Capitolo
I
Problemi
adolescenziali. Tutti ce li hanno. Tutti hanno uno di quelli che
reputano
insormontabile. Amici, ragazzi, scuola, famiglia. Sono le quattro cose
che
accomunano quasi tutti gli adolescenti; quelle cose a cui molti di loro
si
aggrappano, per trovare un rifugio, una salvezza. E spesso si sta con
gli
amici, si va a ballare e si cerca di fuggire da determinate cose che
riempiono
la propria vita. Diciamo che quelle parole non mi descrivevano a pieno;
in quel
momento niente riusciva a descrivermi. Aver perso mio padre mi aveva
destabilizzato mentalmente. C'erano periodi in cui non mangiavo, non
uscivo più
di casa, in poche parole la depressione ed il dolore si erano fatti
spazio
dentro di me. Superarlo era stato difficile; diciamo che ci stavo
ancora lavorando
ma non lo avrei più fatto nella mia amata città.
Il Canada. Quando a mia madre
avevano offerto un lavoro lì, non ci aveva pensato due volte
a trasferirsi. Era
tornata a casa, da un giorno all'altro, dicendo che avremmo cambiato
vita.
Sapevo perchè aveva così tanta voglia di andare
via. Ogni angolo di casa le
ricordava papà e per questo di certo non la biasimavo. A
tutti faceva questo
effetto, tanto che mia sorella arrivò a chiedere o meglio a
pregare, per andare
in Francia a studiare con uno scambio culturale. Josepin non era forte
come me
e sapevo che non ce l'avrebbe fatta a vivere ancora lì, con
il ricordo vigente
di papà. Così l' aiutai a realizzare questa cosa
e da circa un mese era partita
per Parigi. Avrebbe finito lì le superiori e poi sarebbe
tornata in America.
Mentre io, in quel preciso istante, mi trovavo incollata ad un sedile
contro la
mia volontà. Lasciare la Florida era come lasciare un pezzo
di me, ma non
potevo dire a mia madre che rifiutavo questo trasferimento. Stava
già soffrendo
troppo e non volevo caricarla di pensieri ancor di più. Ed
ora ero su quel volo
verso Montreal, in Quebec. Non sapevo come sarebbe stata la mia vita
li;
speravo solo di ambientarmi il prima possibile.
«Victoria
svegliati,
siamo arrivati»
cercai di aprire
gli occhi mentre la hostess cominciava a dire le solite parole di fine
volo.
Almeno il tempo oggi non faceva così schifo. C'era il sole
e, benchè fosse
ancora agosto, qui cominciava già a fare freddo. Avrei
dovuto solo abituarmi.
Mi allacciai la cintura ancora sbadigliando mentre mia madre,
letteralmente
euforica, continuava a sorridere.
«Cos'è,
non vedi
l'ora di scendere?»
le dissi prendendo
il cellulare che, per ore, avevo dovuto abbandonare nel fondo della
borsa.
«Sarà
un'esperienza
nuova. Non vedere sempre le cose in modo negativo. Vedrai che ti
troverai bene»
le sue parole avrebbero dovuto
rassicurami, ma mi crearono solo più ansia di quella che
già mi portavo dietro.
Uscire dall'aeroporto era sempre stata un'impresa soprattutto con una
mamma che
sembrava una dodicenne euforica. Capivo che fosse contenta, ma doveva
smetterla
di esaltarsi così. Ma in fin dei conti ero felice del fatto
che finalmente,
dopo tanto tempo, fosse riuscita a ritrovare quello spirito che l'aveva
sempre
contraddistinta. Lavorando nel reparto di oncologia come medico aveva
sempre
cercato di essere solare, specialmente perchè lì
ne vedeva di tutti i colori. E
dopo la morte di papà non lo era stata più. Ed
ora invece stava tornando pian
piano e sperai che rimanesse, senza svanire di nuovo.
«Dove
sarà casa
nostra?»
dissi fissando il
paesaggio da dietro il finestrino.
«Un
po' in periferia»
rispose mia madre fissando la strada.
«Fuori
dal mondo,
perfetto»
conclusi
sospirando.
«Avrai
la metropolitana
a due passi. Perciò scordati di rimanere a casa»
Perentoria
lei.
«Ma...»
e ovviamente mi interruppe
«Ho
parlato con la
federazione del pattinaggio canadese»
niente
di buono immaginai «Mi
hanno detto che non c'è problema. Potrai allenarti con loro»
ecco, appunto.
Sapevo che avrebbe fatto uno dei suoi soliti sotterfugi. Prima della
morte di
mio padre il pattinaggio era la mia vita. O meglio, era una delle mie
più
grandi passioni insieme al tiro con l'arco. Lui era un tiratore esperto
ed
inoltre, da giovane, aveva giocato ad hockey. Con lui passavo i sabati
in
questo modo. O andavamo a pattinare, o a tirare con l'arco. Dopo la sua
morte
non toccai più nessuno dei due. L'arco rimase in garage,
appeso con tutti
quelli che mio padre collezionava e per quanto riguarda i pattini,
decisi di
darli in pasto alla polvere. Non ricordavo neanche con quale scusa
avevo
rifiutato il programma olimpico. Ma non riuscivo più a fare
nulla. Tutto, ogni
cosa, mi ricordava lui ed era difficile andare avanti. Così
aprì un blog,
buttandomi a capofitto nella lettura. Era l'unica cosa che mi faceva
sognare e
mi faceva dimenticare tutto.
«Tanto
io non ci vado»
dissi sbuffando.
«Victoria
i tuoi
capricci non voglio sentirli. Devi ricominciare a vivere. Non puoi
rintanarti
per sempre dietro ad una finestra»
rispose parcheggiando in un vialetto.
