusciamo ad avere dieci seggiole integre pronte per compiere l’ultimo tratto dalla base della torretta al pian terreno.
«Ehi!» grida sporgendosi verso l’ampio spazio della scalinata.
Un uomo in completo nero si affaccia dal basso e sgrana gli occhi vedendoci.
«Chiama i gorilla del trasporto e di’ a quei cervelli di gallina di darci una mano» ordina la sconosciuta al povero sventurato, che sembra essere sul punto di ribattere, ma rinuncia, preferendo eseguire l’ordine.
Un minuto dopo, tre uomini forzuti giungono in nostro soccorso e si issano sulle spalle il pericolante carico.
L’individuo in abito scuro si riaffaccia, emettendo un breve colpo di tosse, come per richiamare la nostra attenzione.
«Sì, arrivo» sbotta la giovane dai capelli blu. Mi passa accanto, mi sorride e poi si precipita dall’uomo, scomparendo insieme a lui dentro una delle sale secondarie.
«Ma che cosa è successo?» domando a me stessa, mentre ancora tento di riordinare gli eventi.
Con una scrollata di spalle decido di tornare alla mia postazione, lasciando perdere quanto avvenuto poco fa.
Mano a mano che scorrono i minuti, sempre più invitati si presentano, trattandomi alla stregua di un attaccapanni umano. Ad un certo punto mi ritrovo talmente ricoperta di giacche, coprispalle e pellicce che non ho altra scelta se non quella di scaraventare il peso con pochissima eleganza dentro un armadio a caso, totalmente incurante della potenziale presenza di polvere o meno.
Proprio mentre sto per tornare al mio posto, con un'aria soddisfatta sul viso per essermi finalmente liberata di quell'impiccio, vedo entrare i mecenati della serata: Prescott Senior e Junior.
Sean, il potente magnate padrone dell'intera città, sfila tra ali adoranti di lecchini che si protendono a sfiorare le falde del suo cappotto come fosse un dio sceso in terra; nella sua ombra segue invece il figlio, Nathan, accompagnato dalla sua consueta aura di malinconia e cattivo umore. Che cosa abbia da essere tanto arrabbiato con il mondo lo sa solamente lui, visto che il nome che porta gli concede di avere praticamente tutto ciò che un essere umano possa desiderare.
Al braccio di Prescott padre cammina una donna, che sono certa non essere la moglie, ma una giovane miss venuta dalla California, come ricordo di aver recentemente letto su numerosi giornali. Accanto a Nathan avanza, invece, Victoria Chase, altra esponente di buona famiglia che non mancherebbe mai ad un evento di questa portata.
Il quartetto mi squadra con freddezza, affidandomi i propri indumenti, poi prosegue in direzione della sala allestita per il concerto.
Invito gli ospiti a seguirmi per prendere posto e quelli mi camminano dietro come se avessi appena garantito loro l'ingresso al Nirvana.
La sala da ballo in cui il pianoforte è stato disposto è piuttosto lontana dall'entrata della villa, per cui mi tocca recuperare qualche pecora smarrita finita a brancolare per le stanze teoricamente chiuse.
Mentre agguanto una vecchietta totalmente sorda e con cui le mie grida di “non vada da quella parte” risultano inefficaci, riesco a buttare un occhio oltre la porta incautamente aperta dalla donna e scorgo uno svolazzare di ciocche azzurre.
Qualcosa scatta nel mio cervello e rimango paralizzata per una frazione di secondo, prima che la nonnina chiuda l'uscio con un colpo secco, affermando che quello non è un bagno e sostenendo che io le abbia fornito le indicazioni sbagliate.
Mi colpisco la fronte con il palmo, iniziando a sorbirmi le sue lamentele, mentre la conduco alla sala designata.
Arriviamo giusto in tempo per vedere Sean Prescott alzarsi dalla propria poltroncina in prima fila e prendere in mano il microfono per iniziare il discorso di benvenuto.
In automatico, il mio cervello si stacca, lasciando quel pallone gonfiato a tessere le proprie lodi e quelle del proprio retaggio come se le persone fossero venute ad assistere solo per sentirlo blaterare.
La sua presentazione sembra andare molto per le lunghe, così non appena riesco, sgattaiolo indietro, mettendomi a girovagare per i corridoi rimasti vuoti. Vago fino a ritrovare l'ingresso, che mi assicuro di chiudere dall'interno visto che ormai l'evento è cominciato.
