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Autore: QueenOfEvil    10/01/2018    4 recensioni
«La vita dei morti si poggia sulla memoria dei vivi». E questo Cicerone l'ha sempre saputo.
Un piccolo tributo ad uno dei più grandi incubi di ogni classicista -ma a cui, in fondo in fondo, vogliamo tutti un po' bene- una settimana dopo il suo compleanno.
Auguri in ritardo, Marco.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Antichità greco/romana
- Questa storia fa parte della serie 'Ad augusta per angusta'
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Vita mortuorum in memoria est posita vivorum

 

Facendo un rapido bilancio dei suoi anni, Marco Tullio Cicerone avrebbe potuto affermare di avere vissuto intensamente.

Aveva assistito al periodo delle Guerre Civili -e mehercule! vi aveva anche partecipato, malgrado disprezzasse la vita militare- ed era entrato, homo novus attorniato da patrizi, nella società romana con una tenacia dirompente, un coraggio che in quel momento -il capo appoggiato contro il legno della sua portantina- non poté che riconsiderare con un sorriso amaro. Si era schierato contro Silla, quello stesso Silla sotto cui aveva combattuto appena sedicenne, in un processo che avrebbe potuto rappresentare la sua fine -metaforica e letterale- nel caso non avesse vinto o, peggio, non avesse, subito dopo, intrapreso quel «viaggio di piacere» in Grecia.

E quella non era stata l’unica volta in cui la sua tendenza ad andare contro corrente gli aveva causato dei problemi.

Da lì, la sua vita era stata un turbine di avvenimenti, più o meno gloriosi, più o meno lieti: dalle sue orazioni contro Catilina -che ancora erano lì, sulla punta della sua lingua, quel quo usque tandem che risuonava nella sua mente, così come aveva risuonato tra le mura del Senato, con la stessa potenza, immutata passione per la libertà della res publica- al lungo e sofferto esilio. Dal suo ritorno nell’Urbe trionfale, esaltante - e aveva davvero pensato di poter essere il salvatore dello Stato in quel momento, di poter riuscire a risanare quello che molti altri avevano infettato con costumi lascivi e immorali- al turbine di eventi che lo aveva, alla fine, travolto, con la salita al potere di Cesare, il suo omicidio, la comparsa sulla scena di Ottaviano, il secondo triumvirato e infine…

Questo.

C’erano stati lutti pubblici e lutti privati -la sua cara Tulliola, dolce quanto e più del miele… era davvero giusto che un genitore sopravvivesse ai propri figli?-, vittorie reali e vittorie apparenti, momenti in cui si era sentito completamente soddisfatto di chi era, chi era stato, chi era diventato, e periodi -come durante la stesura del De Senectute- in cui aveva temuto che il suo momento sarebbe arrivato in fretta, troppo in fretta, e che non sarebbe stato pronto.

Non era tutt’ora pronto.

Perché sì, Marco Tullio Cicerone poteva dire di avere vissuto, ma continuava ad avere la sensazione, bruciante nel petto, di non avere vissuto abbastanza.

Forse non avrebbe dovuto scrivere quelle Filippiche, forse non avrebbe dovuto prendere una posizione così contraria a quello che si sarebbe poi rivelato il braccio destro di Ottaviano, ma le vie di mezzo non erano mai state la sua specialità ed il comportamento che aveva tenuto negli anni passati, seppur a volte incoerente, non sempre brillante di quel coraggio che lo aveva animato nelle sue prime orazioni, era qualcosa di cui andava fiero.

Era fiero di chi era.

Era fiero del suo titolo di homo novus che, alla fin fine, si era dimostrato molto più romano di chi nella Caput mundi era nato, ma che non l’aveva mai amata come aveva fatto lui.

Era fiero delle sue scelte, dei suoi tentativi di riportare Roma sulla retta via, della fama che aveva conquistato e che, ne era sicuro, sarebbe stata tramandata ai posteri. Perché una spada avrebbe potuto mettere fine alla sua vita, ma mai, mai avrebbe fermato la forza delle sue parole. Del messaggio che aveva cercato di trasmettere e che, sperava, qualcun altro avrebbe recepito.

Non era riuscito nel suo intento, ma, con un po’ di fortuna, qualcuno avrebbe raccolto il suo testimone. E se anche non fosse stato così, un giorno chi sarebbe venuto dopo di lui avrebbe capito quello che stava tentando di realizzare. Avrebbe capito chi era stato.

Lui era Marco Tullio Cicerone e sarebbe morto come era vissuto.

Prese un respiro profondo e rivolse un ultimo pensiero alla sua famiglia -sì, anche a Terenzia, che malgrado tutto perdonava- e ai suoi amici -chissà se ad Attico sarebbero mancate le sue lettere?-, prima di sporsi dalla portantina e torcere il collo verso l’alto, lo sguardo diretto verso i suoi sicari.

Atropo1 recise il filo della sua vita talmente in fretta che non se ne accorse neanche.

Ma, quando le sue mani e la sua testa vennero esposte, come segno di scherno e disprezzo, nella piazza del Senato, sul suo viso c’era ancora traccia della forza che lo aveva animato in vita.

Vita mortuorum in memoria est posita vivorum aveva una volta scritto lui stesso e noi ancora adesso lo ricordiamo come avrebbe voluto.

Scomodo per molti, amato da altrettanti, illustre nella sua determinazione.

 

 

 

 

 

 

 

 

E, diciamocelo, anche nella sua lingua lunga e aria da pallone gonfiato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Cosa sto facendo della mia vita.

Sinceramente, ma davvero tanto sinceramente, per metà pomeriggio ho continuato a ripetermi che avevo di meglio da fare che scrivere una fanficition su Cicerone. Perché è una cosa atrocemente nerd, perché quel vecchio pallone gonfiato proprio non se la merita per le ore che mi sta facendo passare sul suo dannatissimo De Amicitia e perché probabilmente non ci sarei mai riuscita.

Ma, dato che la coerenza ed io andiamo d’accordo come il sopracitato pallone gonfiato e Catilina, ho voluto provarci lo stesso, perché il nostro buon vecchio Marco è un personaggio che ammiro tantissimo ed è sempre divertente tradurre le sue lunghe, lunghissime frasi in cui alla fine magari ha detto solo che il cielo è blu, ma lo ha detto in modo talmente elaborato che ti sembra ti abbia fatto scoprire i misteri dell’universo.

(E perché detesto Marc’Antonio come forse poche persone nella Storia antica e moderna e non gli perdono di averlo ucciso in quel modo indegno)

In teoria avrei dovuto postarla per il suo compleanno (quindi una settimana fa), ma non ce l’ho fatta: vedila così, Marco, un regalo di compleanno un po’ in ritardo da una tua allieva che vorrebbe, un giorno, diventare anche lei un(a) principe(ssa) del foro.

Spero di non aver fatto confusione con nomi, fatti, date: amo la storia romana, ma ho sempre la sensazione di non saperne abbastanza. 

Se qualcuno è appassionato di Cicerone come me e vuole lasciarmi un commentino, in ogni caso, ne sarò più che grata!

Alla prossima (perché sì, avevo una mezza idea di scrivere anche su Machiavelli e Caligola, ma non ne sono del tutto sicura),

L_A_B_SH

 

 

 

1  Sono sicura che non ci sia bisogno di spiegarlo, ma tanto vale… Atropo era la terza Moira (o Parca), quella che recideva il filo della vita e quindi… beh, ammazzava la gente. Una signora carina e gentile, insomma.

   
 
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