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Autore: minaharker    14/01/2018    1 recensioni
Il mare cristallino, di quel colore azzurro verdognolo, l’odore delle alghe e della cucina di mia madre che invadevano la mia stanza, ero l’unica che non era costretta a condividerla con qualcuno- La piccola camera dipinta di giallo paglierino, con le foto appese ai muri e i mobili bianchi, una sedia di plastica verde e tutte le mie cose sparse un po’ ovunque.
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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One: Another airplane, another sunny place. 

Guardai attraverso la piccola finestra appannata della mia camera, spostando con due dita la piccola tendina di merletto bianco. La finestra dava sulla strada e l’unica cosa che riuscivo a vedere era l’immensa distesa verdeggiante di Burgess Park che in primavera pullulava di persone, soprattutto di mamme con i loro bambini e i passeggini, impegnati nella loro passeggiata pomeridiana. Il prato verde era in contrasto con i colori sgargianti dei fiori appena sbocciati, il cielo terso, non molto diverso da quello della mia Irlanda. Mi sedetti sulla poltroncina gialla dalla stoffa ormai scolorita e consunta sulla seduta e sullo schienale, posta proprio vicino alla finestra, presi uno dei biscotti al caramello e cioccolato e sorseggiai la tisana allo zenzero dalla mia tazza azzurra a pois bianchi.
 
Avevo bisogno di una pausa, per la gioia dei miei vicini.
 
Avevo provato i miei spartiti per più di tre ore, il violoncello di legno lucido e levigato era ora poggiato sul letto –  probabilmente l’unica cosa di valore in tutto l’appartamento. L’archetto era invece sulla scrivania di legno laccata di bianco, ormai scrostata in tanti punti a causa dell’umidità, tra un mare di spartiti, trucchi, post-it gialli e penne colorate. La stanza era piccola e accogliente, come il resto della casa, le pareti bianche lavabili erano ormai piene di foto di casa mia, della mia famiglia e dei miei amici lontani, ma anche delle persone che facevano parte della mia nuova vita qui a Londra. Soprattutto i membri dell’orchestra di cui facevo parte. Mi strinsi nel cardigan beige e mi sistemai una ciocca di capelli rossi dietro l’orecchio, sospirai pensando alla serata che mi aspettava: avrei suonato con un quartetto d’archi ad una raccolta fondi alla Royal Albert Hall quella sera. Era già tutto pronto, il lungo vestito di raso nero e un paio di sandali dello stesso colore, un paio di orecchini con piccoli zirconi e un sottile orologio placcato in oro.
Non aveva senso provare ancora e probabilmente era meglio iniziare a prepararsi per la serata, erano ormai le quattro del pomeriggio e i musicisti – come da contratto – sarebbero dovuti arrivare alle sei in punto. Mi diressi nel piccolo bagno dalle mattonelle azzurre – appena scheggiate in alcuni punti – mi guardai allo specchio mentre tentavo di tenere su la chioma per evitare che si bagnasse sotto la doccia. Mi spogliai, gettando la biancheria intima, i pantaloni della tuta grigi, il cardigan e la t-shirt bianca e tremendamente rovinata che indossavo nel cesto dei panni sporchi di tela grigia, posto in un angolo del bagno. Entrai sotto il getto d’acqua tiepida, che mi arrossò subito la pelle diafana e lentigginosa, e mi concessi una doccia rilassante fatta di bagnoschiuma al ginepro comprato al supermercato e una crema corpo al miele leggermente più costosa e ricercata, comprata da Neil’s Yard. Quando uscii mi avvolsi nel pesante asciugamano di stoffa giallo paglierino e mi sedetti sul piccolo sgabello di plastica blu per asciugare almeno i piedi e le gambe. Decisi poi di finre di asciugarmi in camera, seduta sul letto. Una volta finito di asciugarmi, ancora avvolta nell’asciugamano, sprofondai per cinque minuti il viso nel cuscino dalla federa a righe bianche e azzurre, come facevo ogni volta che ero costretta ad uscire e non mi andava. Quando mi fui ormai rassegnata, mi alzai e presi della biancheria intima di raso color borgogna che avevo comprato da poco, erano un paio di mutandine alte in vita e un reggiseno dal bustino largo senza spalline. Poi mi sedetti alla scrivania, aprii uno dei cassetti e iniziai a frugare tra i miei trucchi per trovare ciò che mi serviva: correttore, matita nera, eyeliner, mascara e lucidalabbra rosa pallido. Non ci misi molto a truccarmi – non che non amassi farlo – semplicemente non amavo indossarne molto, trovavo il mio viso molto più bello al naturale. Per i capelli non c’era molto che potessi fare, erano rossi, voluminosi e indomabili. Non perfettamente ricci, ma neanche lisci, leggermente ondulati e crespi. Provai a sistemarli come meglio potevo prima di procedere con il vestito: era un abito che avevo comprato il mese scorso, proprio per questa serata, aveva le spalline sottili e lo spacco fino al ginocchio e una scollatura profonda. Avevo preso anche una giacca nera dal taglio molto classico da abbinarci e delle scarpe tremendamente scomode e costose – molto più di quanto mi piacesse ammettere – ma a cui non avevo saputo resistere. Erano quel tipo di scarpe che mi pentivo di aver comprato dopo averle tenute ai piedi per cinque minuti, ma che non potevo fare a meno di avere nel mio armadio.
 