Dopo un buon quarto d'ora sento finalmente il primo applauso, segno che Prescott ha deciso di tapparsi la bocca e lasciare a qualcun altro il palcoscenico.
La Blackwell Manor a quel punto piomba in un silenzio quasi inquietante, mi pare persino di riuscire a sentire i mormorii e i lamenti degli spettri che senza dubbio abitano il piano interrato.
Poi un suono rompe quell'esasperante quiete: una nota limpida, vibrante, viva.
Il mio stomaco si attorciglia senza una ragione, mi viene la pelle d'oca e i capelli sulla nuca si rizzano come gli aculei di un istrice.
Mi alzo dalla sedia, abbandonando la mia postazione come se non me ne importasse più niente, la musica è troppo invitante, ammaliante come il canto di una sirena da cui varrebbe la pena lasciarsi trascinare fino al fondo dell'oceano.
Nuove note, più delicate, accompagnano la melodia appassionata, ma non possono competere con quella che è la colonna portante del brano.
Cerco di riconoscere che strumento sia. È quasi senza dubbio uno strumento ad arco, una viola o un violino direi, ma non può essere un volgare pezzo di legno strimpellato dal primo citrullo passato per strada, ha qualcosa di magico, di ipnotico, e devo scoprire di cosa si tratta.
Avanzo in trance, ripercorrendo il miei passi fino a tornare alla grande sala delle cerimonie. Fuori dalla porta, ora, ci sono due energumeni con pistole in bella vista al fianco che mi scrutano diffidenti.
«E tu chi saresti?» mi domanda quello di sinistra.
Boccheggio, incapace di elaborare un pensiero coerente che non sia quella musica incantevole.
«Non è la ragazzina all'ingresso?» osserva il suo collega «Quella del guardaroba?»
Annuisco, per fargli capire che ha ragione.
«Ah, bene» borbotta l'altro «Smamma.»
«Volevo... Sentire... Melodia...» balbetto, spaventata dal tono aspro.
L'uomo mi fulmina con aria cattiva, incrociando le muscolose braccia al petto, come a sottolineare il proprio imperativo.
«Oh, andiamo, Rodney» si intromette l'altro tizio «Facciamole dare un'occhiata, non può mica fare qualcosa di male da questa distanza.»
«Sai bene che non possiamo, siamo qui per una ragione» si oppone il compare «Sorvegliare strumento ed artista, nessuna eccezione per la “schiavetta” qui presente.»
Mi cade la mandibola a sentire quella replica e la stessa reazione ha l'altra guardia, che deve essere di origine afroamericana come intuisco dalla pelle scura.
«Tu non hai appena parlato di schiavitù davanti a me, man!» sbotta, aggrottando le folte sopracciglia.
«Non era quello che intendevo, Drew» tenta di rimediare Rodney, mentre alle loro spalle scoppia un forte applauso che accompagna il termine del primo brano «Lo sai che cosa intendevo dire.»
«No, non lo so» ribatte l'altro «Era qualcosa di offensivo verso le minoranze?»
«Ma andiamo! Non fare così, mi è scappato...»
«Certo, Rod, continua a ripetertelo se ti aiuta a dormire la notte» infierisce Drew, gustandosi ogni secondo dell'agonia del collega «Mentre questo troglodita si contorce nei sensi di colpa» aggiunge poi rivolto a me, non appena nel salone ricomincia la musica «Se vuoi dare un'occhiata, puoi.»
Socchiude la porta e mi invita ad avvicinarmi.
«Sai, il violino che senti è uno Stradivari del 1700, all'oggi vale circa sei milioni e mezzo di dollari, un vero gioiello» mi spiega, mentre io cerco di non avere un infarto «Ma il violino di per sé non vale nulla in confronto alle mani della giovane artista che lo suona, sono assicurate per cinque milioni l'una.»
Non so con quale forza i miei occhi non siano schizzati fuori dalle orbite e il mio cuore continui a battere.
L'uomo in completo scuro, quello che ho visto dalle scale, picchia come un pazzo sui tasti del mastodontico pianoforte a coda, ma nessuno lo considera, sono tutti calamitati dalla ragazza dai capelli blu che, con gli occhi chiusi, muove l'archetto all'impazzata, come stesse inseguendo qualcuno a colpi di note.