Aveva ragione purtroppo. Per quanto io potessi oppormi e sbuffare,
aveva
davvero ragione. Dovevo smetterla di piangere su un qualcosa che ormai,
purtroppo, era accaduto e non si poteva cancellare. Forse ci avrei
provato, ma
mi sarebbe servito del tempo per riflettere.
Svuotare i pochi scatoloni che avevano trasportato qui dalla Florida
non si
rivelò affatto difficile. Alla fine avevo deciso di portare
qui solo poche
cose. Le altre che mi ricordavano pienamente una parte di vita
trascorsa in Florida,
le avevo letteralmente bruciate. E non perchè non mi
piacessero; ma
semplicemente perchè mi ricordavano troppo. In uno dei due
scatoloni che mi
portai dietro, ritrovai una custodia fin troppo familiare. Non riuscivo
a
trattenere le lacrime perchè era tutto quello mi ricordava
mio padre e i nostri
pomeriggi. Il mio arco nero era lucido come sempre e, già
solo prendendolo tra
le mani, mi tornò in mente mio padre. Lui amava tirare con
l'arco e io insieme
a lui. Sinceramente non sapevo cosa farmene. Non lo avrei mai
riutilizzato. Per
cui, perchè l'aveva portato qui? Sapeva che vederlo mi
avrebbe fatto soffrire.
«So
che non avrei
dovuto»
ancora con le
lacrime agli occhi alzai lo sguardo, e trovai mia mamma appoggiata allo
stipite
della porta.
«Perché?»
dissi in preda ai singhiozzi «Sai
quanto ci sto male!»
non avrei voluto arrabbiarmi, ma era
più forte di me.
«Victoria»
fece una pausa «lo
so»
disse avvicinandosi
e abbracciandomi «Ma
non puoi per
sempre nascondere le tue paure»
«Ma
io non ce la
faccio»
le lacrime
continuarono a scendere incessantemente.
«Sai,
anche io
credevo di non farcela, di crollare. Ma ho stretto i denti e sono
andata
avanti. Tuo padre non vorrebbe vederti così; e lo sai»
Su questo aveva ragione. Mio padre non ci avrebbe mai voluto vedere in
questo
modo, non avrebbe mai voluto vedermi abbandonare le mie due passioni.
Ma il
dolore ogni volta mi lacerava e non avrei mai saputo come rimediare. Ma
ci
dovevo provare; dovevo essere forte per lui.
«Va
bene»
dissi
annuendo poco convinta «Appendiamolo
e andrò al palazzetto un
giorno di questi»
Mi voltai e vidi gli occhi di mia madre illuminarsi. Sapevo quanto
fosse felice
per questo, e avrei fatto uno sforzo per non deludere le sue
aspettative. Presi
il martello, i chiodi e cominciai ad appendere l'arco in un angolo
della
stanza. Poi ripresi i mie pattini bianchi, li tolsi dalla custodia che
li aveva
conservati perfettamente, e decisi di appendere anche quelli. Era
quello che mi
aveva sempre detto anche la mia psicologa; affrontare il passato, le
difficoltà. Forse ciò mi avrebbe aiutato a
convivere meglio con la morte di mio
padre.
«Victoria,
puoi
andare a chiedere del sale?»
urlò
mia madre dalla cucina.
«A
chi lo chiedo? Ai
fantasmi?»
dissi scendendo
velocemente i gradini.
«Spiritosa,
ai vicini.
Sai che tutti ne hanno?»
«Di
cosa? Di
confezione di sale? Perché a quanto pare noi ne siamo
alquanto sprovvisti»
«Dai
Victoria, vorrei
cucinare. Almeno potremmo finalmente mangiare qualcosa»
affermò ridendo.
«Mamma,
un passo alla
volta però»
«Dai,
sono dei vicini
non dei mostri. Magari ti farai dei nuovi amici»
era così convinta che annuiva senza accorgersene.
«Ho
capito, vado.
Altrimenti mi lasci anche
a digiuno»
dissi uscendo.
Mamma non capiva che per me relazionarmi con gli altri era alquanto
complicato.
Sono sempre stata abbastanza timida e con pochi amici. Di solito
preferivo
starmene da sola. Diciamo che la mia migliore amica era stata da sempre
la mia
allenatrice. Oltre a mio padre, era l'unica con cui andavo
più d'accordo. Ma
dovevo cambiare o, almeno, ci dovevo provare. Città nuova,
vita nuova diceva
mia madre; ma non ne ero poi tanto convinta. Bussai respirando a fondo
l'aria
fresca di agosto e sperando che almeno fossero gentili. Aspettai si e
no due
minuti, quando sentii cigolare la porta. Mi voltai lentamente e mi
ritrovai
davanti uno spettacolo che non avrei, forse, voluto vedere. Un ragazzo
alto
circa 1.80, con gli occhi verdi e con i capelli di un castano molto
scuro,
quasi nero. Portava un paio di jeans blu ed era senza maglietta. Spalle
larghe,
corpo possente. Non riuscivo a distogliere lo sguardo, fino a quando un
suo
sorriso mi mandò ancora più in pappa il cervello.
«Beh?»
aveva
un ghigno dipinto sul viso e io
dovevo cercare una risposta la più presto.
«Sono
Victoria, la
vostra nuova vicina. Vorrei sapere se avete un po' di sale da prestarci»
dissi tutto d'un fiato cercando di
prendere più aria possibile per respirare.
«Ti
sembro un
supermercato io?»
rispose quasi sbadigliando.
Detto ciò mi chiuse la porta in faccia ed io rimasi
là, impalata come un'ebete.