Mi vestii e poi mi diressi verso la porta d’ingresso, trascinando con me il pesante violoncello nella sua custodia nera. Arrivata davanti alla porta, diedi un’ultima occhiata alla casa per controllare che tutto fosse a posto, poi presi le chiavi dal piccolo gancetto che avevo attaccato accanto alla porta e le infilai in borsa, ebbi quasi difficoltà a mettercele a causa dell’ingombrante portachiavi che mi aveva regalato mia madre – un leprecauno di peluche alto 5 centimetri –. Mi fermai davanti alla porta dipinta di grigio dell’ascensore e aspettai per qualche minuto che si aprisse. Nella piccola cabina rivestita di pannelli di finto legno non potevano starci più di tre persone, la pulsantiera di metallo era scolorita e molti numeri erano quasi illeggibili, faceva uno strano rumore metallico e la luce spesso non funzionava, per questo detestavo prenderlo la notte. Scesi fino al piano terra, l’atrio tinto di un pallido bianco ocra era al buio, la luce si accese soltanto quando iniziai a muovere i primi passi, illuminando tutta l’area di una luce bianca e fredda, anch’essa un po’ intermittente.
 
Fortunatamente ero stata lungimirante e avevo comprato una nuova giacca.
 
Nonostante fosse aprile, quando il sole tramontava, l’aria diventava estremamente fredda. Trasportai il pesante violoncello sulle spalle fino alla fermata del bus, dovrei avrei preso il 363 fino a Elephant & Castle. Fui fortunata quel pomeriggio, il bus grande e rosso passò dopo appena due minuti e – per la mancanza di traffico – ci mise solo un quarto d’ora ad arrivare a destinazione. Camminai fino alla stazione della metro, non molto lontana dalla fermata: mi bastò attraversare la strada e scendere le scale illuminate dalla luce bianca. Le piastrelle bianche erano coperte di graffiti e l’asfalto sporco era tappezzato di cicche di sigaretta. Arrivai al binario ebbi fortunatamente il tempo di posare il violoncello e massaggiarmi un po’ la spalla, il monitor segnava che il prossimo treno sarebbe arrivato dopo circa quattro minuti. Non c’erano molte persone con me, giusto qualche turista e degli studenti che tornavano a casa dopo le lezioni e quando arrivò il treno – portando con sé una ventata di aria fredda e un rumore assordante – entrai nel vagone quasi vuoto, ma decisi comunque di rimanere in piedi, posando ancora una volta la custodia per terra e tenendola in equilibrio con un braccio, mentre con l’altra mano mi tenevo aggrappata ad una delle maniglie gialle. L’interno bianco del treno, con i suoi sediolini blu, mi era estremamente familiare, era quello che qualche volta prendevo per andare alle prove con l’orchestra al Barbican Centre o alle varie serate in giro per la città.
 