I vestiti da punk sono scomparsi, sostituiti da eleganti pantaloni neri, in abbinamento ad una camicia a maniche corte dello stesso colore su cui risalta una cravatta rossa, che sobbalza e si scuote ad ogni colpo d'arco e ad ogni respiro della violinista.
Le dita affusolate della mano sinistra, che non avevo notato essere così perfette, scorrono con maestria a premere le corde, come in una danza antica, riportando alla vita melodie che avrei detto altrimenti defunte.
Non mi rendo conto di aver appoggiato tutto il mio peso al portone, portandolo ad aprirsi sempre di più, fino a che non mi ritrovo anche io dentro il salone, in piedi dietro al resto del pubblico rapito, perfettamente di fronte alla donna dai mille inaspettati volti.
Il brano dal ritmo più sincopato si conclude, per lasciare spazio ad un pezzo più tranquillo, dominato in principio dal pianoforte, che viene però presto messo in secondo piano quando la sconosciuta torna a far vibrare le anime di tutti presenti in risonanza con la piccola cassa dello Stradivari.
La mia mente inizia a volare, trasportata da quella melodia e da quelle che la seguono, non mi rendo neppure conto di essere imbambolata con lo sguardo perso nel vuoto.
Vengo riscossa da un applauso, mentre la violinista si toglie dalla spalla lo strumento.
Il pianista afferra un microfono e comunica una breve pausa, scatenando l’alzarsi improvviso del pubblico, che si raggruppa in diversi capannelli, esaltando la bravura degli artisti.
Mi devo defilare, per sfuggire agli sguardi contrariati dei ricchi individui in tiro che mal tollerano che a loro si mescoli una “popolana” come me, avvolta nella propria felpa grigia sformata e in un paio di jeans decisamente inadatti ad un simile evento.
Colgo un’occhiata rovente di Sean Prescott, che probabilmente teme che la mia presenza lo faccia sfigurare di fronte alla sua schiera di burattini in abito da sera.
Torno, con la coda tra le gambe, a passare di fronte ai due uomini della security, che mi osservano silenziosi, mentre dietro di me trotta una madama alla ricerca di uno specchio per incipriarsi il naso.
Caccio le mani in tasca, sfiorando con le dita le chiavi della villa, registrando quanto ancora manchi alla chiusura effettiva.
«Serata lunga?»
Non riesco a crederci. Mi volto facendo perno sui talloni, trovandomi faccia a faccia con la violinista.
«Guarda che se vuoi accomodarti in sala, posso aiutarti a portare giù un’altra sedia» mormora, sfoderando un luminoso sorriso.
La mia salivazione si fa inesistente, il cuore inizia a battere in maniera irregolare, sento le ginocchia tremare e vacillare sotto il peso che l’inaspettato contatto fa gravare sul mio petto.
«Che c’è?» ridacchia «Il gatto ti ha mangiato la lingua?»
Vorrei avere modo di risponderle, ma il mio viso sta soffrendo per un’inesplicabile paralisi e la mia lingua sembra essersi letteralmente annodata.
Mi è impossibile far coincidere quella scherzosa punk in completo da sera con l’artista che fino ad momento fa stava conquistando trenta persone a colpi di archetto.
«Puoi farmi sgattaiolare fuori da qualche porta?» mi domanda, per nulla messa a disagio dal mio silenzio «O almeno aprirmi una finestra? Ho bisogno di fumare.»
Mi verrebbe da chiederle come ha intenzione di fare, visto che il suo zippo non funziona, ma, come a leggermi nel pensiero, lei estrae un nuovo accendino dalla tasca dei pantaloni.
«Ne tengo uno di scorta nella mia “divisa” da spettacolo» mi spiega, benché io non abbia ancora fiatato «La tensione è tanta, durante le esibizioni, e una sigaretta mi aiuta a distendere i nervi.»
Annuisco, per farle capire che comprendo.
«Allora, che si fa?»
Mi rigiro le chiavi tra le mani, stringendole fino a sentire le metalliche dentature segnarmi la pelle. Lungo i vari corridoi si deve essere assiepata una certa calca, tra tutti gli spettatori che hanno deciso di sgranchirsi le gambe, e sarebbe mio compito tenerli d’occhio, ma, dopotutto, cosa potrebbe mai accadere se mi dileguassi per cinque minuti?
Combatto il blocco che sento stretto intorno alla gola, forzando la mia bocca ad articolare parole sensate: «Seguimi.»
Cercando di non farmi notare, inizio a dirigermi verso la scala che conduce al piano superiore, ma vengo bloccata dopo pochi passi da una mano che mi si posa decisa sulla spalla.
«Dove credi di andare?»
Mi volto e mi trovo faccia a faccia con Rodney, l’uomo della security, che mi squadra severo.
«Dove la stai portando?» domanda secco, spostando lo sguardo sulla violinista per un istante «Non è autorizzata a lasciare lo spazio del concerto.»
«E che palle!» sbuffa la musicista dai capelli blu «Non posso neanche assentarmi due minuti per fumare una sigaretta nell’intervallo? Chi sei? Una guardia o mia madre?»
«Sono pagato per assicurarmi che non ti accada nulla di male» replica «Perciò, se proprio hai bisogno di una sigaretta, ti scorterò fuori.»
Lei sembra sul punto di ribattere, ma invece di formulare una frase, come mi aspetto io e come si aspetta l’energumeno, mi afferra la mano. Non faccio in tempo a realizzare di stringere tra le mie dita altre cinque che valgono un milione l’una, che la ragazza si lancia in una corsa pazza attraverso le stanze della villa, trascinandomi con sé.
Sento improperi provenire dalle nostre spalle, mentre mi spuntano le ali ai piedi.
Fortunatamente, le sale sono molte e per la maggior parte comunicanti, il che aiuta molto la nostra improvvisata fuga dalle autorità.
«Andiamo su» suggerisce la punk «Non ci troverà in torretta.»
Non so per quale ragione mi lasci trascinare senza opporre resistenza, ma forse questo imprevisto è esattamente ciò di cui non sapevo di avere bisogno, una distrazione ben accolta da quella che altrimenti sarebbe stata la conclusione d’anno più noiosa a memoria d’uomo.
Percorriamo le scale in volata, saltando diversi gradini e rischiando di romperci l’osso del collo ad ogni rampa.
Spalanchiamo la porta della torretta e ci accasciamo contro la parete cercando di regolarizzare il respiro.
«Hella awesome» commenta con un sorriso a trentadue denti «Non mi divertivo così da un sacco. Le serate qui sono sempre così divertenti?»
Anche avessi il fiato per risponderle, sono certa che non troverei le parole adatte.
«Allora» riprende, controllando il proprio ansimare «C’è una finestra da cui posso fumare?»
«Allarme» riesco a mormorare nonostante i polmoni in fiamme.
«Merda!» inveisce «Non c’è un altro modo?»
Osservo i suoi occhi azzurri supplicarmi e, contro ogni regola del buonsenso, annuisco. Sono consapevole di quello che sto facendo e so bene che va contro ogni indicazione che mi è stata data da Wells e dalla Grant, ma non mi importa.
Mi alzo, non senza fatica, e faccio cenno alla giovane dai capelli turchini di seguirmi.
La torretta è esattamente come l’abbiamo lasciata, con le cianfrusaglie abbandonate in giro e gli strati di polvere accumulati nel corso di decenni di incuria.
Guardandosi intorno, la fuggiasca mi rivolge un’occhiata incerta quando mi vede incamminarmi verso un enorme materasso appoggiato al muro.
Mi giro a studiare il suo sopracciglio inarcato in segno di dubbio quando le faccio cenno di venirmi ad aiutare. Lei si avvicina, non del tutto convinta, ma la sua espressione cambia quando comincia ad intravedere cosa si cela dietro il colosso trapuntato: una portafinestra, piuttosto malconcia, con la vernice scrostata e i vetri sigillati da pannelli di compensato fissati con il nastro isolante.
Vorrei spiegare alla mia inaspettata partner in crime di come abbia compiuto quella scoperta, appena il giorno prima. Warren è inciampato e si è appigliato al materasso, sperando di attutire la caduta, trascinandolo per terra con sé e rivelando il passaggio celato.
«Dove porta?» mi domanda, studiando la novità con interesse.
Invece di degnarla di una risposta verbale, preferisco mostrarglielo. Estraggo il mazzo di chiavi, selezionando quella più vecchia e malandata, un po’ proprio come la porta, e la infilo nella serratura di ferro, facendola girare.
Uno sbuffo gelido preme per entrare, facendomi rabbrividire per un istante, mentre metto piede sulla terrazza.
«Hella…» comincia a formulare una frase, ma la lascia in sospeso, rapita dal panorama.