Era un anno che vivevo a Londra, un anno da quando avevo lasciato Adare – un piccolo villaggio poco lontano da Limerick, nell’Irlanda Sud-occidentale – e con esso la mia famiglia e i miei affetti più cari. Non era stata una decisione facile, pensavo sempre di mollare tutto e ritornare a casa, nel mio posto sicuro. Ripensai a ciò che avevo lasciato, a mia madre e alla sua cucina sempre in disordine, una pentola piena di cibo sul fuoco. A mio padre e alle sue mani callose, dure, piene di cicatrici e la sua barba rossa e folta. Ai miei fratelli e le loro famiglie che amavano ancora cenare spesso con noi, riempiendo la casa di bambini e di chiasso, senza il quale non potevo vivere. Ripensai a lui, Ciaran, l’accenno di barba nera, i capelli ricci non troppo corti e la pelle abbronzata. Il modo in cui ci eravamo lasciati, ormai troppo incompatibili. Lui legato alla sua terra, troppo per cercare una vita migliore altrove o per seguirmi e permettermi di realizzare il mio sogno con lui.
 
Il mare cristallino, di quel colore azzurro verdognolo, l’odore delle alghe e della cucina di mia madre che invadevano la mia stanza, ero l’unica che non era costretta a condividerla con qualcuno- La piccola camera dipinta di giallo paglierino, con le foto appese ai muri e i mobili bianchi, una sedia di plastica verde e tutte le mie cose sparse un po’ ovunque.
 
Ritornai alla realtà quando venne il momento di cambiare linea alla fermata di Piccadilly, dove trovai decisamente più persone di quelle che avevo trovato ad Elephant & Castle. Mi trovavo ormai in pieno centro, tra le orde di turisti e abitanti della città, diretta verso South Kensington, un’area che amavo particolarmente.
 
 
 
La pietra rossa dei palazzi sotto il cielo grigio e le nuvole cariche di pioggia, l’asfalto bagnato e nero come la pece.
 
In questo treno non trovai molto spazio, dovetti sgomitare un po’ per far entrare il violoncello, ma alla fine ci riuscii e dopo circa dieci minuti arrivai a destinazione. Davanti alla Royal Albert Hall c’era già un gruppetto di persone pronte ad entrare, diversi uomini eleganti che lasciavano le loro macchine ai parcheggiatori. Io entrai dall’entrata secondaria e lasciai la mia giacca nello spogliatoio, per poi dirigermi verso il palco dove avrei suonato con altri tre musicisti – due violini e una viola – che trovai già lì al mio arrivo. Eravamo pronti per iniziare a suonare una volta che gli ospiti fossero arrivati, conoscevo bene solo uno di loro – Rachit – ed era grazie a lui che avevo ottenuto questo ingaggio, dopo che il loro violoncellista lì aveva abbandonati per partire per l’Argentina con il suo ragazzo. Chiacchierai un po’ con gli altri due e scoprii che erano una coppia e che di solito suonavano in due, senza pretese, anche in strada se ne sentivano il bisogno. Parlammo ancora per un po’ del più e del meno mentre aspettavamo che la serata cominciasse con il noioso discorso dell’organizzatore che ci avrebbe dato il via libera per iniziare a suonare.
 
 
 
 
 
Author’s corner:

Ho meditato a lungo su questa storia e l’ho cancellata numerose volte.
Questo è il primo capitolo, introduttivo, più breve di quanto mi aspettassi.
Prometto che i prossimi saranno molto più ricchi di contenuti e di dettagli.
1 il titolo è tratto da una citazione di marilyn manson
2 il titolo del capitolo è tratto dal verso della canzone “Home” di Michael Bublé
 
 
 
  
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