Dall’alto della villa si scorge l’intera baia. Le luci delle feste decorano ancora gran parte della città, che brilla di svariati colori, in totale contrasto con il nero disarmante dell’oceano che si stende fino all’orizzonte. Le stelle sopra di noi verranno presto eclissate dai fuochi d’artificio per l’arrivo dell’anno nuovo, ma per ora rilucono del proprio bagliore millenario donandomi una tranquillità accentuata dal silenzio che ci circonda.
Il freddo è intenso. Il mio respiro si condensa appena lasciate le labbra e posso già sentire la punta del naso pizzicare ed intorpidirsi, ma non mi infastidisce, anzi, lo trovo piacevole.
Serro le palpebre per un qualche secondo, inspirando a fondo. L’aria glaciale è rinvigorente, sembra allontanarmi dal mondo soffocante che mi aspetta ancora dentro la Blackwell Manor.
Riapro gli occhi espirando rilassata, chiedendomi come mai non senta ancora odore di fumo.
«Che fai!?» Non ho idea da dove provenga la forza per spingermi a pronunciare queste prime poche sillabe.
Con le gambe penzoloni nel vuoto, seduta sul parapetto in equilibrio precario, la violinista fissa l’infinito.
«Scendi subito!» le urlo «Oddio, non ti avrei mai portato qui se avessi saputo che avresti finito per schiantarti di sotto.»
La testa blu si rivolge verso di me. «Ma allora sai dire più di quattro parole di fila.»
Rimango basita, con la mandibola spalancata.
«È meraviglioso qui» continua la ragazza, tornando a puntare lo sguardo verso Arcadia Bay.
«È pericoloso!» contesto, facendo un paio di passi avanti con cautela. Non riesco ad accantonare del tutto l’idea che voglia buttarsi nel vuoto.
Sento una risata provenire dalla figura in nero. «È proprio il pericolo a renderlo meraviglioso.»
«Ti prego, scendi» mi trovo costretta a supplicarla «Non dovrei neppure averti portato qui. Anzi, io stessa non dovrei averci mai messo piede! Sto contravvenendo a tutte le direttive dei miei superiori» le dico, quasi senza prendere fiato tra una frase e l’altra.
«Abbiamo qui una ribelle, eh?» sogghigna, voltandosi di centottanta gradi, la schiena rivolta verso l’abisso.
Sudo freddo.
«Per piacere» la imploro «Scendi.»
Le tendo la mano, in un disperato tentativo di richiamarla verso la sicurezza, ma non mi aspetto veramente che mi dia retta.
«Ok.»
Con un piccolo balzo, la violinista mi raggiunge, porgendomi ancora una volta quella mano che vale milioni di dollari.
«Sei più tranquilla adesso?» mi domanda, stringendo le mie dita con le proprie, così sicure eppure così delicate.
Annuisco, trovandomi ancora una volta muta, mio malgrado.
Restiamo immobili, senza alcuna ragione, a contemplarci.
Trascorrono un paio di minuti e mi rendo conto che la musicista sta tremando lievemente. È naturale che abbia freddo, visto che è in maniche corte quando la temperatura rasenta lo zero.
Riscuotendomi, la invito silenziosamente a rientrare e lei mi segue senza fare storie.
Serro la porta alle nostre spalle e risistemo il materasso per mascherare ancora una volta il passaggio.
Nonostante l’essere rientrate, posso vedere che il freddo ancora persista nell’infastidire la violinista. «Ecco, prendi» mi viene naturale offrirle la mia felpa, aprendo la cerniera con un unico movimento.
Le porgo l’indumento e lei lo accetta senza proferire parola. Se lo infila e cerca di non tirare troppo le maniche, visto che le sue braccia sono un po’ più lunghe delle mie.
«Dicono che la gente non si avvicina ai parapetti per via della paura inconscia di volersi buttare» dice, cogliendomi di sorpresa «Ma non capisco come mai tu avessi paura per me.»
Mi sembra una considerazione a dir poco stupida, chiunque avrebbe paura di vedere un’altra persona lasciarsi cadere nel vuoto.
«Credo che nessuno si sia mai preoccupato tanto per me» prosegue «Almeno non dopo avermi conosciuto sì e no per un paio d’ore.»
Persisto nel silenzio, meditando su quella considerazione. È molto triste sentirla esprimersi così, le sue parole trasmettono solitudine e abbandono, ma allo stesso tempo mi fanno provare una sorta di orgoglio che mi riscalda il cuore.
«Cazzo» impreca ridacchiando, tornando d’improvviso serena «Mi hai talmente distratta che mi è passata la voglia di fumare.»
Sorrido, incapace di condividere quel sollievo in altro modo.
La riconduco al piano terra senza lasciare il suo fianco. Percorriamo le scale l’una accanto all’altra, io seguendo il profilo del corrimano con il palmo destro, lei facendo dondolare le dita per sfiorare la mia mano sinistra.
La porta del salone è socchiusa e si può sentire un chiacchiericcio provenire dall’interno.
«Grazie» inizia la ragazza, riconsegnandomi la felpa e passandosi poi le mani per sistemarsi la cravatta e la camicia «Se ti va di entrare…»
«Eccola!» esclamano i due uomini della security, sbucando da un corridoio.
«Finalmente!» fa loro eco l’uomo in completo che riconosco come il pianista «Ti abbiamo cercato dappertutto! Se vogliamo concludere il programma prima di mezzanotte, dobbiamo riprendere subito.»
Lei strabuzza gli occhi, come se non comprendesse appieno il senso di quelle frasi, ma annuisce comunque in direzione del collega musicista.
Veniamo avvicinate dalle guardie, ma restiamo comunque ferme a scambiarci uno sguardo che non riesco a decifrare.
«Forza, Chloe, andiamo» rincara la dose il pianista, trascinando la giovane con sé.
Non sapevo neppure il suo nome.
Dalla fessura nel portone, la vedo avanzare riottosa verso il leggio, sfogliare lo spartito, recuperare il violino, riposto nell’apposita custodia, e in ultimo saggiare le corde con l’archetto.
Chloe alza lo sguardo, incontrando il mio.
«Va’» mi dice Drew, notando il nostro scambio a distanza «Stai sul fondo e non ti noterà nessuno.»
Sguscio dentro la stanza, rasente alla parete, senza staccare gli occhi da quelli della violinista.
Lei sorride e mi fa l’occhiolino, causando un lieve mormorio tra il pubblico.
Bacchetta delicatamente l’arco contro il leggio per far tornare a regnare il silenzio, poi posa il crine ad accarezzare lo strumento. Il petto si solleva leggermente quando prende un respiro più profondo, come per concentrarsi. La mano si inclina con un gesto naturale e l’archetto ne segue il movimento come se fosse una sua estensione. Una ciocca blu le scivola davanti agli occhi che si chiudono per qualche secondo.
Si spalancano in concomitanza con la prima nota.
Il vibrare dello Stradivari riverbera in tutto lo spazio, causando un effetto di risonanza che fa vibrare anche il mio diaframma.
Il mio respiro cambia con il ritmo della musica, facendosi dapprima andante, poi sincopato, poi allegro.
Tutte quelle sensazioni provate durante la prima metà del concerto tornano a farsi vivide, arricchendosi ad ogni nuova battuta, ad ogni vibrato, ad ogni armonico.
Serro le palpebre, concentrandomi solo sull’udito.
Sullo sfondo nero dei miei occhi chiusi prendono vita le luci della città osservate poco fa dal balcone. Ci sono i led verdi e rossi, quelli che vanno per la maggiore, insieme alle classiche lucine bianche che tentano di imitare lo splendore degli astri. I colori sembrano adattarsi alla musica creando giochi di riflessi che si modulano con il timbro dello strumento.
Schiudo le palpebre su un mondo diverso, fatto di vortici luminosi e di onde variopinte adagiati su uno specchio di pura oscurità. Al centro di tutto quanto, una figura in nero mi tende la mano, invitandomi a ballare.
La musica è forte, permeante, intrinseca del luogo stesso.
Osservo la sconosciuta in volto. Le sue iridi blu e i suoi capelli dello stesso colore rilucono più di ogni altra cosa, catturandomi con il loro invitante bagliore.
Accetto senza indugio l’offerta e mi ritrovo coinvolta in quello che potrebbe essere un valzer. Volteggio a mezz’aria, lasciandomi guidare da Chloe.
È un girare eternamente nell’ombra traforata di stelle, in quello spazio indefinito tra una nota l’altra, l’infinito sospeso al momento del salto nel vuoto, la frazione di immensità contenuta nel battito di un cuore.
La musica cessa. Uno scroscio di applausi prende il suo posto e la magia si infrange come uno specchio, frammentando il proprio riflesso in una miriade di universi che ormai non conservano che una scheggia dell’originale.
Tutto scorre in velocità: le persone mi passano accanto senza curarsi di me, come se fossi uno spettro, i due della security scortano via i musicisti e si assicurano che il prezioso Stradivari venga riposto al sicuro.
Io resto immobile, anche quando il countdown si fa imminente.
Mancano pochi minuti alla mezzanotte, alla conclusione di un anno e al battesimo di quello nuovo.
«Mica male lo spettacolo, vero?»
Il tempo rallenta, tornando alla normalità.
«Hella awesome» ribatto, scatenando nella mia interlocutrice una risata cristallina.
«Ecco, per ringraziarti della felpa» mi dice, porgendomi una rosa «Me ne hanno regalato un mazzo colossale, mi sembrava uno spreco non cogliere l’occasione per offrire un bel fiore ad una bella ragazza.»
Arrossisco, consapevole che le mie guance stiano prendendo lo stesso colore del bocciolo che stringo tra le mani.
«Manca poco alla mezzanotte» prosegue «Vogliamo andare a vedere i fuochi?»
Non c’è bisogno che risponda.
Facciamo a gara fino alla torretta, scaraventiamo lontano il materasso e ci ritroviamo entrambe con le gambe a penzoloni nel vuoto. Tra di noi, le nostre mani intrecciate stringono la rosa.
“Dieci.”
Dalle viscere della villa si innalza un verso di contentezza.
«Hai ragione, è davvero bello qui» mormoro.
“Nove.”
La natura si prostra ad un soffio di vento carico di salsedine che scuote la neve dalle fronde degli alberi.
«Te lo avevo detto» replica.
“Otto.”
Lo sciabordio delle onde lontane giunge alle mie orecchie, trasportato dalla brezza.
«Però non voglio buttarmi di sotto» commento.
“Sette.”
I suoni della natura meriterebbero di essere celebrati, ma il mondo ha orecchie solo per il conto alla rovescia.
«Lo spero» sogghigna.
“Sei.”
Il freddo si insinua sotto la felpa, facendomi tremare.
«Non so neppure il tuo nome» osserva.
“Cinque.”
La mano che stringe la mia trasmette calore, scacciando i brividi.
«Max» rispondo.
“Quattro.”
Il respiro della musicista si fonde con il mio in una nuvoletta candida che si dissolve nella notte.
«È un bel nome» mi dice.
“Tre.”
Le note echeggiano nella mia mente, rievocando quel luogo favoloso di luci e musica.
«Io sono Chloe» continua.
“Due.”
Il mio cuore batte all’unisono con quello della ragazza dai capelli blu. Non posso sentirlo fisicamente, ma lo sento.
«Lo so. Forse, l’ho sempre saputo.»
“Uno.”
Il mondo è in attesa, si prepara al cambiamento, anche se, forse, nulla cambierà davvero.
Silenzio.
“Buon anno!”
Il tempo si ferma. Potessi, lo riavvolgerei all’infinito per rivivere l’istante in cui Chloe salta all’indietro, atterrando sicura sulla terrazza, portandomi con sé per accogliermi tra le sue braccia e stringermi in abbraccio caldo e rassicurante.
La rosa giace tra le nostre dita intrecciate.
Gli occhi della violinista brillano più dei fuochi che sento scoppiare alle mie spalle.
Quando le sue labbra si posano sulle mie, nelle orecchie mi risuona la melodia dello Stradivari. Sulle sue note limpide, accompagnate dal crepitio dei botti, mi lascio trasportare nel nuovo anno.
Questa volta, non sto sognando ad occhi aperti.
 
 

NdA: senza stare a perdermi in chiacchiere, ero indecisa fino all’ultimo se pubblicare o meno questa OS perché le storie di capitoli autoconclusivi non sono mai state il mio forte. La mia beta wislava mi ha offerto tutto il proprio supporto e mi ha convinta a mettere online anche questo lavoro, quindi incolpatela pure, è una complice consapevole. Tutto sommato, mal che vada, questa storia resta un ottimo pretesto per farvi un augurio di buon anno Pricefield.

 
   
 
Leggi le 4 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Videogiochi > Life Is Strange / Vai alla pagina dell'autore: GirlWithChakram